Róma (civiltà antica)

Indice

Storia: le origini

La leggenda sorta intorno alla fondazione di Roma e ai primi due secoli della sua storia è ben nota: un gruppo di superstiti troiani guidati da Enea sarebbe approdato alle rive del Lazio; il figlio di Enea, Iulo, avrebbe fondato sulle colline laziali la città di Albalonga; alcuni secoli più tardi, Rea Silvia, figlia dello spodestato re di Albalonga, Numitore, avrebbe avuto dal dio Marte i gemelli Romolo e Remo che l'usurpatore Amulio avrebbe ordinato di abbandonare sulle acque del Tevere, ma che una lupa avrebbe invece ritrovato e allattato in un antro ai piedi del Palatino; una volta cresciuti, i due gemelli avrebbero deciso di fondare, verso la metà del sec. VIII a. C., una nuova città e Romolo, conquistatosene il diritto per aver avuto auspici favorevoli con l'osservazione, secondo un costume etrusco, del volo degli uccelli, ne avrebbe segnato i primi confini con un solco (pomerio) tracciato attorno al Palatino, nucleo primigenio della città, uccidendo successivamente Remo colpevole di averlo oltrepassato in atteggiamento di scherno. Popolata la città e concedendo ospitalità ai fuggiaschi dei paesi vicini, Romolo avrebbe sostenuto con i Sabini, insediati sul Quirinale, una guerra impegnativa scaturita dal leggendario ratto delle donne sabine. La combattività dei Sabini spinse i Romani a un accordo associando al potere il loro re Tito Tazio. A Romolo, innalzato misteriosamente in cielo dopo la morte col nome di Quirino, sarebbero succeduti altri sei re: il sabino Numa Pompilio al quale andrebbe attribuita l'introduzione di molti ordinamenti e istituti civili e religiosi; il romano Tullo Ostilio durante il cui regno, in seguito all'esito vittorioso per Roma del duello di tre suoi guerrieri scelti, gli Orazi, contro tre avversari, Curiazi, sarebbe stata distrutta Albalonga ed esteso il territorio romano fino alle propaggini settentrionali del Massiccio Albano; il sabino Anco Marzio che avrebbe conquistato la zona di Ostia ponendo così sotto il dominio di Roma tutto il corso del Tevere, infine i tre re etruschi Tarquinio Prisco, Servio Tullio (autore di riforme di fondo nell'organizzazione statale, tra cui l'ordinamento centuriato) e Tarquinio il Superbo fautore di un'energica politica di espansione, avversata però dall'aristocrazia romana che, intorno al 510 a. C., lo avrebbe scacciato, ponendo così fine alla monarchia e instaurando la repubblica. In realtà un vero e proprio atto di fondazione di Roma non ci fu mai: Romolo è senza dubbio figura leggendaria e quanto la tradizione gli attribuisce è invece il risultato di una graduale e lenta evoluzione. Per quanto riguarda il periodo regio, invece, i dati forniti dall'archeologia, dalla linguistica, dall'etnologia comparata, dalle sopravvivenze significative in età storica di antichissimi culti, riti e costumanze, ne hanno confermato la validità storica, pur mettendo spesso in dubbio le interpretazioni e le inquadrature datene più tardi dagli storiografi latini, vissuti in un'epoca ormai lontanissima da quei fatti e influenzati nelle loro narrazioni da un ambiente politico e sociale completamente diverso. Secondo recenti studi e ricerche, Roma , il cui nome deriverebbe da rumon, parola arcaica significante il fiume (cioè il Tevere), si sarebbe formata con un processo di sinecismo, ossia dalla graduale fusione (con fase intermedia federativa, e questo significherebbe il rito, vivo ancora in età storica, del Septimontium) di più comunità di pastori e contadini, di cui è stata accertata l'esistenza sui suoi colli già tra i sec. X e IX a. C. Il luogo era propizio all'insediamento umano per la vicinanza del mare e la presenza del Tevere tagliato in due dall'Isola Tiberina, che ne rendeva più facili i passaggi, favorendo gli scambi commerciali con i territori a nord del fiume, dove era in grande sviluppo la civiltà etrusca. Già nel sec. VIII a. C. si era costituito un centro protourbano, dell'estensione di più di 100 ha, sotto l'autorità politica del Palatino. In seguito l'abitato, includendo anche il colle del Quirinale, assunse caratteristiche sempre più strutturate finché, nel sec. VI, Roma assunse, sotto i tre re di origine etrusca, la fisionomia di una vera e propria città con il suo centro sacrale sul Campidoglio, dove venne eretto il tempio in onore delle tre divinità maggiori, Giove, Giunone e Minerva, e quello politico nel foro ai piedi del Palatino dove veniva radunato il comizio del popolo. La città venne ricinta da solide mura (7 km di perimetro) e difesa da un esercito campale, organizzato secondo le nuove tecniche militari di importazione greca, il cui reclutamento avveniva sulla base di una distribuzione dei cittadini in classi censitarie. Mentre l'originaria struttura gentilizia dello Stato era basata su una divisione degli abitanti in tre tribù genetiche, i Tities (Sabini del Quirinale), i Ramnes (gli abitanti del Palatino vicini al rumon, fiume) e i Luceres (gruppi di Latini del Celio), ognuna delle quali comprendeva dieci curie formanti tutte insieme l'assemblea curiata, nella quale prevalevano le più antiche famiglie delle gentes, la riforma serviana superò tale struttura senza però sopprimerla, dando luogo a una nuova distribuzione degli abitanti operata appunto in base al censo, e quindi non più sul principio della nascita, e inserì nella vita attiva dello Stato i nuovi ceti artigianali e commerciali in via di rapida formazione a Roma , allora in fase di sviluppo, con gli immigrati dalle vicine contrade, di recente annesse, e con quanti da fuori venivano in città a cercare fortuna e che andavano a ingrossare i ceti plebei. L'esercito ebbe una nuova organizzazione nella legione e l'onere del servizio militare, che era anche un diritto per i vantaggi connessi con la distribuzione delle prede di guerra, competé da allora in primo luogo ai ceti più abbienti, indipendentemente dalla nascita. Roma cominciò a espandersi verso le foci del Tevere e nell'entroterra laziale raggiungendo presto la zona dei Colli Albani. Questa politica suscitò opposizioni negli esponenti degli antichi ceti gentilizi formanti il patriziato, che si sentivano anche minacciati nei propri interessi dall'emergere di nuovi ceti plebei favoriti dai re di provenienza etrusca: approfittando dell'assenza di Tarquinio il Superbo, impegnato in una spedizione militare, con una congiura soppressero, verso il 510 a. C., la monarchia instaurando al suo posto un regime repubblicano nel quale il potere esecutivo passò ai due pretori comandanti dell'esercito campale, successivamente chiamati consoli; solo in casi gravi di discordie interne o di pericoli esterni, richiedenti unità di comando, si faceva ricorso eccezionale a un dittatore nominato dai consoli. L'elezione dei pretori-consoli aveva luogo annualmente in marzo, all'aprirsi cioè della stagione delle operazioni militari, nell'assemblea centuriata, costituita, in base alle riforme serviane, dai cittadini, distribuiti in centurie, in grado di procurarsi le armi per l'arruolamento nell'esercito, ma ebbe subito grande peso nella vita dello Stato il Senato, l'antico consesso degli esponenti delle famiglie più influenti, che continuò anche per i pretori-consoli la funzione di organo consultivo, in passato esplicata per i re. Il mutamento costituzionale, fenomeno comune nell'epoca ad altre città d'Italia, latine, etrusche e osco-umbre, e la fine dell'influenza etrusca indebolirono temporaneamente Roma : lo Stato, premuto dalla calata minacciosa, dagli Appennini, di vigorosi popoli montanari, Equi, Volsci, Sabini, dovette abbandonare molte posizioni di forza raggiunte nel Lazio e nel 493 a. C. strinse, su iniziativa del pretore-console Spurio Cassio, un patto di alleanza (foedus Cassianum) con le città latine, da poco unite in una lega sui Colli Albani, per difendersi dalla pressione che da nord esercitavano anche su esse gli Etruschi: questi di recente erano stati sconfitti dalle flotte coalizzate di Cuma e di Siracusa, perdendo il predominio nel Tirreno, e cercavano perciò di procurarsi il controllo delle strade interne del Lazio per poter mantenere contatti e rapporti commerciali con gli altri Etruschi di Campania. Il foedus Cassianum segnò per Roma l'inizio di un lungo periodo di stretta collaborazione coi popoli latini, permettendole così di affrontare e risolvere, sia pure con gravi difficoltà, le lotte sorte al suo interno tra il patriziato, costituito dalle originarie famiglie della città, e la plebe rinforzata dagli immigrati recenti immessi nella nuova organizzazione statale. La classe patrizia, che da antico tempo traeva la propria forza dalla pastorizia e dall'agricoltura, l'una e l'altra attività non compromesse sul piano economico dai recenti cambiamenti, tendeva a monopolizzare le magistrature, controllava il Senato, manovrava con i suoi clienti le assemblee elettive e legislative e si accaparrava i terreni dell'ager publicus, quello di proprietà dello Stato, sul quale rivendicava diritti di precedenza. Contro questa prevaricazione reagì, all'inizio del sec. V, la plebe che, costituita dai ceti artigianali e imprenditoriali, aveva subito gravi contraccolpi dalla recessione economica sopravvenuta con la riduzione dell'orizzonte politico e quindi commerciale di Roma e reclamò, attraverso propri rappresentanti, i tribuni eletti nei concilia plebis (riunioni dei ceti plebei, saliti gradualmente da 4 a 10), l'uguaglianza nell'ammissione alle magistrature, l'accesso all'ager publicus e l'alleggerimento dei debiti fattisi pesanti con la perdita, per molti di essi, delle proprietà e con la riduzione, talvolta, in schiavitù per insolvenza. Di fronte alla resistenza del patriziato, i plebei, mettendo in pericolo la stessa unità dello Stato, si ritirarono una prima volta sull'Aventino, colle ancora escluso dalla cerchia del pomerio (secessione del 494 a. C.). Preoccupati della situazione, ma soprattutto dell'organizzazione che si era data la plebe quasi costituendo uno Stato nello Stato, i patrizi accettarono come magistrati i tribuni della plebe che, pur non esercitando alcun imperium particolare, ebbero tuttavia riconosciuti l'inviolabilità (sacrosanctitas) e il diritto di veto su ogni proposta che ritenessero dannosa per la plebe. La secessione ebbe così fine. Più tardi i plebei ottennero, con le Leggi delle XII Tavole (451-450 a. C.), la codificazione del diritto consuetudinario che pose fine all'arbitrarietà dei giudici esprimenti gli interessi del patriziato. Subito dopo fu anche abolito il divieto dei matrimoni tra i due ceti (Lex Canuleia del 445 a. C.) e quindi gli esponenti della plebe entrarono man mano nell'orbita del patriziato e, dopo il 367 a. C., con le leggi Licinie Sestie, anch'essi poterono accedere alle cariche pubbliche che nel frattempo si erano venute precisando e completando, in dipendenza anche degli aumentati compiti assunti dallo Stato in fase di espansione: il consolato, la pretura urbana per l'amministrazione della giustizia, la censura per il censimento dei cittadini e dei loro beni, l'edilità curule per la polizia urbana, mentre il tribunato della plebe continuava nei compiti di difesa dei ceti minuti, chiamati a una partecipazione sempre più diretta alla vita dello Stato, soprattutto sul piano militare. La Lex Publilia del 339 a. C. e la Lex Hortensia del 286 a. C. sancirono definitivamente la piena parificazione di patrizi e plebei, col dare alle decisioni prese nelle adunanze di questi (chiamate, con riferimento alle tribù territoriali istituite in numero di venti da Servio Tullio per la registrazione dei cittadini e poi man mano aumentate con i nuovi territori, comitia plebis tributa) validità giuridica pari alle decisioni dei comizi curiati (in fase di declino) e di quelli centuriati. Con l'accordo raggiunto tra gli ordini si venne formando quella nobiltà di nascita e di censo, tradizionalista e austera, che ebbe nel Senato, ormai costituito da ex magistrati, il suo maggior centro di forza: subordinando gli interessi dell'individuo singolo agli interessi dello Stato, essa avrebbe portato Roma alla conquista del mondo mediterraneo.

Storia: espansione e controllo del territorio

Il primo obiettivo della politica di espansione, ripresa già nella seconda metà del sec. V a. C., fu il Lazio, dove la situazione era andata evolvendo a favore di Roma che ormai controllava Equi e Volsci. La collaborazione militare con la Lega Latina non era più indispensabile e i Romani poterono, guidati da Furio Camillo, affrontare, con le loro sole forze, Veio, la ricca città etrusca che, ad appena 20 km a nord di Roma , chiudeva da quella parte ogni possibilità di espansione, e costringerla, nel 396 a. C., alla capitolazione dopo un assedio durato dieci anni. Pochi anni più tardi, Roma riorganizzò, accentuando la propria egemonia nel Lazio, la Lega Latina che si era disunita e nel 390 a. C. aveva mancato di collaborare in un momento molto grave della storia romana: bande di Celti, venendo dall'Europa centrale, erano penetrate prima nella valle del Po, dopo aver invaso l'Etruria e sgominato sul fiume Allia l'esercito inviato loro contro da Roma per ricacciarli, ed erano arrivate a occupare tutta la città, tranne la rocca capitolina, dalla quale poi si ritirarono solo dietro riscatto e dopo averla incendiata e devastata. Potendo contare ancora sulla collaborazione dei Latini, Roma ristabilì sulla piana pontina la supremazia che già aveva raggiunto nell'ultima età regia, ma nella sua espansione venne a contatto nel Sud con i Sanniti, altro popolo italico in espansione, che, nel corso del sec. V, aveva imposto il suo dominio su gran parte dell'Italia centromeridionale. Con i Sanniti, nonostante un patto di alleanza stipulato nel 354 a. C., seguì presto una prima guerra per la supremazia sulla Campania, che fu però di breve durata (343-341 a. C.) e si risolse, dopo il rientro sui loro monti degli stessi Sanniti, minacciati da sbarchi di eserciti greci sull'altra sponda adriatica, con una prima penetrazione dei Romani nella regione campana. Preoccupati da questa nuova affermazione e sentendosi ormai accerchiati, gli alleati Latini, cui si aggiunsero altri popoli laziali e gli stessi Campani, si ribellarono, ma furono definitivamente sconfitti (340-338 a. C.): la Lega Latina fu sciolta, il foedus Cassianum dichiarato decaduto, il territorio latino incorporato nello Stato romano e le città campane entrarono nell'orbita della sua supremazia. Roma trattò però generosamente i vinti per assicurarsene la collaborazione nelle future lotte. Per la compattezza di territorio (ca. 6400 km²), la popolazione (ca. 600.000 ab.), il calibrato sistema di alleanze e rapporti coi popoli confinanti e in grazia dei sempre più numerosi insediamenti coloniali ai confini, resi possibili o condizionati dall'esuberanza demografica, quello romano era ormai diventato lo Stato più importante dell'Italia centrale: l'urto di fondo coi Sanniti divenne perciò inevitabile. La lotta che ne seguì fu durissima e si svolse dal 326 al 304 con alterne vicende (famosa la sconfitta romana a Caudio con lo smacco delle Forche Caudine), ma si concluse con la vittoria di Roma dopo la caduta della capitale sannita, Bovianum. Nel 295 a. C. poi, a Sentinum, in Umbria, i Romani ottennero un'altra faticata vittoria infrangendo una vasta coalizione di Etruschi, Sabini, Umbri e Galli. In seguito a queste guerre il territorio romano si allungò, con l'incameramento della regione Sabina e del Piceno, fino all'opposta sponda adriatica, venendo così a dividere in due parti l'Italia con grave minaccia per gli interessi delle città della Magna Grecia al Sud e per quelli degli Etruschi al Nord. Particolarmente Taranto, città ricca e potente, vedendo compromessa la propria aspirazione alla preminenza sull'Italia meridionale, chiamò in aiuto il re dell'EpiroPirro che, in un primo momento, riuscì a sconfiggere i Romani a Eraclea (280 a. C.) e ad Ascoli (279 a. C.) in Puglia, ma, dopo un'infruttuosa spedizione fatta in Sicilia per crearvi uno Stato greco, il suo esercito, svigorito e decimato, venne sconfitto nel 275 a. C. a Benevento dall'esercito romano comandato dal console Manio Curio, le cui riserve, grazie alle continue e obbligatorie leve di cittadini e alleati (inquadrati nelle legioni, unità militari ormai superiori per la mobilità tattica dei manipoli alle rigide falangi di Pirro), erano invece inesauribili: al re non rimase che tornarsene in Epiro. Roma , affermata la propria egemonia su tutta l'Italia peninsulare, ne avviò il processo dell'unificazione politica, amministrativa e culturale, e, non disponendo quale città-Stato di adeguate strutture di governo per territori estranei e lontani, lo realizzò nell'ambito di una vasta federazione di città e popoli, con i quali, da una posizione di superiorità, regolò i propri rapporti in modo non uniforme, ma secondo opportunità e circostanze: fu questo il capolavoro della sua classe di governo. In tre categorie si possono raggruppare città e popoli della federazione promossa da Roma : i municipi, i cui abitanti fruivano della cittadinanza romana, per lo più in zone prossime a Roma ; città e popoli alleati, cioè i socii, e le colonie; tutti, salvo poche eccezioni, godevano di autonomia amministrativa e finanziaria e non erano tenuti al versamento di tributi; dovevano però fornire annualmente i convenuti contingenti militari, inquadrati in reparti ausiliari delle legioni, e non potevano stringere patti separati con altri popoli e città anche se alleati di Roma, alla quale erano quindi tenuti a uniformare la politica estera. Rilevante importanza avevano le colonie, di due tipi, quelle di cittadini romani, create all'inizio con scopi militari solo lungo le coste, in un tempo successivo e con maggior numero di coloni anche all'interno per sfoltire la popolazione esuberante, e quelle latine sul modello delle deduzioni coloniarie della disciolta Lega Latina, creata per scopi sia militari sia di popolamento: le une e le altre potevano contare su magistrature e statuti propri, ricalcanti spesso le strutture di Roma e con larga autonomia locale. Col tempo però ai cittadini che si recavano a popolare le colonie latine furono conservate alcune delle loro prerogative e ciò allo scopo di creare duraturi rapporti con la madrepatria nel campo dei diritti civili, così che l'insieme di tali prerogative, lo ius Latii, venne a costituire una forma di cittadinanza romana limitata, destinata a essere estesa pure a comunità preesistenti entrate nel giro della supremazia romana. Anche nella categoria dei municipi, ve ne furono di quelli, come per esempio alcune città etrusche e campane, i cui abitanti fruivano dei soli diritti civili, senza quelli politici, ma anch'essi, in compenso, godevano di larga autonomia amministrativa. Questa possibilità di autonomie locali affiancanti lo Stato egemone favorì il graduale superamento della nozione città-Stato creando una nuova nozione, quella dello Stato municipale.

