sf. [sec. XV; dal greco ō(i)dḗ, canto]. Componimento poetico di metro e di contenuto vario, che veniva in origine cantato con accompagnamento musicale.

Letteratura

Nell'antichità greca scrissero odi i grandi lirici dei sec. VII e VI a. C.: Saffo, che vi espresse la sua passione amorosa, Alceo, che vi rispecchiò il suo impegno politico e sociale, Alcmane, che vi manifestò la sua squisita sensibilità, poi Anacreonte, Pindaro, Bacchilide. A Roma l'ode, ormai staccata dall'elemento musicale, si chiamò più comunemente carmen ed ebbe i massimi cultori in Catullo e Orazio. Fu ripresa in Italia nel Cinquecento da G. G. Trissino e L. Alamanni, che imitarono soprattutto l'ode pindarica, mentre B. Tasso tenne presente il modello oraziano. Il genere, che si estese alle letterature europee, ebbe fortuna fino ai primi decenni del nostro secolo. Si ricordano le odi di Chiabrera e dei poeti arcadici, di Parini, ricche di contenuti morali e sociali, le odi classicheggianti di Foscolo, le odi civili di Manzoni, quelle di Carducci, di Pascoli, di D'Annunzio. In Francia composero odi Ronsard, J. B. Rousseau, Hugo; in Inghilterra, Wordsworth, Coleridge, Keats, Shelley; in Germania, Klopstock, von Platen, Hölderlin.

Musica

Nel Rinascimento fu chiamata ode una forma musicalmente affine alla frottola (si ricordi l'Odhecaton, 1501, di O. Petrucci, la prima raccolta a stampa di brani musicali, comprendente appunto cento odi). Nello stesso periodo furono inoltre compiuti tentativi di musicare le odi di Orazio rispettandone la metrica (da K. Celtis e altri). In seguito il termine fu riferito genericamente a una composizione per voci e strumenti, di forma e carattere vari, in stile analogo a quello della cantata: sono esempi celebri l'Ode a S. Cecilia di G. F. Händel, l'Ode a Napoleone di A. Schönberg e l'Ode per la fine della guerra di S. Prokofev.

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