Bergman, Ingmar

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Biografia

Regista svedese (Uppsala, 1918- isola di Farön, 2007 ). Debuttò in teatro nel 1943, svolgendo attività a Helsingborg, Göteborg, Malmö e, dal 1963, al Teatro Drammatico di Stoccolma. Le sue messinscene più note sono state quelle di Urfaust di Goethe a Malmö, di Hedda Gabler di Ibsen, Woyzeck di Büchner e Il sogno di Strindberg nella capitale. Come regista cinematografico si impose negli anni Cinquanta e Sessanta con film da lui stesso scritti, qualificandosi tra le personalità dominanti della cultura contemporanea. L'insieme della sua opera cinematografica appare come un drammatico interrogativo, spesso senza risposta, sull'esistenza dell'uomo, il male di vivere, la presenza o assenza di Dio. L'angoscia di non comunicare, l'ambiguità e la duplicità della natura umana, la solitudine senza prospettiva in un mondo che è finzione, o silenzio, o vergogna sostanziano il dibattito fluido e inarrestabile che percorre ogni suo film. Figlio di un pastore protestante, il cineasta reca in sé un'eredità religiosa luterana e una matrice filosofica che è quella di Kierkegaard, completata dagli esiti pessimistici dell'esistenzialismo contemporaneo e dagli strumenti della psicanalisi freudiana. Per lui non sono importanti la società o la storia quanto, appunto, il mestiere di esistere. E tuttavia l'artista non è cupo o inaccessibile; prevale anzi nel suo linguaggio il bisogno tutto teatrale di far spettacolo delle proprie contraddizioni e ansietà, accanto al desiderio vitalistico di scandagliare con la cinepresa ogni recesso dell'anima e ogni segreto del volto. Straordinario direttore di attori (e particolarmente di un aureo gruppetto in cui prevalgono le due Andersson, Bibi e Harriet, Ingrid Thulin, Gunnar Björnstrand, Max von Sydow e più tardi Liv Ullmann ed Erland Josephson), li ha guidati in alcune delle più vertiginose introspezioni del cinema attuale.

Opere

La sua prima sceneggiatura risale al 1944 (Spasimo); il primo film notevole da lui interamente firmato è Prigione del 1948, titolo già emblematico. Nel 1953 con Una vampata d'amore toccò il fondo del pessimismo, mentre una serie di studi di donne e di “fisiologie” dell'amore preluse al successo di Cannes con Sorrisi di una notte d'estate, che nel 1956 lanciò il regista sul piano internazionale. Si chiarirono in questo periodo i suoi legami con i maestri della scuola scandinava: uno di essi, il vegliardo Sjöström, fu il protagonista di uno dei suoi film più densi, Il posto delle fragole (1957). Ne Il settimo sigillo, derivato da un suo copione teatrale (Pittura su legno, 1954), e ne Il volto subì l'influsso di Dreyer e delle sue atmosfere “occulte”, mentre nelle commedie di sofisticato erotismo si avverte il lontano ricordo di Stiller. Il regista prese allora ad agire alternativamente su due piani: la ricerca interiore, che conduce non si sa mai dove, e il continuo ribaltamento delle parti, che assicura la tensione, oppure il divertimento intellettuale. Ma nella trilogia “da camera”, composta da Come in uno specchio, Luci d'inverno e Il silenzio (1961-63), il colloquio con Dio riprese spasmodicamente, fino al dissolvimento dell'oggetto della ricerca, che nel terzo film non risponde più: è la desolazione totale, ma le audacie sessuali che vi sono contenute crearono un vasto alone di scandalo. Nel 1964 con A proposito di tutte queste... signore, e per la prima volta usando il colore, il cineasta tentò un'autocritica che gli riuscì più spettacolare che severa. Da Persona (1966) a L'adultera (1971), attraverso L'ora del lupo, La vergogna, Il rito e Passione, il suo discorso è proseguito poi su varie linee direttrici e con risultati ineguali, ma sempre col carattere di un'esplorazione contraddittoria e col magistero di uno stile costantemente ridotto, almeno nelle opere migliori, ai termini essenziali, come in Sussurri e grida (1973), dove attraverso una tragica “sinfonia in rosso cupo” diffuse la putrefazione di una famiglia al capezzale di una morente. Dopo Il rito, che nel 1969 aveva stabilito, in bianco e nero, il primo contatto con il mezzo televisivo, proseguì l'esperienza a colori e con insolito metraggio, dedicando alla lacerante condizione della coppia le puntate di Scene da un matrimonio (1974) e alla psicanalisi di una donna quelle di L'immagine allo specchio (1976), riducendo poi entrambe le opere per il grande schermo. Tra le due si concesse una parentesi mozartiana con Il flauto magico (1975), limpida trasposizione dell'opera musicale inquadrata col pubblico che vi assiste. Autoesiliatosi nel 1976 perché vittima di una persecuzione poliziesco-fiscale, Bergman ha girato a Monaco di Baviera il suo primo film straniero, L'uovo del serpente (1977), affrontando con discussi risultati il tema della nascita del nazismo nella Berlino degli anni Venti. Del 1978 è Sinfonia d'autunno, realizzato in Norvegia, doloroso dialogo tra madre e figlia; del 1980 una nuova pellicola realizzata in Germania, Un mondo di marionette. Nel 1981 ha girato il lunghissimo (e premiato con vari Oscar) film Fanny e Alexander, storia di una famiglia borghese nella Svezia del primo Novecento vista attraverso gli occhi di due bambini. Nel 1984 ha presentato a Cannes Dopo la prova, annunciando ufficialmente il suo ritiro dal cinema. Negli anni Novanta si è dedicato alle regie teatrali (Il Marchese de Sade, Le Baccanti, I cineasti) e alla scrittura, pubblicando Con le migliori intenzioni, da cui Billie August ha tratto con successo un lungometraggio dal titolo Conversazioni private. Meno romanzato del film di August, ma sempre sull'onda della memoria si pone Conversazioni private (1997), diretto da Liv Ullman, che possiede la carica emotiva e le atmosfere del grande regista svedese. E ancora sui ricordi di Bergman è basata la sceneggiatura del film I figli della domenica, affidata al figlio Daniel. Nel 1996 il regista ha in parte receduto dal suo proposito di ritirarsi dalla regia, accettando di dirigere per la Tv svedese un racconto, anche questo rigorosamente autobiografico, Struts and Frets, e, nel 1998, Vanità e affanni (1997).

Bibliografia

B. Idestam-Almquist, Dramma e rinascita del cinema svedese, Roma, 1954; J. Béranger, Ingmar Bergman et ses films, Parigi, 1959; J. Siclier, Ingmar Bergman, Parigi, 1960; T. Chiaretti, Ingmar Bergman, Roma, 1964; G. Oldrini, La solitudine di Ingmar Bergman, Parma, 1965; G. Aristarco, La solitudine ontologica in Dreyer e Bergman, in Il dissolvimento della ragione – Discorso sul cinema, Milano, 1965; L. Bini, Ingmar Bergman, da “Come in uno specchio” (1961) a “Sinfonia d'autunno” (1978), Milano, 1980.

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