Storia: da città-Stato a Stato municipale

Dal mosaico di popoli e civiltà attestati nella penisola venne gradualmente emergendo, in virtù del sistema politico creato da Roma , il concetto unitario di “Italia”, termine significante in origine terra degli Itali, un'antica tribù della Calabria il cui nome nelle fonti greche si estese gradualmente a comprendere prima i popoli dell'Italia meridionale e poi quelli di tutta la penisola. Con il superamento delle lotte locali conseguente all'avvento dell'egemonia romana, i rapporti tra città e popoli si intensificarono in Italia, la popolazione crebbe ovunque, gli scambi commerciali si allargarono, favoriti da costruzioni di grandi strade (già nel 312 a. C. era stata costruita da Appio Claudio Cieco la Via Appia collegante Roma a Capua, prolungata poi fino a Brindisi, e nel 220 Gaio Flaminio costruì l'omonima via da Roma a Rimini, prolungata poi dalla Via Emilia fino a Piacenza), tanto da far sentire anche a Roma , che fino allora nella sua zecca aveva emesso solo moneta di rame, l'asse (pur avvalendosi però anche di coniazioni di argento delle città campane), la necessità di una propria moneta argentea, che fu il denarius, corrispondente in valore a dieci assi, con i sottomultipli quinario (cinque assi) e sesterzio (due assi e mezzo). Opere pubbliche e templi furono allora costruiti a Roma e in altre città con largo impiego di mano d'opera, anche servile. Nuove fortune si formarono: non più solo l'agricoltura e la pastorizia erano a fondamento dell'economia. Fu nel sec. III, dopo la citata Lex Hortensia del 286 a. C., che lo Stato romano rinsaldò il suo assetto costituzionale: i due consoli, uno patrizio e uno plebeo (ma dal 172 a. C. potranno essere ambedue plebei), esprimevano gli interessi del patriziato e della plebe vicendevolmente controllandosi e confrontandosi; al pretore urbano se ne affiancò presto anche uno peregrino per l'amministrazione della giustizia nelle vertenze con gli stranieri; i due censori, anch'essi uno patrizio e uno plebeo, avevano visto aumentare le proprie prerogative, spettando a essi di redigere i censimenti dei cittadini e delle loro fortune ai fini fiscali e del servizio militare, indire e decidere gli appalti delle opere pubbliche, pronunciarsi sulle ammissioni in Senato; i tribuni della plebe gradualmente si andavano integrando nel sistema magistratuale come rappresentanti degli interessi dello Stato oltre l'antitesi superata tra patriziato e plebe; altre minori magistrature si venivano precisando per le varie necessità amministrative. I grandi problemi pubblici erano dibattuti nelle due massime assemblee, quella centuriata in cui erano eletti i consoli e i censori e, con la divisione dei cittadini adulti che vi si operava in cinque classi e 193 centurie, la maggioranza poteva già essere conseguita con i voti dei più facoltosi e degli anziani, e quella tributa in cui si eleggevano i tribuni e si approvavano le leggi di carattere sociale: vi si votava per testa, ma il numero di 35 tribù raggiunto verso la metà del sec. III non fu poi più aumentato, pur ingrandendosi lo Stato con nuovi territori, preferendosi così iscrivere anche i nuovi cittadini nelle tribù più antiche e così si ottenne l'effetto di conservare la preminenza al corpo della popolazione più antica.

Storia: Roma e Cartagine

Con l'instaurazione della sua egemonia nel Meridione, Roma si venne intanto a trovare faccia a faccia con Cartagine, città attivissima di scambi commerciali al centro delle rotte mediterranee, tra l'Oriente e l'Occidente, che andava allargando la sua penetrazione in Sicilia. Con lo Stato cartaginese Roma già nel 509 a. C. aveva stipulato un primo patto di amicizia, che poi aveva rinnovato nel 348 a. C. e ancora nel 306 a. C., trasformandolo infine in alleanza nel 279 nella guerra contro Pirro: tali trattati trovarono spiegazione nella differenza degli interessi economici delle due parti, prevalentemente agricoli quelli di Roma , commerciali invece quelli di Cartagine. Ora invece, dovendo Roma difendere gli interessi mercantili delle città greche del Sud, sue alleate, che si sentivano minacciate quasi di accerchiamento dalla presenza dei Cartaginesi in Sicilia, in Sardegna e Corsica, i rapporti si rovesciarono e l'urto tra le due maggiori potenze del Mediterraneo centrale divenne inevitabile dando luogo allo scoppio, nel 264 a. C., della I guerra punica, nel corso della quale Roma , potenza terrestre, dotatasi di forti flotte e di addestrati equipaggi, riuscì a superare l'avversaria, la cui maggior forza era proprio sul mare. Cartagine, sconfitta definitivamente nella battaglia delle Egadi nel 241, dovette abbandonare a Roma la Sicilia che, con le sue immense riserve di grano, costituì la prima provincia romana, alla quale si aggiunsero, alcuni anni più tardi, come seconda provincia, la Sardegna e la Corsica, anch'esse sottratte ai Cartaginesi. Nello stesso periodo i Romani si spinsero anche a Nord, insediando, per iniziativa di Gaio Flaminio, forti contingenti di coloni nell'Agro Gallico fino a Rimini; in seguito, sterminato a Talamone (225 a. C.) un grandioso esercito di Galli, invadevano, col console Claudio Marcello, la Valle Padana, e, piegate di nuovo, nel 222 a. C., le tribù galliche a Clastidium, occupavano Mediolanum. Portatisi poi nell'Adriatico, sconfiggevano la pirateria illirica e si creavano basi sulla costa dalmata entrando così in contatto diretto col mondo greco. Intanto i Cartaginesi, rimessisi dalla sconfitta, avevano cercato in Spagna compensi alle perdite subite, in ciò inizialmente non contrastati da Roma che anzi non vedeva malvolentieri questo loro spostamento verso Occidente; ma quando essi, al comando di Annibale, espugnarono la città di Sagunto, città situata a sud dell'Ebro, fiume che non avrebbero dovuto superare nella loro espansione, ma alleata di Roma , i Romani stessi, preoccupati ora della forte ripresa cartaginese, entrarono nuovamente in guerra con la rivale (II guerra punica, 218-202 a. C.). Prevenendo ogni iniziativa romana, Annibale con marcia arditissima portò il suo esercito dalla Spagna in Italia sconfiggendo in memorabili battaglie alla Trebbia (218 a. C.), al Trasimeno (217 a. C.) e infine a Canne (216 a. C.) i Romani. Non gli riuscì però, come era nelle sue intenzioni, di scardinare la federazione delle città italiche rimaste fedeli, salvo alcune (Capua, Taranto, Siracusa). La rimonta per i Romani fu lunga e difficile, ma grazie a una grandiosa mobilitazione in Italia di uomini e risorse economiche e alla tenacia e al patriottismo della classe dirigente, recuperarono una per una le città che avevano defezionato, sconfissero nel 207 a. C. al Metauro Asdrubale, che dalla Spagna (pure in gran parte ormai sotto il controllo romano) aveva cercato di portare aiuto al fratello Annibale, e, portata a loro volta la guerra in Africa con Scipione l'Africano, sconfissero a Zama (202) lo stesso Annibale, intanto rientrato a Cartagine. Roma usciva vincitrice dal più grande conflitto dell'antichità: Cartagine fu ridotta ai soli possessi africani, senza flotta e con enormi indennità da pagare; la Spagna rimaneva ai Romani che vi crearono due nuove province. Nel corso della guerra, dopo la battaglia di Canne, Filippo V di Macedonia aveva stretto alleanza con Annibale, illudendosi forse, come pure aveva sperato Pirro mezzo secolo prima, di potersi impadronire delle città greche dell'Italia meridionale: ciò dimostra come Roma , preoccupata della propria sicurezza, ormai non potesse più disinteressarsi di quanto avveniva da un capo all'altro del Mediterraneo. Di qui ebbe inizio tutta una serie di guerre e spedizioni a catena, nel corso delle quali il dominio romano si allargò da ogni parte, aggiungendo provincia a provincia, fino a estendersi incontrastato su tutte le regioni rivierasche del Mediterraneo: in appena mezzo secolo, dal 199 al 146 a. C., Roma riuscì infatti a prevalere su molti potentati orientali e a incamerarne le enormi ricchezze. Rivoltasi dapprima contro Filippo V, che attaccò nel suo stesso territorio, lo sconfisse, dopo alterne vicende, a Cinoscefale (197 a. C.) con T. Quinzio Flaminino che, ammiratore della cultura ellenica e fautore di rapporti più intensi con il mondo greco, restituì ai Greci la libertà che i Macedoni avevano loro tolto. Fu poi la volta di Antioco III di Siria che, spinto anche da Annibale, era sbarcato in Grecia presentandosi come il liberatore del popolo greco; ma anch'egli venne battuto a Magnesia (189 a. C.) e dovette cedere i propri possessi dell'Asia Minore al re di Pergamo, Eumene, e alla repubblica di Rodi, entrambi alleati di Roma. In una successiva guerra, i Romani sconfissero definitivamente, con la vittoria riportata da Emilio Paolo a Pidna nel 168 a. C., la Macedonia il cui nuovo re Perseo, figlio di Filippo, aveva invano cercato di rovesciare l'equilibrio politico imposto da Roma. Divisa dapprima in quattro Stati e praticamente smilitarizzata, la Macedonia fu ridotta a provincia nel 146, in seguito a un suo ennesimo tentativo di insurrezione. Questa volta anche i Greci che, divenuti insofferenti della protezione romana, di nascosto avevano già prestato aiuto a Perseo, e le cui discordie interne andavano sempre aumentando, persero la libertà (ma il loro territorio divenne formalmente provincia solo al tempo di Augusto): Corinto, centro della resistenza greca, fu rasa al suolo e i suoi abitanti ridotti in schiavitù (146 a. C.). La medesima sorte toccò contemporaneamente, dopo un durissimo assedio, a Cartagine che era tornata a preoccupare Roma per il rifiorire dei suoi commerci (III guerra punica, 149-146 a. C.): i possedimenti africani della città andarono a costituire una nuova provincia, l'Africa. Lo stesso vincitore di Cartagine, Scipione Emiliano, riuscì a far pure capitolare, nel 133 a. C., la città spagnola di Numanzia, nella quale si erano ridotte le ultime resistenze degli Spagnoli che avevano impegnato, con continui e violenti moti di rivolta, le legioni romane per almeno vent'anni. Per rendere sicuri i collegamenti tra l'Italia e la Spagna, anche la Gallia meridionale, la Narbonese, venne trasformata in provincia nel 121 a. C. e Narbona divenne la prima colonia romana fuori d'Italia. Nel 129 a. C., infine, assoggettato anche il regno di Pergamo, venne creata la provincia d'Asia. Roma aveva così imposto la sua pace in tutto il Mediterraneo: oltre all'Italia peninsulare e alla Gallia Cisalpina, ormai in fase di latinizzazione con l'Istria e la Dalmazia, dipendevano dallo Stato romano otto province, precisamente, nell'ordine cronologico dell'annessione, Sicilia, Sardegna-Corsica, Spagna Citeriore e Ulteriore, Macedonia, Africa, Asia, Gallia Narbonese, province che, seguendo il concetto orientale del territorio d'un regno inteso come bene privato del sovrano, furono considerate proprietà del popolo romano e sottoposte al governo di un pretore nelle cui mani si assommavano, senza alcuna limitazione, il potere esecutivo, giudiziario e militare e che durava in carica un anno. Ai confini delle province, poi, c'erano per lo più regni o città alleate. Divenuta la potenza dominante nel mondo mediterraneo, Roma dovette risolvere nuovi grandiosi problemi di organizzazione, di fronte ai quali le sue strutture politiche, sviluppatesi fino allora sulla linea della città-Stato, non erano in grado di reggere: la stessa riluttanza, ampiamente visibile nelle vicende greche, con la quale passò dall'egemonia indiretta alla conquista e alla presa di possesso, dimostra come gli uomini politici di Roma fossero coscienti dell'insufficienza degli organi burocratici dello Stato, e lo Stato entrò da allora in una lunga crisi istituzionale che sfociò, un secolo più tardi, nel principato.

Storia: crisi dei valori tradizionali e trasformazioni sociali

Profonde trasformazioni si erano avute anche nella compagine cittadina, di ordine sia culturale sia economico-sociale. Le antiche ideologie tradizionalistiche, che avevano avuto il loro ultimo esponente in Catone il Censore, tenace difensore, contro ogni innovazione, dei mores antiqui, nei quali riteneva stesse la vera forza di Roma , erano state sconvolte dal contatto con la cultura e i modi di vita greci. Le abitudini delle famiglie romane, con tante ricchezze affluite dai bottini di guerra e subito entrate in circolo, erano cambiate velocemente: si era allentata l'antica sobrietà e si stavano diffondendo il lusso e il fasto di stampo orientale; la stessa base patriarcale della famiglia era scossa dalla maggiore libertà della donna e dalla possibilità, a cui si ricorreva sempre più facilmente, di divorziare. Anche nell'uso del pubblico denaro il costume si andava evolvendo: si dimenticava l'antica correttezza e gli episodi di malversazioni non mancavano: clamoroso era stato il processo per peculato promosso da Catone contro gli Scipioni, campioni del filellenismo, conclusosi con il volontario esilio dell'Africano. Roma si faceva sempre più grande e fastosa e splendidi monumenti ed edifici vi erano costruiti; a essa riaffluivano in gran numero coloni romani e latini che, impoveriti prima dalle guerre, soprattutto da quella annibalica, e poi dalle lunghe ferme militari, abbandonavano le campagne italiche che così perdevano uomini a vantaggio del formarsi del latifondo con la concentrazione della proprietà agraria in poche mani. Ciò causava la riduzione della classe contadina, sulla quale poggiava la forza delle legioni che avevano portato Roma alla conquista del Mediterraneo. Una separazione sempre maggiore si andava operando, anche sul piano politico, tra i ceti inferiori e la classe oligarchica, costituita sia dalle famiglie di antica nobiltà, che traevano le proprie ricchezze dallo sfruttamento sempre più intenso e organizzato delle accresciute proprietà agricole, sia dai nuovi ricchi, i grandi finanzieri e imprenditori che formavano la classe dei cavalieri, quelli cioè che un tempo, per il loro censo elevato, erano in grado di provvedersi di un cavallo per il servizio in cavalleria, ma che poi, quando tale servizio passò a reparti specializzati forniti per lo più dagli alleati, vennero a costituire una classe sociale, appunto l'ordine equestre, distinta da quella dei senatori, cui spettava la direzione degli affari di Stato. Le assemblee, quella centuriata e quella tributa, andavano perdendo l'antica fisionomia, nonostante alcune riforme che le avevano aggiornate con i nuovi rapporti di forza politica e sociale, affollate com'erano in prevalenza da una plebe cittadina amorfa e con scarso civismo (quella rurale, specialmente dei territori più lontani, non vi interveniva che raramente). Gli stessi tribuni della plebe agivano ormai in funzione degli interessi di questa o quell'altra consorteria della nobiltà allontanandosi sempre più dall'antica funzione di difensori degli interessi dei ceti poveri. Col dilagante scetticismo di importazione greca, la stessa religione, incentrata nel culto delle grandi divinità di Stato, al quale attendevano prestigiosi sodalizi sacerdotali, pontefici, auguri, epuloni, ecc., con riti e cerimonie in cui avevano ancora molta parte le procedure magiche legate alle primordiali credenze animistiche, proprie delle società rurali, andava perdendo quota nelle coscienze, diventando spesso strumento per l'affermazione di interessi di parte (addirittura si dovette arrivare a proibire di vedere lampi a ciel sereno, tradizionalmente segnale infausto, per non dover continuamente interrompere i lavori assembleari!). Ma la maggiore preoccupazione veniva dal ristagno demografico nelle campagne italiche: nel censimento del 135 a. C. i cittadini romani adulti erano scesi a 317.993 da 337.452 registrati nel 163 a. C.; questa flessione comprometteva l'efficienza dell'esercito legionario, i cui compiti si erano sempre più allargati dovendo esso montare ora la guardia da un capo all'altro del Mediterraneo.

Storia: le riforme dei Gracchi

Persuaso che per porre rimedio a un simile stato di cose fosse necessaria la ricostruzione della classe contadina, Tiberio Gracco, figlio del Tiberio Gracco che aveva pacificato la Sardegna e la Spagna, nipote di Scipione l'Africano ed esponente delle correnti democratiche, si fece nel 133 a. C. promotore, come tribuno della plebe, di una riforma agraria per la distribuzione ai cittadini nullatenenti, in lotti inalienabili di trenta iugeri a testa (circa sette ettari e mezzo), dell'ager publicus, l'insieme cioè dei terreni un tempo confiscati ai popoli italici vinti che, non più ora utilizzati per fondazioni coloniarie (le ultime colonie latine e quelle romane agrarie erano state dedotte nel Nord d'Italia nei primi decenni dopo la guerra annibalica), erano stati in larga parte occupati, più o meno abusivamente, dai grandi proprietari con lo scopo di farne soprattutto degli immensi pascoli per estesi allevamenti animali ai quali venivano adibite le ingenti forze servili, quelle affluite in Italia dopo le vittoriose guerre transmarine. Con il ripopolamento delle campagne italiche, avrebbe riacquistato l'antica efficienza, grazie agli arruolamenti incrementati, anche l'esercito, del cui indecoroso comportamento il tribuno era stato testimone diretto durante la campagna spagnola per la conquista di Numanzia. La riforma urtava contro gli interessi della nobiltà e turbava anche i rapporti con gli alleati latini e italici, essi pure colpiti dal recupero dell'ager publicus. Il Senato l'avversò con ogni mezzo: ne seguirono disordini, essendosi essa ormai caricata anche di significato sociale, e Tiberio Gracco finì con l'essere ucciso dai suoi avversari. Non si osò cancellare la riforma che aveva ottenuto l'approvazione dei comizi tributi (ormai questi tenevano il primo posto nell'approvazione delle leggi) e si incominciò ad attuarla sia pure a rilento. L'azione riformatrice di Tiberio fu ripresa vigorosamente, dieci anni dopo, dal fratello Gaio che, eletto al tribunato nel 123 a. C., promosse un generale programma di riforme in campo sociale e costituzionale, con lo scopo di far uscire lo Stato romano dalle anguste strutture della città-Stato per dargli gli strumenti politici necessari a governare un impero a raggio mediterraneo: confermò la riforma agraria e fece decidere la creazione di colonie a Taranto, a Cartagine e a Corinto, punti chiave del commercio marittimo; agevolò il ceto equestre nella percezione delle decime in provincia d'Asia e immise suoi rappresentanti tra i giudici, fino allora solo senatori, per i reati di malversazione nel governo delle province, sempre più frequenti; promosse distribuzioni di grano a prezzo controllato, riorganizzò i mercati, costruì strade, stimolò i commerci, e, per tacitare gli alleati latini e italici danneggiati nel recupero dell'ager publicus necessario all'attuazione della riforma agraria, propose la concessione della cittadinanza romana ai latini e i diritti latini agli altri socii, in modo che gli uni e gli altri potessero accedere alle distribuzioni di terre. L'azione riformatrice del tribuno colpiva però in più parti i privilegi dell'aristocrazia senatoria (il Senato, per la vastità e la complessità dei problemi di governo, era diventato il vero arbitro dello Stato) e in una serie di disordini anche Gaio trovò la morte (121 a. C.), lasciando aperto, in tutta la sua drammaticità, il problema dell'integrazione del proletariato romano e italico nello Stato tanto ingrandito. L'altro grave problema, che era stato alla base dei tentativi di riforma graccani, quello militare, fu per il momento risolto con l'abbassare, ancora una volta, il censo minimo necessario all'arruolamento, come dai tempi della guerra annibalica si faceva periodicamente, finché con apposita riforma introdotta da Gaio Mario, si arrivò, e fu il primo passo verso la creazione, in epoca augustea, di un vero e proprio esercito professionale, ad arruolamenti volontari di proletari nullatenenti, per lo più ex contadini, che si attendevano poi la ricompensa, una volta congedati, in terre. Questo tipo di esercito di regola si rivelò più fedele al generale comandante che allo Stato stesso, fino ad assumere il carattere di un esercito personale: erano all'orizzonte le guerre civili. Appunto con un esercito di questo genere, Gaio Mario che, nonostante le modeste origini, era riuscito, col favore popolare, a essere eletto console, poté concludere (105 a. C.) un'annosa guerra, quella che Giugurta, usurpatore dell'alleato regno di Numidia, aveva suscitato in Africa contro Roma e che aveva sostenuto per lungo tempo, nonostante la netta inferiorità delle sue forze, sfruttando l'incapacità e la corruttibilità dei vari generali romani che si erano succeduti al comando dell'esercito romano. Tornato dall'Africa, Mario, la cui popolarità era in continua ascesa, tanto da essere rieletto console per cinque volte, dovette affrontare i Teutoni e i Cimbri, popoli barbari scesi dal Nord alla ricerca di terre, e li batté, annientandoli, rispettivamente ad Aquae Sextiae nella Gallia Narbonese (102 a. C.) e ai Campi Raudii, presso Vercelli (101 a. C.). Queste vittorie erano state facilitate da alcune innovazioni che il popolare condottiero aveva apportato nell'ordinamento delle legioni con l'affermarsi in esse delle coorti, le nuove unità tattiche caratterizzate dall'abbinamento, alla tradizionale mobilità, di una maggiore potenza d'urto, particolarmente necessaria negli scontri con le torme barbariche.

Storia: Mario e Silla

Le sei rielezioni di Mario al consolato, clamorosa infrazione alla norma consuetudinaria della rotazione delle cariche, erano state rese possibili dalla massiccia presenza, nei comizi elettorali, dei suoi veterani, ai quali egli poté distribuire le terre promesse alleandosi con i cavalieri contro il Senato, mentre la situazione politica andava facendosi sempre più confusa e aspre diventavano le lotte tra le fazioni opposte. La necessità di sistemare i reduci fece però riesplodere la questione agraria e accese la rivolta degli Italici che, già colpiti dalla riforma di T. Gracco, chiedevano ora la cittadinanza romana per aver più parte nella vita dello Stato e per usufruire, anch'essi, al momento del congedo, delle assegnazioni di terra. Scoppiò così la guerra sociale (90-88 a. C.): dopo un inizio sfavorevole, Roma riuscì, utilizzando tutti i suoi migliori comandanti, a prevalere militarmente sugli Italici (che si erano nel frattempo organizzati, con ordinamenti modellati su quelli romani, in una confederazione simile a quella romana, con una propria capitale Corfinium tra i Peligni, ribattezzata Italica), ma dovette accoglierli alla fine nella cittadinanza romana, seppure distribuendoli in sole otto tribù dell'assemblea tributa limitandone con ciò, per il momento, il peso politico. I cittadini romani passarono allora di colpo da ca. 400.000 a ca. 900.000, ma in questo modo le vecchie strutture dello Stato-città, già deficitarie, entravano definitivamente in crisi: le guerre civili che seguirono furono l'inevitabile conseguenza di questo squilibrio. Durante la guerra sociale era stato richiamato in patria, dalla Cilicia, dove era stato inviato per porre fine al disordine che il re del Ponto, Mitridate, andava creando in Asia, anche Cornelio Silla, rampollo di una famiglia nobile, ma economicamente decaduta e quindi incapace di fornirgli i mezzi necessari per imporsi all'elettorato. Silla si era già distinto per la parte notevole che aveva avuto, grazie alla sua scaltrezza, nella conclusione della guerra giugurtina, e ora, spenti gli ultimi focolai dell'insurrezione italica, otteneva dal Senato il comando di una nuova spedizione contro Mitridate, tornato a sobillare la rivolta contro Roma dei popoli orientali, compresi i Greci; ma i comizi tributi, nei quali spadroneggiavano i veterani di Mario, trasferirono allo stesso Mario l'incarico togliendolo a Silla. Raggiunto da questa notizia in Campania mentre era in procinto di partire per la nuova missione, Silla, che già nutriva rancore verso Mario perché persuaso che questi lo avesse defraudato della sua parte di merito nella conclusione della guerra giugurtina, marciò, alla testa delle sue legioni, su Roma dove entrò in assetto di guerra, contravvenendo, con un atto considerato empio, all'antico divieto di varcare in armi il pomerio, l'antica cinta muraria: rimasto padrone della città, dalla quale era però riuscita a fuggire la maggior parte dei suoi avversari, tra cui Mario rifugiatosi in Africa, fece uccidere i fautori delle recenti leggi, ristabilì l'autorità del Senato e dell'assemblea centuriata contro quella tributa, della quale fece abrogare le ultime leggi, e partì poi per l'Oriente. Ma subito dopo Roma ritornò in mano ai seguaci di Mario, che, rientrato in città, non conobbe limiti nello sfogare, prima di morire nell'86 a. C., la sua sete di vendetta. Più tardi, portata a termine, per il momento con successo, la guerra contro Mitridate e restaurato dovunque l'ordine con gravose imposizioni e feroci castighi alle città greco-orientali insorte, Silla rientrò in Italia carico di un colossale bottino: sconfitto alle porte di Roma l'esercito dei Mariani, formato in gran parte da Italici, tornò padrone assoluto della città. Deciso a stroncare ogni velleità democratica e a instaurare definitivamente il potere dell'oligarchia, Silla, dopo aver scatenato a sua volta una serie incredibile di vendette contro gli avversari che a migliaia persero la vita col sistema delle liste di proscrizione, fattosi nominare dittatore a tempo indeterminato, si dette a riformare lo Stato in senso oligarchico; restaurò i privilegi della nobiltà col porre le assemblee sotto il controllo del Senato, dove aveva immesso un gran numero di suoi partigiani, e col rendere lunghe e difficili le carriere politiche per impedire la rapida formazione di forti poteri personali; ridusse i poteri dei tribuni e stabilì inoltre che consoli e pretori potessero recarsi nelle province solo alla fine del mandato. Ma questo nuovo ordinamento, del quale Silla intese favorire un sicuro avvio ritirandosi a vita privata nel 79 a. C. (poco tempo prima della morte), non era in linea coi tempi e con le aspirazioni personali dei più ambiziosi, tanto che, in breve, venne smantellato pezzo per pezzo.

Storia: Pompeo e la conquista dell'Oriente

Subito riprese l'opposizione popolare: il console M. E. Lepido, già sostenitore di Silla, poi passato dall'altra parte per motivi personali, cercò di ribellarsi al Senato, ma fu facilmente travolto da Gneo Pompeo, già distintosi nella guerra civile dell'83-82 a. C. come valido alleato di Silla e più tardi per aver represso le ultime resistenze dei democratici in Sicilia e in Africa. Lo stesso Pompeo, nonostante il Senato, che ben conosceva le sue ambizioni, non si desse molto da fare per agevolarlo con rinforzi, riuscì poi ad aver ragione di un vasto movimento insurrezionale antiromano sorto in Spagna a opera di Q. Sertorio, antico ufficiale di Mario. Pure repressa con tremende rappresaglie, questa volta specialmente a opera del ricchissimo e altrettanto vanitoso Licinio Crasso, fu una grande rivolta di schiavi delle campagne italiche; questi, capeggiati da Spartaco, un orientale probabilmente di origine nobile, con incredibili successi avevano seminato il panico in tutta l'Italia. Nel frattempo in Asia Mitridate, che Silla nell'83, per la fretta di rientrare a Roma , non aveva reso per sempre inoffensivo, riprendeva la sua politica di espansione antiromana: Licinio Lucullo, inviato contro di lui dal Senato, riuscì a metterlo in fuga inseguendolo fino nel cuore dell'Armenia, ma qui il suo esercito romano-italico, insofferente della disciplina troppo rigida, gli si rivoltò, favorendo la riscossa di Mitridate. L'unico uomo adatto a ristabilire la precaria situazione venutasi a creare apparve allora Pompeo, il cui prestigio era immensamente cresciuto presso i ceti popolari dopo che nel 70, come console, aveva ripristinato i poteri tribunizi umiliati da Silla, e, più tardi, aveva fatto ritornare a prezzi normali il grano grazie a un'energica azione di ripulitura fatta con poteri proconsolari speciali concessigli per tre anni, di ogni angolo del Mediterraneo dalla pirateria, la quale negli ultimi tempi si era rinforzata, dopo la scomparsa delle marinerie greche e cartaginesi, con i molti sbandati delle guerre civili e con gli schiavi scampati all'eccidio della guerra servile, e ora ostacolava gravemente i traffici marittimi. A Pompeo venne così prorogato il comando in Oriente, non senza contrasti, a vincere i quali ebbe parte notevole Cicerone come portavoce dei ceti finanziari, favorevoli alla spedizione contro Mitridate, nella quale intravedevano nuove prospettive di immensi guadagni. Quello conferito a Pompeo fu allora un comando senza limiti di tempo e con piena facoltà di intraprendere guerre o concludere paci, ed egli se ne avvalse per sconfiggere a Nicopoli (66 a. C.) l'indomabile Mitridate che fu costretto a suicidarsi. Guidando poi, con grandiose marce sulle orme di Alessandro Magno, le legioni romano-italiche all'interno del favoloso Oriente e assicurando al dominio di Roma nuove ricche regioni, quelle dell'Asia anteriore, la Siria, la Palestina, Pompeo dette una stabile sistemazione a tutto l'Oriente asiatico, nel quale riprese, in sostanza, l'azione ellenizzatrice del grande re macedone. A Roma , intanto, la situazione andava facendosi sempre più precaria rimanendo ancora aperte e insolute antiche questioni, prima tra tutte quella agraria, ormai pretesto di continue lotte tra le fazioni opposte o di tentativi di affermazioni personali, come quello di Catilina, la cui congiura, che pure aveva suggestionato sia aristocratici indebitati sia nullatenenti delle città e delle campagne (i cambiamenti di fortuna erano stati rapidi nelle guerre civili, delle distribuzioni di terre ai veterani erano spesso rimasti vittime anche piccoli proprietari e l'andamento dell'economia subiva contraccolpi dalle ricorrenti crisi monetarie e da investimenti avventurosi), fu sventata da Cicerone, console nel 63 a.C. Cicerone si illuse allora di aver reintegrato il Senato nell'antico prestigio e non si rese conto che il tipo di governo da lui vagheggiato, basato sulla concordia degli ottimati, senatori e cavalieri, raggruppati in consorterie che si contendevano il potere politico e quello economico, era ormai fuori dalla realtà e che la situazione sarebbe rimasta precaria fin tanto che non si fosse trovata un'adeguata sistemazione all'innumerevole turba di proletari che affluiva con ritmo crescente nella città in continua espansione e che diventava strumento nelle contese comiziali.

Storia: il primo triumvirato

Nel 60 a. C. i tre maggiori protagonisti della vita politica del tempo, cioè Pompeo – il quale, tornato carico di gloria e di bottino, dopo aver congedato, nel rispetto della legalità, l'esercito, si era visto negare dal Senato, geloso e timoroso della sua potenza, la ratifica delle misure prese in Oriente e la sistemazione dei veterani –, Crasso che, con la grande maestria utilizzata nell'ordire intrighi sotterranei, non mancava di approfittare di ogni situazione per accrescere potenza e ricchezze, e Cesare, la cui influenza era in continua ascesa grazie alla sensibilità dimostrata per i problemi dei ceti popolari e alle autentiche capacità politiche in lui innate, si allearono tra loro con un patto personale: il cosiddetto primo triumvirato, che, sebbene privo di base costituzionale, era certamente in grado di controllare o addirittura soppiantare i poteri dello Stato. In tal modo Cesare, eletto console nel 59 a. C., dopo aver fatto ratificare gli ordinamenti che Pompeo aveva dettato in Oriente, fece approvare, secondo un piano preordinato, inteso a creargli una base di potenza per il futuro e a ridurre il potere dell'oligarchia, una legge agraria per la distribuzione di terre ai veterani di Pompeo e alla plebe povera; grazie a tale legge un grande beneficio venne anche all'agricoltura italica duramente danneggiata, negli ultimi decenni, dalle continue guerre interne. Partito poi, nel 58 a. C., con poteri proconsolari per la Gallia, Cesare riuscì a sottomettere tale immensa regione definitivamente nel 51 a. C., dopo aver espugnato la città di Alesia dove si erano rifugiate le ultime disperate resistenze galliche capeggiate da Vercingetorige: in questo modo egli si creò, oltre che un esercito addestrato e fedele e un'enorme riserva di ricchezze, anche un prestigio militare che oscurava ormai quello di Pompeo. Quest'ultimo, durante l'assenza di Cesare, era andato sempre più avvicinandosi al Senato, ergendosi come supremo difensore della legalità. Scomparso poi Crasso miseramente a Carre nel 53 a. C., alla fine di un'infelice spedizione contro i Parti intrapresa per soddisfare un vano sogno di grandezza militare che lo tormentava da anni, la rottura tra Cesare e Pompeo divenne inevitabile. Avendogli il Senato, istigato da Pompeo, intimato di cedere il comando della Gallia e di sciogliere l'esercito, Cesare, consapevole che ubbidire significava per lui perdere ogni potere, dopo aver cercato invano un compromesso, ordinò alle sue truppe di varcare il Rubicone (49 a. C.), che segnava il confine tra il territorio romano e quello provinciale, ponendosi così fuori della legge. Dopo una rapida discesa lungo la penisola, Cesare entrò senza fare rappresaglie a Roma , dalla quale erano però fuggiti, rifugiandosi nella penisola balcanica, Pompeo e i suoi seguaci, e, impadronitosi del tesoro statale, passò in Spagna dove vinse, a Ilerda, un esercito pompeiano. Fattosi eleggere console nel 48 a. C., dopo aver preso alcune misure per risollevare la precaria situazione economica, affrontò Pompeo a Farsalo (48 a. C.) in Tessaglia e lo vinse dimostrando grande abilità tattica, nonostante la superiorità delle forze pompeiane. Recatosi in Egitto per inseguire Pompeo, che vi aveva cercato rifugio, e invece vi era stato ucciso a tradimento, Cesare si fermò alcuni mesi ad Alessandria dove rafforzò il potere della regina Cleopatra. Più tardi, con una fulminea campagna durata appena cinque giorni, inflisse a Zela (47 a. C.) nel Ponto, da cui inviò al Senato il famoso messaggio veni vidi vici, una severa sconfitta al figlio di Mitridate, Farnace II, che, approfittando della guerra civile, aveva ripreso la politica espansionistica paterna. Placati poi i tumulti che serpeggiavano a Roma , rimasta da tempo senza guida sicura a causa della sua lunga assenza, e ristabilito ovunque l'ordine, Cesare si trasferì in Africa dove, presso Tapso, nell'estate del 46 a. C., attaccò e distrusse un esercito formato da alcuni autorevoli esponenti dell'opposizione, capeggiati da Catone Minore: questi, dopo la sconfitta, si uccise a Utica, persuaso che Roma avesse ormai definitivamente perso la libertà. Stroncato nel 45 a. C. un ultimo focolaio di resistenza a Munda in Spagna, liquidando così ogni forma di opposizione, Cesare, assommando ormai nella sua persona tutti i poteri fondamentali dello Stato, civili (dittatura prima decennale, poi a vita, e la tribunicia potestas, cioè il potere tribunizio che rendeva inviolabile la sua persona e gli dava la facoltà di convocare il Senato e le assemblee), militari (l'imperium, cioè il comando di tutte le forze militari) e religiosi (il pontificato massimo), si trovò padrone del mondo romano e poté dunque iniziare un'opera grandiosa di riforme costituzionali e amministrative, oltre che sociali: allargò i quadri del Senato, aumentò il numero dei magistrati, riorganizzò municipi e colonie con la Lex Julia Municipalis, creò nuove colonie tra cui Cartagine e Corinto, represse abusi nel governo delle province, riformò il calendario, ecc., tendendo al superamento della città-Stato mediante la formazione di uno Stato plurinazionale nel quale fossero ridotte il più possibile le differenziazioni tra le varie componenti nazionali e sociali. Promosse a Roma anche grandiose opere pubbliche come la sistemazione del Foro, e favorì largamente le lettere e le arti, istituendo la prima biblioteca pubblica di Roma. Ma alle Idi di marzo del 44 a. C., cadde ucciso in un complotto organizzato da Bruto e Cassio, al quale presero parte una sessantina di giovani, tutti esponenti della nobiltà, insofferenti della supremazia del dittatore e tenacemente fedeli agli ideali repubblicani di libertà.

Storia: i successi di Ottaviano

Si aprì così una nuova e lunga serie di lotte civili che sconvolse ancora una volta il mondo romano. Dapprima cercò di trarre profitto dalla situazione di disordine venutasi a creare con i tumulti suscitati dai veterani e dal popolo di Roma il console Marco Antonio, un fedelissimo di Cesare, del quale voleva raccogliere l'eredità politica: ma il Senato gli contrappose il diciannovenne Ottavio, designato inaspettatamente dal prozio Cesare come erede adottivo dei suoi beni. Il giovane, preso il nome di Cesare Ottaviano, seppe far convergere su di sé, sottraendole ad Antonio, gran parte delle forze militari cesariane. Accortosi poi che, dopo aver sconfitto a Modena nel 43 a. C. un esercito di Antonio, il Senato cercava ora di metterlo da parte per restaurare i suoi antichi poteri, Ottaviano, sorretto dai vecchi soldati di Cesare, presentatosi con fredda determinazione alle porte di Roma con un esercito, riuscì a farsi nominare console e si accordò col rivale col quale si incontrò nell'autunno del 43 a. C., a Bologna, assieme a Emilio Lepido, un altro fedele cesariano, per costituire un triumvirato quinquennale, poi ratificato dal Senato, col fine di riordinare lo Stato su nuove basi costituzionali (triumviratus reipublicae constituendae). Dopo aver scatenato, diversamente dal comportamento di grande clemenza tenuto da Cesare, una serie di vendette contro gli avversari, nel corso delle quali cadde vittima di Antonio anche Cicerone, i triumviri, passati in Macedonia, sconfissero a Filippi, nel 42 a. C., le forze di Bruto e Cassio che ormai tenevano sotto controllo l'Oriente, e si divisero poi il territorio dell'impero. Ottaviano, responsabile dell'Italia, la cui popolazione era già esasperata per le difficoltà del vettovagliamento create dalle azioni piratesche di Sesto (questi, figlio di Pompeo, raccolti presso di sé sbandati e fuggiaschi, si era creato un vasto dominio nelle isole del Mediterraneo), si trovò a dover fronteggiare una vera e propria ribellione causata dal malcontento per le spogliazioni di terre operate a favore dei veterani. A capo della ribellione si erano posti, per smorzare lo strapotere di Ottaviano in Italia, il fratello di Antonio, Lucio, e sua moglie Fulvia; Antonio da tempo si era stabilito presso Cleopatra dimentico dei propri impegni di riorganizzazione dell'Oriente. Ottaviano intanto, domata l'insurrezione e costretti alla resa i due cognati nel 40 a. C. a Perugia, ristabilito successivamente a Brindisi l'accordo con Antonio (velocemente tornato in Italia), distrusse nel 36 a. C. a Nauloco, sulle coste settentrionali della Sicilia, la flotta di Sesto Pompeo che andava tra l'altro risvegliando pericolose simpatie tra gli antichi seguaci del padre, e, dopo aver esonerato Lepido dal governo dell'Africa, divenne di fatto padrone dell'Occidente intero. Taluni atteggiamenti di Antonio, quali la donazione fatta a Cleopatra, da lui sposata, di alcune province orientali romane o il riconoscimento della dignità regale ai due figli da lei avuti, che la propaganda di Ottaviano, sfruttandoli abilmente, presentò come un tradimento dei tradizionali valori morali e religiosi del mondo romano (Ottaviano, con grande sagacia, ne andava intraprendendo la restaurazione in Italia), offrirono l'occasione alla rottura tra i due; la lotta personale assunse presto l'aspetto di un grandioso conflitto tra due opposti mondi ideali, quello romano e quello dell'Oriente ellenistico, essendo ormai sorpassata la questione della sopravvivenza o meno della costituzione repubblicana, con la quale sempre minori legami avevano i nuovi ceti dominanti. Il successo che la flotta di Ottaviano, grazie all'abilità di M. Agrippa e all'apparato amministrativo e militare dello Stato romano, ottenne nelle acque di Azio, nel 31 a. C., su quella di Antonio e di Cleopatra, segnò, oltre che la vittoria dello spirito nazionale romano-italico sull'universalismo ellenistico, anche la soluzione del secolare travaglio costituzionale di Roma.

Storia: l'età imperiale

Divenuto, dopo la vittoria di Azio e il suicidio di Antonio, arbitro di Roma e dell'impero, Ottaviano, cui il Senato attribuì, nel 27 a. C., il nome augurale di Augustus (colui che sopravanza tutti per autorevolezza e prestigio), procedette a un riassetto delle strutture politiche dello Stato lasciandone invariata la forma esterna repubblicana, ma concentrando in realtà nelle sue mani tutti i maggiori poteri. Con l'imperium militare nelle province e a Roma la potestas tribunicia che, facendo di lui il naturale protettore della plebe, gli assicurava l'inviolabilità e il diritto di convocare le assemblee o promulgare editti, e, più tardi, dal 12 a. C., con il pontificato massimo, tutte cariche attribuitegli a vita, Augusto si garantì il controllo su ogni settore dello Stato, dando inizio a un regime indicato poi con il nome di principato dal suo titolo di princeps senatus, colui cioè che primo tra eguali esprime in Senato il parere sui problemi in discussione. Nel nuovo regime la funzione legislativa fu gradualmente trasferita dalle assemblee popolari al Senato che, a sua volta, si era vista sottratta la direzione politica dello Stato e nel quale Augusto, accanto alla vecchia nobiltà cittadina, accentuò l'entrata di esponenti della borghesia italica. Le tradizionali magistrature repubblicane furono mantenute in vita, ma, con la moltiplicazione dei posti, esse persero gradualmente di importanza, diventando col tempo cariche più onorifiche che reali. Per assolvere molti compiti propri delle tradizionali magistrature, Augusto si avvalse sempre più dei funzionari appartenenti all'ordine equestre, o addirittura di liberti, primo germe di quella solida classe burocratica, ordinata ed efficiente, che sarebbe stata, nei secoli successivi, uno dei cardini della stabilità dell'impero. Tra i funzionari imperiali, i più importanti furono a Roma i prefetti del pretorio, comandanti delle cohortes praetorianae, la guardia del corpo dell'imperatore, con compiti di polizia, e, nelle province, i legati, con compiti amministrativi. Rappresentava a Roma l'imperatore assente il praefectus urbi. La città, con circa mezzo milione di abitanti, fino allora divisa in quattro distretti corrispondenti alle quattro tribù urbane (Esquilina, Palatina, Suburana, Collina), fu riorganizzata in quattordici regioni: il servizio di polizia urbana era esplicato dalle cohortes vigilum al comando di un altro prefetto. Anche l'Italia, dai piedi delle Alpi allo stretto di Messina e che contava allora una decina di milioni di abitanti, fu suddivisa, sulla base di differenze etniche, linguistiche, storiche, geografiche, in undici regioni: la suddivisione, fatta allora più per scopi di statistica, in connessione con i censimenti, che per interventi diretti del governo centrale, fruendo i ca. 300 municipi del tempo di ampia autonomia locale, avviò il processo storico del regionalismo italiano. Anche il governo delle province venne riorganizzato: esse furono divise in senatorie, quelle in cui, essendo da tempo sotto il dominio romano, non era più necessaria la presenza di forze militari e i cui governatori erano scelti dal Senato tra ex magistrati di rango consolare e pretorio, e in imperiali che richiedevano invece un presidio militare e i cui governatori erano nominati direttamente dal principe. In campo economico poi, Augusto, mediante alcune misure, come la riscossione diretta dei tributi tramite funzionari statali in luogo di appaltatori, ottenne il risanamento finanziario dello Stato e dette impulso alla ripresa economica, che fu favorita anche dal rifiorire dell'agricoltura grazie alle nuove grandi distribuzioni di terre ai veterani. In politica estera, il principe si preoccupò di consolidare i confini invece di allargarli: la sconfitta che nel 9 d. C. il germanico Arminio inflisse nella selva di Teutoburgo a tre legioni romane, annientate insieme al comandante Varo, lo indusse a fissare i confini settentrionali sul Reno, invece che sull'Elba come avrebbe voluto, ritenendo questo confine più sicuro; con la conquista della Pannonia furono comunque congiunti, in una ben munita linea difensiva, limes, il confine del Reno e quello del Danubio. Furono pure annesse la Galazia e la Giudea, mentre sull'Armenia venne imposto il protettorato romano, dopo che i Parti avevano restituito le insegne da loro prese a Crasso. L'abbandono della politica di espansione, inizio di un lungo periodo di pace, permise anche di fissare in venticinque legioni gli effettivi dell'esercito, 250.000 uomini, che Augusto trasformò in milizia stanziale distribuendola ai confini per la difesa. Come già Cesare, anche Augusto promosse grandiose opere pubbliche a Roma : costruì o restaurò templi con lo scopo di favorire il ritorno alla religione tradizionale contro il diffondersi delle religioni orientali; eresse teatri, riparò strade, dando così alla città un aspetto adeguato al suo ruolo di capitale dell'Impero, tanto da poter affermare nelle Res gestae, il suo testamento inciso sul suo mausoleo, di aver trovato una Roma “laterizia” e di lasciarla “marmorea”. Favorì anche, aiutato da Mecenate, la cultura, e la letteratura latina conobbe in questo periodo, con Virgilio, Orazio, Livio, il suo momento più alto.

Storia: la dinastia Giulio-Claudia

Dopo la morte di Augusto, il principato si trasmise, quasi come un bene ereditario, agli esponenti della famiglia, nell'ambito di quella che è stata chiamata dinastia giulio-claudia (Tiberio, 14-37; Caligola, 37-41; Claudio, 41-54; Nerone, 54-68) e ciò per mezzo secolo, fino a che i rapporti col Senato e l'aristocrazia, presto fattisi precari sia per l'insofferenza dei ceti tradizionalisti verso un regime di fatto monarchico, ché tale consideravano il principato, sia per le tendenze autocratiche o addirittura dispotiche di certi imperatori, non si guastarono definitivamente con Nerone, dimostrando così quanto il sistema inaugurato da Augusto, e che si manterrà, senza radicali trasformazioni, per almeno tre secoli, cioè fino alla totale ristrutturazione che ne fece Diocleziano, dipendesse molto dalle qualità personali del principe con effetti differenti nell'evoluzione storica e nella valutazione ufficiale. Tiberio, oltre a rimanere fedele alla politica augustea della ricerca dell'equilibrio col Senato, si dimostrò anche, almeno nei primi anni, abile uomo politico e soprattutto ottimo amministratore dopo aver rivelato, vivo ancora Augusto, grandi doti militari nelle campagne in Germania e in Armenia, ma fu ritratto come un tiranno nella storiografia romana di parte aristocratica (fu Tacito il suo principale e implacabile accusatore). Anche la figura di Claudio che, succeduto al folle e crudele Caligola, svolse un'ottima politica sia curando particolarmente l'organizzazione burocratica e finanziaria dell'Impero, sia favorendo la romanizzazione e l'integrazione delle province, alle quali aggiunse anche la Britannia, fu oggetto di scherno e di denigrazione da parte di Seneca, altro esponente dell'aristocrazia senatoria. Con Nerone sembrò tornare l'equilibrio, ma dopo alcuni anni le sue tendenze dispotiche, vicine all'assolutismo di tipo orientale e in contrasto quindi con lo spirito nazionalista romano, il suo filellenismo, la sua politica demagogica, i suoi stessi intrighi familiari gli alienarono le simpatie della classe senatoria. Nel 64 fu sospettato di aver appiccato il grande incendio che allora distrusse Roma e che gli permise poi di promuovere la ricostruzione della città in modo più razionale, ma riuscì a sviare i sospetti sui cristiani, la cui religione, col suo messaggio di carità e con l'appagamento che sapeva dare alla speranza in una vita ultraterrena, si stava diffondendo anche a Roma. Nel 65 riuscì a sventare una congiura ordita dai massimi esponenti dell'aristocrazia, tra cui i Pisoni, Seneca, Lucano, e ne confiscò i beni accrescendo il patrimonio imperiale. Ma quando malcontento e spirito di rivolta, già serpeggianti a Roma per le sue megalomanie e il suo esibizionismo, si diffusero anche nell'esercito, che era cardine del potere del principe, Nerone, abbandonato da tutti, vistosi perduto si fece uccidere da un servo (68). Dopo quasi un biennio (68-69) di dure lotte per la successione, nel quale i capi militari Galba, Otone e Vitellio riuscirono a farsi proclamare imperatori, finendo però tragicamente uno dopo l'altro (due battaglie decisive furono combattute a Bedriacum nel Cremonese), prevalse il generale italico Vespasiano, capostipite della dinastia Flavia, originaria della Sabina: fu acclamato imperatore dalle legioni di Oriente al comando delle quali si trovava nella repressione della rivolta giudaica, scoppiata nel 66 e che si concluse poi nel 70 con la presa di Gerusalemme a opera del figlio Tito. Ristabilito l'accordo col Senato col ridare la preminenza nell'Impero all'elemento italico, che egli introdusse in modo sempre più massiccio sia nel Senato sia nella burocrazia e nei comandi militari, Vespasiano svolse un'intensa attività di governo in ogni settore dell'amministrazione dello Stato: fatte sancire dal Senato, con la Lex de imperio Vespasiani, le funzioni giuridiche del principe nel controllo su tutte le magistrature civili, militari e religiose e nella direzione della politica estera, perfezionò il sistema fiscale al fine di rendere più stabile e ordinato il bilancio dello Stato, riorganizzò il sistema giudiziario, rese più efficienti i governi locali, accentuò gli arruolamenti tra i provinciali, scarseggiando ormai gli italici per i quali risultavano più attraenti le carriere amministrative. Dopo il breve regno di Tito (79-81), durante il quale avvenne la grande eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed Ercolano (Roma stessa fu allora colpita da un'epidemia e semidistrutta da un nuovo incendio), Domiziano (81-96) continuò la politica paterna sia nell'incrementare l'apparato burocratico e giudiziario, sia nel coordinare lo sviluppo economico, sia ancora nel consolidare i confini (portò a termine la conquista della Britannia, rese inoffensivi i popoli germanici stanziati al di là del Reno e del Danubio, fortificò quei confini con la creazione di una zona di colonizzazione militare tra i due fiumi, i cosiddetti agri decumates), ma le sue tendenze dispotiche posero fine all'accordo col Senato che si vedeva sempre più esautorato dal consilium principis, un ristretto organo consultivo formato da familiari e da amici del principe, introdotto già da Augusto, ma divenuto potente a partire da Vespasiano.

Storia: gli imperatori adottivi

L'aristocrazia, colpita con indiscriminate confische di beni, ordì una congiura che eliminò Domiziano e portò al potere l'anziano senatore Cocceio Nerva, che dette inizio alla serie degli imperatori adottivi (Nerva, 96-98; Traiano, 98-117; Adriano, 117-138; Antonino Pio, 138-161; Marco Aurelio, 161-180), con i quali l'Impero conobbe il periodo della sua maggiore stabilità in una continuata prosperità economica. . Seguaci dell'ideale stoico secondo cui al vertice dello Stato deve essere il migliore tra i cittadini in grado di operare per il benessere comune, gli imperatori adottivi, forti dell'alleanza con la classe dirigente dell'Impero, si impegnarono a fondo nei compiti di governo garantendo sicurezza ai confini con opere di difesa e con una sagace dislocazione delle legioni, migliorando l'apparato burocratico con la gerarchizzazione delle carriere, stimolando lo sviluppo economico con opere pubbliche e favorendo il progresso culturale. Traiano, primo imperatore provinciale nato a Italica in Spagna, abile generale, allargò un po' dovunque, dove lo richiedevano ragioni di sicurezza e di difesa, i confini dell'Impero che, con lui, raggiunse la sua massima espansione territoriale: conquistò infatti la Dacia, l'odierna Romania (105), per impedire pericolose alleanze dei popoli transdanubiani con i Parti, e, per contrastare la temibile potenza di questi ultimi, assoggettò l'Arabia settentrionale (106), l'Armenia (114) e l'Assiria (116), riuscendo così a controllare anche le vie carovaniere del Mar Rosso. Adriano, anch'egli spagnolo, resosi però conto che le ultime conquiste rischiavano di compromettere l'equilibrio difensivo dell'Impero e creare ulteriori problemi militari e amministrativi, preferì abbandonarle e riprese la politica difensiva augustea rafforzando ovunque i confini con nuove linee fortificate (per esempio il vallo che prese da lui nome in Britannia) e stabilendo, dove era possibile, rapporti di alleanza con i barbari confinanti. Il ritorno della pace, insieme all'oro della Dacia affluito in gran quantità sui mercati dell'Impero, fece riprendere vigore, in Italia e nelle province, all'attività produttiva in ogni settore, artigianale e agricolo: gli scambi commerciali, favoriti anche dalla grandiosa rete stradale, ovunque sviluppata, che univa tra loro le più lontane province, si infittirono rinsaldando così l'unità politica e culturale dell'Impero, un Impero che si estendeva ormai su una superficie di oltre tre milioni di km² con 50-60 milioni di abitanti (ca. 15-20 ab. per km²). Numerose città furono abbellite con edifici e monumenti fastosi anche nell'Occidente, in Gallia, in Spagna, in Africa, province in cui la romanizzazione trovò stimolo in larghe concessioni della cittadinanza romana e dei diritti latini a interi centri urbani. Anche la macchina burocratica raggiunse, con gli Antonini, la sua piena maturità: Adriano dette struttura definitiva alla carriera equestre, fissando una gerarchia delle cariche burocratiche riservate alla classe dominante italica, alla quale cominciò ora ad affiancarsi anche quella provinciale; riformò la giustizia trasformando il consilium principis in organo ufficiale di consulenza giuridica e mettendo in pratica, con la pubblicazione dell'edictum perpetuum del pretore, una sistematica tendenza codificatrice valevole in ogni parte dell'Impero. Tuttavia, in un momento pur tanto splendido della storia di Roma e del suo Impero, covavano già in profondità elementi forieri di future difficoltà: prima di tutto la politica perseguita di un diffuso benessere, al quale non potevano reggere all'infinito le capacità produttive del mondo antico a base prevalentemente agricola, stava causando il progressivo indebitamento dello Stato e delle città; in secondo luogo il primato d'Italia, la cui economia dava segni di prime difficoltà con un'agricoltura minata dal secolare estendersi del latifondo e dallo spopolamento delle campagne in dipendenza di un urbanesimo eccessivo, fenomeni questi concomitanti con il graduale contrarsi dei tributi provinciali, si andava allentando rispetto alle province la cui ascesa economica era favorita dagli stessi imperatori (Adriano dedicò a esse particolari cure compiendovi lunghi viaggi): l'allentamento preludeva a future tendenze separatistiche. Si andavano poi delineando differenziazioni sociali tra gli honestiores, i ceti dominanti da una parte, e gli humiliores, i nullatenenti diseredati dall'altra, nei confronti dei quali lo Stato non sapeva che prendere misure di assistenza momentanee e dispendiose come le distribuzioni di grano e di altri generi. Un brusco e drammatico risveglio dalla lunga pace si ebbe durante l'impero di Marco Aurelio, l'imperatore filosofo deciso a realizzare fino in fondo l'ideale stoico del sovrano impegnato costantemente, al servizio dello Stato, a migliorare le condizioni di vita dei sudditi: i Parti avevano attaccato l'Armenia e bande di Marcomanni, alla testa di una vasta coalizione germanica, avevano assaltato i confini danubiani, mentre una rovinosa pestilenza, venuta dall'Oriente, dilagava nell'Impero decimando le popolazioni, già stremate da carestie. Per il momento il pericolo barbarico fu però scongiurato grazie all'abilità dell'imperatore: con l'aiuto del coreggente Lucio Vero, riuscì infatti ad aver ragione dei Parti e a riaffermare, con una pace conclusa nel 166, la superiorità romana nel settore armeno. Più tardi Marco Aurelio ristabilì la pace anche lungo il confine danubiano sconvolto per anni dai continui assalti barbarici (un'incursione di Marcomanni e Quadi aveva persino raggiunto Aquileia nel 167) e riportò le popolazioni germaniche alla clientela, senza tuttavia procedere a nessuna annessione. Pure domate erano state alcune ribellioni in Spagna e Britannia (161) e in Mauretania (172-173) e la rivolta del governatore Avidio Cassio in Oriente (175). Le difficoltà e le angosce del tempo sono riflesse nei bassorilievi della superstite colonna dedicata alle campagne di Marco Aurelio (oggi in Piazza Colonna) in cui non c'è più la limpidezza descrittiva dell'altra colonna dedicata alle imprese di Traiano più di mezzo secolo prima.

Storia: la crisi politica e Settimio Severo

Morto Marco Aurelio di peste nel 180, gli succedette, ripristinando il principio dinastico contro quello adottivo invalso nell'ultimo secolo (si tenga però presente che nessuno degli imperatori adottivi precedenti a Marco Aurelio aveva avuto eredi diretti), il figlio Commodo il quale, con atteggiamenti dispotici e una condotta spesso dissennata, che ricordava quella di Caligola e di Nerone, ruppe l'alleanza con l'aristocrazia senatoria sui cui membri infierì con esecuzioni e confische, infrangendo così l'equilibrio dell'era degli Antonini e dando inizio a una grave crisi politica nell'Impero. Infatti, eliminato Commodo in una congiura nel 192, il Senato non riuscì più a imporre stabilmente un proprio candidato, come aveva fatto un secolo prima con Nerva, e l'Impero precipitò temporaneamente nell'anarchia. Dapprima fu nominato imperatore il senatore Pertinace, ma, dopo soli tre mesi di principato, i pretoriani, preoccupati per il programma di austerità e parsimonia che egli aveva instaurato allo scopo di riparare ai danni causati alle finanze statali dalla politica folle del predecessore e dalle forti spese sostenute nelle guerre di Marco Aurelio, lo uccisero. Nella contesa che seguì per la successione tra vari aspiranti, cioè Didio Giuliano, che aveva ottenuto dal Senato il titolo di Augusto dopo aver versato a ciascuno dei pretoriani 25.000 sesterzi contro i 20.000 offerti dal concorrente Sulpiciano (l'Impero all'asta!), Pescennio Nigro, legato di Siria e sostenuto dalle legioni di Oriente, Clodio Albino, legato di Britannia, e Settimio Severo, un originario di Leptis Magna acclamato imperatore dalle legioni del Reno e del Danubio, ebbe la meglio quest'ultimo che riuscì a eliminare gli avversari a uno a uno, dopo aver occupato Roma nel giugno del 193 e aver fatto ratificare la sua nomina dal Senato. Meno legato, per l'origine africana, alla tradizione romana e alla vecchia concezione del principato, era persuaso che l'unica possibilità di mantenere in vita l'istituto imperiale poggiava su un'accentuazione del suo carattere tendenzialmente assolutista e perciò attivò con grande energia una politica di accentramento, nella quale rientravano anche le cure particolari da lui rivolte ai ceti bassi di tutto l'Impero, sia imponendo nuovamente il principio dinastico, sia esautorando, dalle ridotte competenze rimastegli, il Senato (già alterato nella sua fisionomia dall'immissione di nuovi membri, per lo più ora orientali e africani), sia potenziando e rendendo più efficiente l'esercito (nelle cui file favorì l'entrata di un numero sempre maggiore di elementi barbari), sia accrescendo le competenze della classe burocratica alla quale dette una struttura via via più rigida, sia infine diminuendo i privilegi di cui ancora godeva l'Italia rispetto alle province. La stessa energia Settimio Severo mostrò nella politica verso i popoli confinanti: nel 198 inflisse un duro colpo alla potenza dei Parti arrivando a conquistare la stessa capitale Ctesifonte al termine di una spedizione in Oriente, che, se portò al consolidamento del dominio romano in Mesopotamia, dove fu istituita una nuova provincia, si sarebbe rivelata però nel futuro poco propizia a Roma perché dell'umiliazione inflitta ai Parti si avvantaggiò la più intraprendente e temibile dinastia dei Sassanidi. Settimio Severo sulla strada del ritorno a Roma ispezionò anche i confini danubiani che rese ovunque più sicuri; più tardi fece avanzare verso il deserto il limes africano, e, infine, nel 208, visitò il confine britannico insidiato dai Caledoni e assicurò la pace anche nella regione oltre il vallo di Adriano. Tuttavia le grandi spese militari (la paga dei legionari fu allora portata da 300 a 500 denari), unitamente alle altre spese per l'amministrazione statale e per la costruzione di opere pubbliche (a Roma furono eretti l'arco in onore dell'imperatore e il Septizonium, un grandioso ingresso monumentale da sud), resero pesante il bilancio dello Stato, cosicché si dovette ricorrere a una politica fiscale opprimente: venne istituita l'annona militare che obbligava gli agricoltori a consegnare allo Stato, per il vettovagliamento delle truppe, parte dei loro raccolti, e si procedette a requisizioni di beni in natura e di servizi, spesso con procedure arbitrarie, a danno specialmente dei proprietari. Inoltre, allo scopo di far fronte alle crescenti spese pubbliche, si inflazionò ulteriormente il denario, ormai una lega d'argento e rame che già da decenni subiva un costante peggioramento, e si permise l'istituzione di zecche di Stato nelle province per poter affrontare le locali spese militari. La pressione fiscale, se per il momento riuscì a mantenere in sesto il bilancio, causò però un rallentamento nelle attività commerciali e artigianali e l'ulteriore fuga dalle campagne di molti superstiti piccoli agricoltori impossibilitati a sottostare ai gravami fiscali del tutto sproporzionati alle rendite: la classe media, specialmente quella italica, da sempre anticamera dell'aristocrazia di governo, iniziò a decadere, mentre diventavano sempre più potenti i militari.

Storia: la cittadinanza romana ai cittadini dell'Impero

Provvedimento sfavorevole al primato dell'Italia fu la Constitutio Antoniana de civitate (212), con la quale Caracalla concesse, al termine di un lungo processo di integrazione delle province nell'Impero, iniziato già ai tempi di Cesare e in linea con la politica severiana favorevole ai ceti bassi e ai provinciali contro l'aristocrazia tradizionale, la cittadinanza romana a tutti i cittadini liberi dell'Impero, a esclusione dei dediticii (gli abitanti di centri rurali di origine barbarica). Il provvedimento, che sanciva l'effettiva uguaglianza di tutti gli abitanti dell'Impero, fu forse dettato anche da ragioni finanziarie, implicando l'avvento di una tassazione uniforme e regolare con un gettito più abbondante, quale richiedevano sia le immense spese militari, sia le spese burocratiche e amministrative dello Stato; a esse si cercò di far fronte anche con una serie di altre imposizioni come il raddoppio delle imposte sulle eredità e delle tasse sull'affrancamento degli schiavi, senza che peraltro si ottenessero decisivi risultati, anche per il progredire dell'inflazione monetaria. Caracalla continuò la politica accentratrice del padre: uccise il fratello Geta, a lui associato nell'Impero, fece sopprimere chiunque gli si opponesse (tra le vittime ci fu anche Papiniano, uno dei più celebri giuristi del tempo che, quale prefetto del pretorio e membro del consilium principis con Settimio Severo, aveva contribuito a dare base giuridica alla nuova concezione imperiale). Ma dell'atmosfera piena di intrighi che si venne a creare intorno alla corte, sempre più simile alle corti orientali e addirittura propagatrice delle religioni universalistiche d'Oriente contro la vecchia religione romana, rimase vittima lui stesso, ucciso da una congiura a Carre nel 217 mentre era in procinto di organizzare una nuova spedizione contro i Parti. Dopo il breve regno del prefetto del pretorio Macrino, un cavaliere di origine mauretana che, indeciso se continuare la politica assolutistica di Severo o riprendere la politica filosenatoria degli Antonini, scontentò esercito e Senato finendo ucciso, il potere tornò nelle mani della famiglia dei Severi con Eliogabalo, appena quattordicenne e sacerdote del dio Sole di Emesa in Siria: anch'egli fu però presto eliminato, nel 222, per le ripetute follie e soprattutto perché aveva tentato di imprimere all'istituto imperiale una sorta di dispotismo mistico di stampo orientale. Il successore Alessandro Severo, pure giovanissimo e troppo debole per imporsi, cercò vanamente di ristabilire l'equilibrio tra la classe militare, sempre più potente, e l'aristocrazia senatoria gravemente danneggiata dalla stravagante condotta di Eliogabalo, ma si alienò in questo modo l'esercito che, con Settimio Severo, era divenuto la nuova, vera base dell'Impero: dopo tredici anni di regno, nel 235, mentre si trovava sui confini renani per cercare di porre un freno alla sempre crescente pressione barbarica, le sue truppe (già insoddisfatte per l'esito deludente che aveva avuto la campagna condotta contro la rinata e aggressiva potenza persiana in Oriente, attribuito alle indecisioni dell'imperatore più proclive al negoziato che allo scontro frontale) gli si ribellarono e lo uccisero, acclamando nuovo imperatore il loro prefetto Massimino, un cavaliere della Tracia che aveva fatto tutta la carriera nell'esercito e che il Senato subito avversò per la sua dichiarata volontà di continuare sulla linea dell'assolutismo militare e della pressione fiscale inaugurata da Settimio Severo.

Storia: l'assolutismo militare e le invasioni barbariche

Il principato si era ormai trasformato in un monarcato militare: i casi di Alessandro Severo, e, più tardi, di Massimino, entrambi uccisi dai loro stessi soldati, non rimasero senza seguito: per quasi mezzo secolo, infatti, gli imperatori furono fatti e disfatti a piacimento delle soldatesche con vendette, rappresaglie, confische di beni dei soccombenti e loro seguiti. Ciò avveniva mentre i barbari attaccavano da ogni parte le frontiere, aprendovi delle brecce nelle quali si infiltravano di frequente in massa seminando terrore e distruzione. Particolarmente grave si fece la situazione nel 242-243 quando le orde di Goti e di Carpi, varcato il Danubio, dilagarono nella Tracia e il nuovo re persiano Shāpūr, che aveva ripreso i piani espansionistici di Ciro il Grande, occupò la Mesopotamia e parte della Siria. Per il momento le invasioni furono respinte e, nel 248, l'imperatore Filippo poté celebrare in solennità il millennio di Roma , ma quando, dopo qualche anno, si ripeterono, succedette addirittura che un imperatore, Decio (248-251), venisse ucciso in battaglia e un altro, Valeriano (253-260), fosse fatto prigioniero da Shāpūr e morisse in prigionia. Nel decennio successivo l'unità e la sopravvivenza stessa dello Stato romano furono messe in forse: in Occidente si costituì, con l'usurpatore Postumo, un Impero nell'Impero, comprendente Gallia, Spagna e Britannia, che mantenne la propria autonomia per quattordici anni (260-274); in Oriente il principe di Palmira, Odenato, e successivamente la vedova Zenobia col figlio Vaballato, estesero il loro dominio su gran parte di quelle province, mentre si infittirono sempre più le incursioni barbariche, una delle quali arrivò fino ad Atene. Con l'imperatore Claudio (268-270), ma soprattutto con Aureliano (270-275), ufficiale pannonico, ebbe inizio la ripresa, resa possibile dal fatto che l'apparato statale aveva tenuto in mezzo a tante sciagure e che nuovi ceti dirigenti si erano formati con i rincalzi militari venuti dalle regioni danubiane: una serie di sconfitte fu inflitta ad Alemanni, Marcomanni, Vandali, Goti che, affrontati da un capo all'altro dell'Impero, furono ricacciati nei loro confini, quando non ottennero anche territori dell'Impero da colonizzare; la Dacia transdanubiana, la cui difesa diventava difficile, venne però abbandonata come già era successo, anni prima, degli agri decumates, ma Palmira fu alla fine distrutta e l'Oriente riconquistato (272); nel 274 rientrava pacificamente anche la secessione occidentale e l'Impero era così riunificato. Per garantire Roma da ogni possibile assalto, Aureliano la ricinse allora di una possente cerchia di mura (quasi 19 km).

Storia: Diocleziano e la diffusione del cristianesimo

Grande figura di imperatore fu Diocleziano (284-305), un generale illirico di modeste origini (era figlio di un liberto). Dopo aver domato, nei primi anni del suo governo, numerose rivolte militari scoppiate un po' ovunque e aver energicamente respinto le ormai abituali incursioni barbariche ai confini, il nuovo imperatore procedette con vigore a una serie di riforme dettate dalle esperienze del passato e in linea con le nuove esigenze: rafforzò l'autorità dell'imperatore; riorganizzò i sistemi amministrativi, giudiziari e finanziari dello Stato; risanò l'economia sempre più in difficoltà e rinnovò i quadri militari. Per evitare le lotte interne e le usurpazioni che tanto avevano turbato la vita dell'Impero nell'ultimo secolo e per garantire la difesa e un più rigido controllo del potere centrale in ogni parte dell'Impero, dette vita alla cosiddetta tetrarchia nominando come secondo Augusto per l'Occidente Massimiano, mentre egli tenne il governo dell'Oriente: ognuno dei due si nominò poi un Cesare, nelle persone rispettivamente di Costanzo Cloro e di Galerio, che avrebbero dovuto succedere loro scegliendo poi a loro volta altri due Cesari, in modo da garantire una successione automatica senza più contese. I due Augusti e i due Cesari si suddivisero aree e compiti di governo, ognuno con una sua capitale prossima alle frontiere, che fu Nicomedia per Diocleziano e Sirmium per Galerio, Milano per Massimiano e Treviri per Costanzo: Roma era ormai troppo lontana dalle zone calde di confine, verso le quali era andato gradualmente rivolgendosi, nell'ultimo secolo, l'interesse degli imperatori, per poter continuare a svolgere il ruolo di capitale reale. Per assicurare una valida difesa dei confini, Diocleziano suddivise gli effettivi dell'esercito, peraltro aumentato a 500.000 unità, in reparti di guarnigione, limitanei, stanziati stabilmente alle frontiere, e in reparti mobili, comitatenses, stanziati invece presso le capitali al seguito delle corti, ma pronti ad accorrere nelle zone più esposte a pericoli. La ristrutturazione dell'amministrazione ebbe però come conseguenza un ulteriore veloce aumento della burocrazia. L'introduzione di un nuovo sistema fiscale di tipo catastale rese la tassazione più regolare e copiosa in vista del risanamento del deficit dello Stato. Ma in campo economico le misure di Diocleziano non ottennero sempre i risultati che si riprometteva: per esempio il famoso edictum de pretiis emanato nel 301 per frenare il rapido rialzo dei prezzi non ebbe effetti durevoli. L'aggravarsi della pressione fiscale, anche se benefico all'inizio, ebbe successivamente per effetto l'aumento della diserzione delle campagne da parte dei contadini a cui si aggiunse una diffusa tendenza all'abbandono della propria professione da parte di coloro che non riuscivano a sostenere gli oneri connessi con i servizi pubblici che lo Stato imponeva: ciò renderà necessario intervenire sancendo l'ereditarietà delle professioni e il divieto ai contadini di abbandonare i campi, col che un grave colpo finirà con l'essere inferto alla libera iniziativa economica, preparando l'avvento del medievale servaggio della gleba. Diocleziano, messosi su una strada di dirigismo statale e continuando nella tendenza già manifestatasi coi Severi, e più tardi con Aureliano, accentuò il carattere sacro della figura dell'imperatore anche nelle forme esterne (diadema, veste regale, genuflessione) alla maniera orientale: egli è ormai il dominus, il padrone (e col termine di “dominato” sarà indicato il tardo Impero come con quello di principato il periodo iniziale). Il rendere culto all'imperatore si trasformò così in una prova di lealismo e l'urto col cristianesimo diventò inevitabile. Le fila dei cristiani si erano andate sempre più ingrossando, nonostante le persecuzioni cui erano stati fatti oggetto negli ultimi tempi, soprattutto a opera di Decio e Valeriano, dopo la tolleranza di cui avevano goduto nell'epoca degli Antonini. Contro di loro, ritenuti un pericolo per l'unità dell'Impero, Diocleziano, in un supremo tentativo di distruggerne la forza sempre crescente a tutti i livelli sociali, scatenò nel 303 in Oriente, in Africa, in Italia una violenta persecuzione, alla quale però il cristianesimo seppe tener testa. Questa politica religiosa era fuori del tempo: il cristianesimo si era largamente diffuso e radicato e vano era ormai ogni tentativo di distruggerlo; bisognava piuttosto cercare di assorbirne la vitalità inquadrandola a profitto dello Stato per non esserne travolti.

Storia: Costantino

Di ciò si rese conto Costantino (306-337) che, figlio di Costanzo Cloro, col fallimento del sistema tetrarchico, nella lotta di successione seguita all'abdicazione di Diocleziano (305), era riuscito a liberarsi degli avversari (da ultimo anche del temibile e forte Massenzio vinto al Ponte Milvio a Roma nel 312). Rimasto praticamente solo al vertice dello Stato, nel 313 emanò il famoso Editto di Milano che sancì la libertà di culto all'interno dell'Impero: il cristianesimo poteva uscire dalle catacombe e si preparava a divenire una delle più grandi religioni della storia. Da quel momento le sue vicende si intrecciarono con quelle dell'Impero per l'attenzione costante che gli imperatori ebbero verso di esso: Costantino partecipò in persona al Concilio di Nicea nel 325 e con Teodosio, sul finire del sec. IV, quella cristiana divenne religione ufficiale dello Stato romano mentre veniva interdetto il culto pagano. Il ritorno dell'ordine all'interno e della sicurezza ai confini seguiti alle riforme di Diocleziano, insieme alla pacificazione religiosa (e alle ricchezze confiscate ai templi pagani), favorirono nel sec. IV una notevole ripresa economica: la produzione agricola, con gli stanziamenti di barbari operati dagli imperatori, specialmente da Probo (276-282), con l'intento di rimettere a coltura le terre abbandonate e col legame alla terra poi imposto ai coloni, fu incrementata; l'agricoltura italiana conobbe, nel sec. IV, addirittura momenti di grande prosperità. Fu intensificata, anche con fabbriche di Stato, la produzione manifatturiera artigianale e pure i commerci ridivennero attivi in tutto l'Impero, favoriti dalla ripresa vigorosa dell'urbanesimo dopo la stasi del sec. III. Di questo generale incremento di ricchezza è testimonianza l'intensa attività edilizia: le città, tra le quali divenne sempre più importante la nuova capitale Costantinopoli la cui costruzione richiese ricchezze immense, dopo aver in breve tempo riparato i danni causati dai saccheggi del secolo precedente, facevano a gara nell'arricchirsi di monumenti e di palazzi fastosi. Roma stessa ottenne nuovi grandiosi edifici, le terme di Diocleziano, la basilica di Massenzio, l'arco di Costantino: anche se non era più la capitale di fatto si era però accentuato il suo valore ideale. Anche la moneta tornò stabile: Costantino fece coniare il solidus, una moneta d'oro (4,55 g) che entrò subito nell'uso corrente (sopravvisse per ben sette secoli). Tutto ciò non fu però di lunga durata: la riorganizzazione iniziata dagli imperatori illirici e continuata da Costantino, che moltiplicò ulteriormente gli uffici della corte, aveva bensì reso sempre più efficienti i servizi statali e permesso la ripresa economica, ma alla lunga portò a un aumento eccessivo nel numero delle persone a carico dello Stato e ciò, insieme alle spese militari, al dispendio delle corti e all'intensificazione delle distribuzioni di grano e di altri viveri alle plebi urbane per garantire l'ordine pubblico, causò nuovamente, come era già avvenuto nel corso del sec. III, una dilatazione della spesa pubblica oltre la misura consentita dall'economia del tempo, la cui produttività era fortemente limitata dall'insufficiente meccanizzazione: ciò dimostra come nel mondo antico, per le obiettive condizioni del tempo, un immenso Stato, organizzato ed efficiente come era quello romano nel sec. IV, non aveva possibilità di sopravvivere a lungo. Di queste difficoltà già si rese conto a metà secolo l'imperatore Giuliano, una delle personalità più elevate della serie imperiale romana, per un suo senso del dovere e quella sete di giustizia che ricordavano Marco Aurelio: nipote di Costantino, già Cesare dal 355 di Costanzo II, al quale era succeduto nel 361, cercò di ridimensionare le spese, ma la sua azione finanziaria e politica ad ampio raggio, insieme al tentativo di restaurare la religione pagana in un generale ritorno allo spirito della tradizione repubblicana di Roma , rimase interrotta perchè fu ucciso nel 363 combattendo contro i Persiani in Mesopotamia. Sul finire del secolo, poi, ripresero anche le incursioni barbariche ai confini, interrotte negli ultimi decenni grazie all'attenuarsi della pressione da Oriente dei più lontani popoli asiatici. Ma quando gli Unni, sospinti a loro volta dai Mongoli, varcarono il Volga, l'equilibrio fu nuovamente infranto e le popolazioni germaniche stanziate nell'Europa orientale furono costrette ad avanzare verso i confini dell'Impero. Nel 378 i Visigoti attaccarono Adrianopoli: l'esercito romano, ormai costituito in maggioranza di barbari, venne travolto e lo stesso imperatore Valente, che aveva invano cercato un compromesso permettendo ai Visigoti di stanziarsi nel territorio romano, fu ucciso.

Storia: Teodosio, l'ultimo imperatore

Teodosio, l'ultima grande figura di imperatore e l'ultimo che governò (379-395) su tutto l'Impero, continuò sulla strada del compromesso consentendo a numerose comunità di barbari di stanziarsi entro i confini dell'Impero come foederati: questa politica, se per il momento riuscì a evitare il peggio, alla lunga favorì però il graduale insediamento barbarico nei posti di comando imperiali contribuendo così a gettare le basi dei futuri regni romano-barbarici. Morto Teodosio, e rimasto diviso l'Impero nei due tronconi di Occidente e Oriente, toccati ai due figli Onorio e Arcadio, il potere centrale si indebolì, anche per l'inefficienza degli Augusti, spesso adolescenti sotto tutela, e le invasioni barbariche non trovarono più ostacoli. I Visigoti, guidati da Alarico, irruppero in Italia all'inizio del sec. V: inizialmente furono fermati a Pollenzo in Piemonte da un esercito composto in maggioranza di barbari comandato da Stilicone, il magister utriusque militiae che esercitava la tutela su Onorio, ma quando, per gli intrighi della corte, nel frattempo stabilitasi a Ravenna, il generale venne eliminato, i Visigoti, guidati da Alarico, poterono arrivare quasi indisturbati fino a Roma che presero e saccheggiarono nel 410. Nel 451 fu la volta degli Unni di Attila: scacciati dalla Gallia, dove si erano nel frattempo insediati i Visigoti, dopo la sconfitta inflitta loro a Chalôns-sur-Marne dal generale barbarico Ezio che combatteva in nome di Roma , gli Unni invasero l'Italia settentrionale seminando terrore tra le popolazioni: Attila acconsentì però a ritirarsi dopo aver incontrato papa Leone I che gli era mosso incontro da Roma. Nel 455 Roma fu nuovamente messa a sacco dai Vandali di Genserico, appositamente salpati dall'Africa dove si erano stanziati. Roma continuava dunque ad attrarre e a suscitare ricordi di grandezza, sebbene da tempo avesse perso le sue prerogative di capitale e di centro di quell'Impero che da essa aveva preso nome. Mentre la parte orientale, o Impero bizantino, più ridotta e politicamente meglio amalgamata, ma anche meno esposta alle correnti di invasioni barbariche, sopravvisse per più secoli ancora, quella occidentale, a causa degli incessanti attacchi barbarici avvenuti nel corso della prima metà del sec. V, perse definitivamente la propria unità politica frantumandosi nei vari regni barbarici che si erano venuti a costituire nelle province romane. Il 476 è la data convenzionalmente accettata per fissarne la fine ufficiale: in quell'anno infatti Odoacre, il generale sciro salutato re dai mercenari eruli, rugi e sciri che combattevano nell'esercito romano, trovatosi padrone dell'Italia, depose l'ultimo imperatore, il giovane Romolo Augustolo, e rimandò le insegne imperiali all'imperatore d'Oriente dichiarando di voler governare quale suo luogotenente col titolo di patrizio che da tempo veniva conferito ai comandanti delle forze imperiali. Odoacre e gli altri capi barbari si accordarono presto con i grandi proprietari e gli alti prelati liquidatori ed eredi dell'Impero caduto. Roma ora si accingeva ad assumere un nuovo ruolo, quello di centro della cristianità: sulle rovine dell'Impero e nel vuoto politico seguito si era infatti sempre più affermata la Chiesa che, ereditandone l'idea universalistica (così bene interpretata nel 416 dal poeta Rutilio Namaziano, originario della Gallia, con il verso fecisti patriam diversis gentibus unam, hai fatto un'unica patria di genti diverse), avrebbe salvato e trasmesso ai secoli futuri quanto di duraturo aveva creato il mondo antico, riassunto appunto da Roma nello sviluppo secolare della sua civiltà.

Diritto romano: generalità

Il diritto romano, come istituzione e come ordinamento, rimase in vigore dalla fondazione di Roma fino alla morte di Giustiniano (565). Una tendenza recente (in particolare negli storici del diritto romano) espone molto in breve le successive applicazioni della compilazione giustinianea, sia in Occidente fino alle codificazioni europee, sia in Oriente e anche in altre lontane regioni (Sudafrica, Srī Lanka), e alcuni autori denominano questa successiva elaborazione tradizione romanistica. I periodi fondamentali in cui va distinto lo sviluppo del diritto romano vero e proprio sono tre: dalle origini al sec. II a. C. (periodo del diritto quiritario, fondato sulla consuetudine e sulla legge delle XII Tavole, la più antica codificazione scritta); dal sec. II a. C. al III d. C. (periodo del diritto romano universale, coincidente con il massimo splendore della civitas e con l'espansione politica, militare e commerciale di Roma ); dal sec. III d. C. alla compilazione giustinianea (periodo della decadenza, trasformazione del diritto romano in legge ufficiale dell'Impero, emergenza degli urti con gli usi e le consuetudini locali, in particolare dell'Oriente greco, e formazione di un sistema giuridico romano-ellenistico).

Diritto romano: l'amministrazione della città-Stato, le familiae

Nel territorio in cui venne fondata Roma vivevano familiae, almeno in parte organizzate in gentes. Queste ultime erano composte di patrizi (o gentili) e di clienti. Le familiae erano governate da un pater familias, avente poteri che giungevano fino al diritto di vita e di morte, controllati, tuttavia, probabilmente già in epoca regia e poi durante la repubblica finché funzionò la censura. Soggette alla potestas del pater erano anche le famiglie dei filii e dei loro discendenti. L'assoggettamento al pater poteva dipendere: da concepimento di figli e ulteriori discendenti da liberi in potestate, in costanza di legittimo matrimonio; da adozione per arrogazione o davanti a un magistrato (e forse già al re); per conventio in manum di una donna; per nascita di un illegittimo da filia in potestate. In una posizione di assoggettamento diverso erano gli schiavi. Gli impuberi e le donne sui iuris erano soggetti a tutela. La potenza di certe familiae era accresciuta anche dal vincolo di patronato a un pater di clienti e liberti. Tale organizzazione familiare era legata alle esigenze proprie di una società agricolo-pastorale, ma per l'organizzazione del lavoro con cui operava fu tuttavia in grado di adempiere, dopo che Roma divenne il centro egemonico dell'Italia e poi di tutto il bacino mediterraneo, ai nuovi compiti richiesti dalle attività commerciali (compresa la bancaria) e artigianali, in certo senso anche industriali. L'affermarsi di attività commerciali consolidò l'uso di concessioni patrimoniali da parte del pater a figli e servi preposti a un'impresa (per esempio il peculio). La costituzione e conservazione di familiae politicamente ed economicamente forti e numerose erano poi favorite dal regime della successione inter vivos e mortis causa: così l'arrogazione, la conventio in manum, la facoltà dei filii, divenuti patres familias dal momento della morte del loro pater, di conservare unito il patrimonio e la facoltà del testatore di diseredare chi riteneva non meritevole di divenire pater. Solo in seguito il pretore pose rimedio a certi inconvenienti che la libertà di testare procurava in determinati casi (per esempio nella bonorum possessio). Secondo la tradizione, fino al 510 a. C., Roma fu governata da re, capi religiosi, politici, militari, vitalizi ma non ereditari, consigliati da un Senato, il quale alla morte di ogni re governava per mezzo di un interrex, finché non si giungeva alla scelta del successore, certo della protezione degli dei patri. I Romani venivano convocati per ragioni religiose, amministrative (in particolare militari) dapprima nei comizi curiati e, dopo Servio Tullio, anche nei centuriati. I due comizi continuarono a essere convocati anche dopo l'avvento della Repubblica: ma, mentre il primo svolgeva solo le sue antiche funzioni con esclusione di quella militare, il secondo esplicò, col tempo, quelle elettorale (elezione dei magistrati), legislativa (leggi comiziali) e giudiziaria (processo pubblico; processo magistratuale-comiziale). Eguali compiti ebbero anche altre due assemblee popolari: i comizi tributi e i concili della plebe, questi ultimi convocati dai tribuni della plebe, a cominciare, secondo la tradizione, dal 494 a. C. Le assemblee popolari, quando la costituzione repubblicana raggiunse un assestamento definitivo, operavano solo se convocate dai magistrati ordinari annuali (per esempio consoli, pretori, ecc.), oppure straordinari (dittatore, decemviri, ecc.). Altro organo essenziale al funzionamento della Repubblica era il Senato. Essendo le magistrature annuali e il popolo convocati solo su iniziativa di un magistrato, l'organo più importante per la soluzione dei maggiori problemi di politica estera e interna fu il Senato, composto dapprima per larga parte e poi esclusivamente di ex magistrati. Il criterio non venne modificato per tutta l'età repubblicana, non avendo avuto successo i vari tentativi di mutamento della costituzione, messi in opera da Mario, Silla, Pompeo e Cesare. Già i re e poi i magistrati repubblicani, per impedire la vendetta privata, erano intervenuti per la repressione di pochissimi crimini, in particolare del tradimento, dell'omicidio e di altri crimini di carattere religioso o magico. Col tempo, per impedire al magistrato un esercizio non controllato del potere, venne introdotta la provocatio ad populum e, nel sec. II a. C., apposite leggi regolarono il processo accusatorio davanti a giurie (quaestiones perpetuae). Ogni legge prevedeva il reato, il collegio giudicante, il suo funzionamento, la pena da applicare al reo. Questi processi, dopo varie vicende, vennero riordinati con leggi, dapprima da Cesare, poi da Augusto. Ma proprio allora sorgeva il nuovo processo inquisitorio della cognitio extra ordinem. Anche nel processo privato Roma, fin dall'epoca più antica, intervenne per impedire che chi si sentiva leso in un suo diritto facesse ricorso alla forza. Per raggiungere questo scopo, già nel processo privato più antico (per legis actiones) l'attore poteva condurre il convenuto dapprima davanti al re e poi al magistrato e, in presenza di questi, servendosi di determinate forme solenni vincolanti per entrambi, deferire la decisione a un organo imparziale (scelto anche con l'accordo delle parti), il cui giudicato era inappellabile. Si affermò così il processo privato diviso in due stadi (in iure e apud iudicem), che ebbe grande importanza dopo il sorgere, accanto a quello per legis actiones, del processo per formulas, che dava maggiore libertà alle parti di precisare le loro pretese davanti al magistrato e a questi di sintetizzarle in uno scritto (formula). Il processo per legis actiones, reso facoltativo dalla legge Ebuzia (sec. II a. C.), ebbe ancora più limitata applicazione al tempo di Augusto, quando al processo formulare cominciò a essere affiancato, per risolvere alcuni reati particolari, un processo nuovo: la cognitio extra ordinem.

Diritto romano: l'organizzazione dell'Impero, il diritto universale

I mutamenti nella procedura si spiegano facilmente se si pensa che Roma, da piccolissima città-Stato composta di agricoltori-pastori guerrieri, era divenuta la capitale di un vastissimo Impero e il centro commerciale più importante dell'intero bacino mediterraneo e regioni vicine. Si mantennero sostanzialmente immutate le distinzioni delle cose in: cose (res) in commercio e cose fuori commercio e, con riferimento alle prime, conservò notevolissima importanza il dominium ex iure Quiritium, proprietà in suolo italico esente da tributo fondiario. I territori extraitalici, quando vennero organizzati in province, furono invece tutti soggetti a un tributo (stipendium o vectigal, secondo il modo di riscossione). La riscossione di un vectigal per godimento di agro pubblico esisteva tuttavia anche in Italia, prima delle grandi conquiste; lo stipendium acquistò invece particolare importanza col principato, trovando applicazione soprattutto nelle nuove province. L'antichissimo formalismo spiega la distinzione delle cose in res mancipi e nec mancipi, sorta per risolvere i problemi che si presentavano per il trasferimento della proprietà terriera e per la costituzione delle servitù prediali rustiche (mancipatio e in iure cessio) e poi anche urbane (in iure cessio) e di ogni altro bene (traditio). Accanto al diritto di proprietà, la signoria di fatto sulle cose (possessio) riceveva tutela solo a certe condizioni e a opera del pretore. In particolari situazioni, la possessio portava all'acquisto della proprietà per usucapione, sanando eventuali vizi dell'atto di trasmissione. Caratterizzati dal formalismo erano pure gli atti costitutivi (contractus) delle più antiche obbligazioni, intese come vincolo giuridico in forza del quale una persona è tenuta nei confronti di un'altra a un determinato comportamento: così la sponsio, la stipulatio, la dotis dictio, la promissio iurata liberti, ecc., cui si aggiunsero ben presto altri contratti reali (mutuo, comodato, deposito) e i quattro contratti consensuali (compravendita, locazione, società, mandato). I Romani conobbero, ai fini della tutela giudiziale, per mezzo di azione iuris civilis, soltanto contratti tipici. Eguale osservazione si può fare per le obbligazioni ex delicto (furto, rapina, danneggiamento, lesione all'integrità fisica o morale di una persona). La vita sociale più complessa indusse poi il pretore a proteggere anche chi aveva subito violenza o era stato raggirato e ad accordare protezione giudiziale ad altre fattispecie ancora. Evidentemente, mentre la costituzione della città-Stato ebbe molta difficoltà a essere superata, quando Roma divenne capitale di un vastissimo Impero, in materia di diritto privato era più agevole tener conto dello sviluppo della vita commerciale e predisporre idonei schemi negoziali e rimedi processuali. L'adattamento era favorito dal modo di formazione delle norme e in particolare dall'elaborazione giurisprudenziale. Alle antichissime leggi regie e delle XII Tavole (451-450 a. C.) e allo ius civile, elaborato e trattato fino agli inizi del sec. III a. C. soltanto dalla giurisprudenza pontificale e poi anche da quella laica, si venne col tempo aggiungendo l'editto dei pretori urbano e peregrino, dell'edile curule e del governatore provinciale. In particolare, la soluzione dei casi pratici, fornita dai giureconsulti, e l'editto del pretore permisero a Roma di risolvere i rapporti fra Romani e fra essi e gli stranieri, via via che si presentavano concretamente. Il mantenimento dei diritti locali, per regolare i rapporti tra sudditi di ogni singola provincia e per la punizione dei crimini non comportanti la pena di morte, rese più facile e stabile il governo dell'Impero, malgrado le difficoltà risultanti dal fatto che esso era retto dall'ordinamento giuridico sorto per sopperire alle esigenze di una piccola città-Stato. Dopo la battaglia di Azio (31 a. C.), Ottaviano ottenne una serie di poteri che gli per misero di coordinare meglio i rapporti tra Roma e le province già governate dal Senato e quelle costituite in seguito a varie conquiste. Con il conferimento ai successori degli stessi poteri attribuiti ad Augusto si delineò una costituzione nuova: il principato, per la cui esistenza erano sempre necessarie, ai fini del legittimo conferimento di poteri, deliberazioni formali del Senato e del popolo romano convocato nelle assemblee. Queste ultime, però, nel corso del sec. I d. C., furono svuotate di ogni importanza politica. Nel corso del progressivo consolidamento del principato si venne organizzando una burocrazia centrale (cancelleria imperiale, praefecti, curatores) e periferica (legati, procuratores) sempre più efficiente. La politica di ogni principe si realizzò o con la collaborazione o in lotta più o meno aperta col Senato e con l'organizzazione municipale italica. Soprattutto i Severi (193-235 d. C.) fondarono il loro potere sull'esercito, che, dopo la morte violenta dell'ultimo di essi (Alessandro Severo), creò imperatori in lotta fra loro, finché prima Diocleziano (284-305) e poi Costantino (306-337) dettero vita a un nuovo ordinamento dell'Impero (dominato o monarchia assoluta), che giunse fino al tempo di Giustiniano (527-565) e oltre ancora. Delle tre fonti del diritto esistenti durante la Repubblica le leggi comiziali non furono più proposte dopo il sec. I d. C.; l'editto, soprattutto dopo Adriano, introdusse innovazioni forse solo su materia già deliberata dal Senato o sancita da costituzioni imperiali; la giurisprudenza, soprattutto nei sec. I-inizio III d. C., compì invece un'opera mirabile di sistemazione dello ius civile e di commento dell'editto. Nuove fonti furono le costituzioni imperiali di varia specie e i senatoconsulti. Augusto riordinò le quaestiones perpetuae; in quel tempo si ricorse sempre meno alla provocatio ad populum, mentre si affermò il processo extra ordinem, davanti all'imperatore e in certi casi al Senato, che trovò ampio sviluppo soprattutto a opera di funzionari imperiali, con possibilità di appello al principe. La stessa procedura ebbe applicazione anche in campo privatistico accanto al processo formulare, che venne ulteriormente perfezionato. A ciò contribuì efficacemente, con i commenti ai vari editti, la giurisprudenza, spesso anch'essa stimolata dall'emanazione di costituzioni imperiali e da senatoconsulti. La familia, sotto il governo del pater, si prestava ancora bene a conservare e costituire alleanze politiche e imprese commerciali o industriali e anche a organizzare tenute modello o latifondi a pascolo. La posizione della donna risultava notevolmente migliorata soprattutto dal sec. II a. C.: quella sposata poteva conservare la dote in caso di divorzio; le era possibile cambiare il tutore col quale non andasse d'accordo; sotto Claudio fu abolita la tutela degli agnati. Per quanto mutata, la condizione della donna poteva ancora facilitare accordi politici e commerciali, spesso per mezzo di divorzi e nuovi matrimoni. Questi sorgevano con il consenso dei nubendi, purché esistessero i presupposti sanciti dal diritto (sesso, età, conubium, inesistenza di determinati vincoli di parentela) e si scioglievano per volontà di uno dei coniugi (divorzio). Durante il principato non si ebbero rilevanti innovazioni nel sistema dei diritti reali e obbligatori, perché i problemi nuovi erano già sorti al tempo delle grandi conquiste mediterranee; l'epoca fu invece caratterizzata da una notevole elaborazione scientifica, che ordinò sistematicamente le materie, mettendo in luce la bontà delle soluzioni dei singoli casi, date dai giuristi, in particolare da quelli muniti di ius respondendi ex auctoritate principis. Rimasero immutate le antiche distinzioni delle cose (fuori commercio e in commercio) e trovarono un'esposizione sistematica in opere istituzionali (in particolare è nota quella di Gaio) la distinzione tra dominium ex iure Quiritium e regime degli agri stipendiarii e vectigales, l'esame attento del concetto di possessio, cui è collegato quello di usucapio e la relativa attività del pretore. In tema di obbligazioni il termine era usato prevalentemente per indicare obblighi nascenti dallo ius civile con esclusione di tutti quelli aventi origine da atti giuridici leciti o illeciti disciplinati dal pretore. Gaio, trattando delle fonti delle obbligazioni da contratto e da delitto, mostrava le difficoltà della classificazione dottrinale da lui accolta, che in qualche modo venne successivamente integrata con l'aggiunta delle variae causarum figurae. Data la tipicità delle obbligazioni nascenti da contratto e da delitto, le difficoltà di dare una sistemazione soddisfacente a volte non dovettero essere lievi. La preoccupazione maggiore della giurisprudenza fu quella di fornire soluzioni convincenti sui modi di costituzione, trasmissione, estinzione e garanzia delle obbligazioni: così che soprattutto la disciplina delle obbligazioni trovò amplissimo impiego successivamente e, tramite la compilazione giustinianea, fu largamente utilizzata anche nel Codice napoleonico e in altre successive codificazioni. Col termine successio i giuristi classici indicavano il subentrare per un fatto unico nel complesso dei rapporti giuridici di un soggetto: eredità, arrogazione, conventio in manum, bonorum possessio, bonorum emptio. L'erede, sia testamentario sia ab intestato, subentrando nella posizione giuridica del defunto, acquistava tutto il suo patrimonio, perciò anche i debiti; l'erede suus et necessarius (discendente) o necessarius (servo manomesso e istituito) diventava erede anche contro la sua volontà, l'erede volontario doveva invece accettare l'eredità o con un atto solenne o con un comportamento che rivelava la sua volontà di accettare. Regolando la bonorum possessio e la bonorum emptio, il pretore prese a modello l'eredità, istituto civilistico, connesso con l'organizzazione della familia fin da epoca antichissima e via via sviluppato dalla giurisprudenza. L'attività del pretore proseguì, tenendo sempre in maggior conto le situazioni debitorie dannose per gli eredi sui et necessarii e necessarii e i problemi posti da legati e fedecommessi e dall'omissione, nel testamento, di figli anche emancipati e del patrono. Interventi imperiali e senatoconsulti che svilupparono precedenti innovazioni repubblicane furono mirabilmente commentati dai giureconsulti in opere di ius civile, di commento all'editto, di digesta, tutte ampiamente utilizzate da Giustiniano nella sua compilazione.

Diritto: la compilazione giustinianea

Con l'inizio dell'anarchia militare, la giurisprudenza, che era rimasta ancora fiorente al tempo dei Severi (Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino), ebbe un arresto; quando con Diocleziano e Costantino s'instaurò la monarchia assoluta, anche per il fatto che nel 212 Caracalla aveva esteso la cittadinanza a tutti i peregrini dell'Impero, l'esigenza più sentita fu quella di fare dei riassunti di opere istituzionali (Regulae Ulpiani e Pauli Sententiae), oppure raccolte di costituzioni imperiali (rescritti), di utile impiego per la soluzione dei più importanti problemi di una vita quotidiana notevolmente impoverita da una continua lunghissima guerra. Questa ebbe termine quando, dapprima con Diocleziano e poi con Costantino, le province vennero ridimensionate e sottoposte al controllo prima di vicari, preposti alle diocesi, e poi anche di prefetti del pretorio. Fu inoltre costituito, accanto agli eserciti stanziati sui confini, un esercito di manovra alle dirette dipendenze del monarca, e furono resi sempre più efficienti gli organi burocratici centrali, che trasmettevano e ricevevano per via gerarchica disposizioni o richieste ritenute necessarie per il funzionamento dell'amministrazione del vastissimo Impero. Nella scelta del successore del monarca, non solo il popolo, ma neppure il Senato ebbe più una qualsiasi possibilità d'intervento. Il principio che ben presto si affermò fu quello dinastico. L'imperatore, sostenuto dall'esercito, fu coadiuvato da una burocrazia saldamente ordinata secondo il principio gerarchico amministrativo, diretta da ministri (magister officiorum, quaestor sacri palatii, comes sacrarum largitionum, comes rerum privatarum); questi si riunivano in un consistorium principis, sotto la presidenza dell'imperatore o di un suo designato. Per meglio controllare ogni attività dell'Impero, il monarca dispose che i figli seguissero la professione paterna, persino nel mestiere delle armi, dando vita a un ordinamento corporativo con rigide divisioni in classi. Diventando estremamente gravosa l'amministrazione finanziaria per il pagamento della milizia (esercito e burocrazia a esso equiparata), anche l'Italia venne sottoposta, già con Diocleziano, al pagamento del tributo fondiario, come le province: della riscossione di ogni tributo vennero resi responsabili, anche per il non riscosso, i decurioni, cioè i senatori di tutte le colonie e municipi esistenti nell'Impero. La repressione criminale venne affidata, durante la monarchia assoluta, solo a funzionari, che applicavano unicamente la procedura extra ordinem. Contro pene che divennero non solo particolarmente severe, ma anche crudeli, era possibile sempre l'appello all'imperatore. Anche nei processi privati non trovò più applicazione la procedura formulare, sostituita dalla cognitio extra ordinem, in cui giudicava il funzionario delegato dall'imperatore. Ciò rese indispensabile un sempre più ampio e frequente impiego della scrittura, perché ogni sentenza era suscettibile di appello all'imperatore, il quale delegava, per le sentenze emanate dal governatore provinciale, il prefetto del pretorio preposto a una delle 4 circoscrizioni territoriali (Italia, Gallia, Illirico, Oriente). A quest'ultimo venne concessa la facoltà di emanare norme non in contrasto con le costituzioni imperiali, che divennero la fonte principale innovatrice del diritto. Già con Costantino cominciò a essere limitato l'ambito di applicazione degli stessi rescritti imperiali e fu vietato l'uso delle note di Paolo, Ulpiano e Marciano alle opere di Papiniano: tali provvedimenti si proponevano di facilitare ai giudici l'impiego delle opere della giurisprudenza, per emanare le loro sentenze, evitando eccessive differenze nei loro giudicati. Questa stessa esigenza determinò successivi interventi imperiali per meglio regolare l'impiego delle opere della giurisprudenza anteriore alla metà del sec. III d. C. (legge delle citazioni di Valentiniano III del 426) e la raccolta delle costituzioni imperiali destinate a tutti i sudditi dell'Impero (leges generales o edicta) a opera di Teodosio II (Codice teodosiano del 438), in cui si precisava che dovessero avere ancora applicazione i Codici gregoriano ed ermogeniano, redatti da due privati. In tale epoca si avvertì, nella parte occidentale dell'Impero, il bisogno di semplificare la mirabile cultura giuridica del passato, scegliendo soltanto quanto serviva per la pratica quotidiana, come stanno ad attestare i Vaticana Fragmenta, la Consultatio veteris cuiusdam iuriconsulti, i Fragmenta Augustodunensia, l'Epitome Gai. Nella parte orientale dell'Impero non si erano ancora formate però le scuole di Costantinopoli, Berito, Antiochia e Alessandria, che in seguito con i loro caratteri di maggiore astrazione e concettualizzazione permisero a Giustiniano di redigere la sua famosa compilazione. Per circa un secolo ancora, dopo l'emanazione del Codice teodosiano, vennero emanate dagli imperatori costituzioni a carattere generale, per introdurre innovazioni, determinate sia dalle esigenze dei mutamenti verificatisi col passare del tempo, sia dalle richieste, fatte soprattutto dagli abitanti della parte orientale dell'Impero, di dare rilevanza giuridica a istituti di diritto locale, che l'estensione a essi del diritto romano rendeva inapplicabili senza ricorrere a sotterfugi spesso inammissibili, sia infine dall'influsso esercitato dal cristianesimo. Si giunse così alla compilazione giustinianea, che va connessa a un più generale programma politico-religioso-legislativo per dare vita a un'unità dell'Impero romano orientale e occidentale (questo, al suo tempo, era sotto dominio barbarico), ponendo il cristianesimo a fondamento del potere politico imperiale e della sua attività legislativa. Le innovazioni costituzionali determinarono mutamenti, oltre che nel sistema processuale, anche negli istituti privatistici. In una rigida organizzazione corporativa, in cui i figli erano ex lege obbligati a fare lo stesso lavoro dei padri, la patria potestas si ridusse a un potere disciplinare e di correzione molto limitato. Lo prova tra l'altro il fatto che venne tolto al pater il diritto di vita e di morte sui liberi, quello di venderli (a eccezione che si trattasse di neonati da famiglia poverissima, facilmente destinati a morire d'inedia) e, con Giustiniano, anche quello di abbandonare il colpevole all'offeso (noxae deditio). Scomparve la conventio in manum e vennero introdotte profondissime innovazioni in materia di adozione, dote, peculio castrense e quasi castrense; venne concessa la legittimazione dei figli per rescriptum principis e per susseguente matrimonio. Il matrimonio rimase il fondamento della società domestica (o famiglia naturale), continuò a costituirsi per mutuo consenso, ma vennero posti limiti sempre più precisi alla facoltà dei coniugi di divorziare. L'organizzazione della familia sottoposta a un pater andò sgretolandosi, mentre sul vincolo di soggezione agnatizia al pater familias acquistò sempre più importanza il vincolo di sangue (cognatio). Di ciò beneficiarono anche gli schiavi, le cui famiglie non potevano più essere smembrate. La perdita d'importanza della patria potestas nell'organizzazione della familia determinò altresì innovazioni in materia di azione di arricchimento (actio de in rem verso), particolarmente interessanti perché prepararono la via a una successiva enucleazione del concetto di rappresentanza. Anche in materia di diritti reali profonde furono le innovazioni avvenute durante la monarchia assoluta: l'abolizione del dominium ex iure Quiritium fece perdere importanza e infine venir meno la distinzione tra res mancipi e nec mancipi e, conseguentemente, la mancipatio e la in iure cessio, come modi di acquisto della proprietà di determinati beni e di costituzione delle servitù prediali. La traditio rimase così il solo modo generale di trasmissione delle cose e di costituzione di diritti reali. L'equiparazione dei fondi italici a quelli provinciali produsse profonde trasformazioni anche in materia di possesso. Altra conseguenza fu la fusione degli istituti della usucapio e della longi temporis praescriptio: queste espressioni vennero impiegate da Giustiniano nel dare una nuova regolamentazione all'acquisto della proprietà, aumentando il decorso del tempo a 3 anni per le cose mobili e a dieci o venti anni per le cose immobili e la costituzione delle servitù prediali. Pur avendo dei precedenti storici già nel diritto romano classico, si affermarono secondo uno spirito nuovo, influenzato da modelli ellenistici, gli istituti dell'enfiteusi e della superficie, che tanta importanza ebbero poi nel corso dei secoli. L'espressione obligatio venne a comprendere tutti gli obblighi sorti, tanto per lo ius civile, quanto per lo ius honorarium, essendo scomparsa la distinzione esistente in precedenza tra essi. Giustiniano cercò di superare il disagio preesistente sulla classificazione delle fonti dell'obbligazione, sostituendo alla bipartizione (da contratto, da delitto) una quadripartizione (da contratto, quasi da contratto, da delitto, quasi da delitto), che fu ancora accolta nel Codice Civile napoleonico e in quello italiano del 1865. Ai contratti tipici dell'età del principato si aggiunsero quelli innominati, al concetto di obligatio civilis quello di obligatio naturalis. Accanto a quest'opera di elaborazione compiuta dalla giurisprudenza si posero gli interventi imperiali, per regolare l'estinzione delle obbligazioni nel modo più favorevole al debitore, a eccezione che la cosa fosse perita per sua colpa. Scomparsa la conventio in manum, venne meno anche la bonorum emptio, mentre l'arrogatore acquistava soltanto il diritto di usufrutto sui beni dell'arrogato. Inoltre, a opera delle scuole orientali, cambiò completamente il concetto di successio: questa non produsse più soltanto l'acquisto in blocco del patrimonio in capo ad altro soggetto, ma fece acquistare anche singoli diritti. Gli imperatori introdussero nuovi casi d'incapacità di fare testamento e di ricevere per esso; singolari i divieti sorti in odio a eretici e apostati e l'acquisto della capacità a succedere da parte delle chiese e delle opere pie. Cadde in desuetudine il testamento per aes et libram, mentre acquistarono via via importanza quello scritto o per lo meno sottoscritto dal testatore e firmato e suggellato da testi (per scripturam) oppure la dichiarazione di ultima volontà fatta alla presenza di sette testimoni convocati per tale scopo (per nuncupationem). A queste forme si aggiunsero i testamenti pubblici, conservati negli archivi di un funzionario giudiziario o municipale oppure nella cancelleria dell'imperatore.

Diritto: elaborazione e studio del diritto romano

L'insegnamento del diritto romano forma ancora l'oggetto di un insegnamento di carattere storico, necessario per dare a chi inizia lo studio del diritto nelle università una più ampia esperienza giuridica. Lo studio del diritto romano, infatti, è oggi impostato storicamente. In passato, invece, anche dopo Giustiniano, esso è servito a risolvere casi di vita pratica quotidiana. Dopo un periodo su cui non siamo sufficientemente documentati, la compilazione giustinianea cominciò a essere nuovamente studiata, a partire dal sec. XI, con sempre maggiore attenzione, per fini pratici. Ben presto venne configurandosi come complesso di norme giuridiche vive e applicabili a tutti gli uomini e servì per orientare interessi umani comuni e per collegare e disciplinare in sistema i diritti propri delle numerose forze politiche e legislative allora esistenti. Questo adattamento viene attualmente indicato come “diritto comune”. È ancor oggi, tuttavia, un problema che merita ulteriore approfondimento quello di stabilire quando il fenomeno si possa ritenere applicazione del diritto romano ovvero trasformazione dello stesso, con innovazioni dettate dai bisogni che si presentavano via via nei secoli. Senza dubbio, lo studio del diritto romano in Germania, dal sec. XVIII all'entrata in vigore del Codice Civile nel 1900, venne fatto ponendo in essere una costruzione teorico-pratica, nella quale avevano la massima importanza l'individuo e la sua potestà di volere. L'elaborazione del diritto romano, fatta dai pandettisti tedeschi, ebbe anche in Italia degli attenti cultori e portò, tra l'altro, a una nuova importante elaborazione della parte generale nel diritto, accolta soprattutto, ancora oggi, nei corsi di istituzioni di diritto romano; a seguito delle varie codificazioni, il diritto romano è divenuto un “diritto storico” in tutta l'Europa. Tale circostanza invita lo studioso ad avvicinarsi con diverso atteggiamento sia al diritto romano, inteso come ordinamento e come complesso di istituzioni che si sono realizzate nel corso dei secoli, sia soprattutto alle fonti da esaminare per la ricostruzione di un determinato ambiente sociale. Infatti, finché il diritto romano fu considerato come diritto positivo, lo studio delle fonti si concentrò sul Corpus iuris civilis di Giustiniano; tuttavia, già al tempo in cui gli umanisti italiani e la scuola culta francese ricercarono le interpolazioni per ricostruire il diritto classico – cioè il diritto dell'età del principato – vennero fatti frequenti richiami ad altre fonti, anche non giuridiche. Ciò al fine di attuare una ricomposizione testuale, secondo canoni di purezza e armonia di linguaggio. Questa tendenza fu nuovamente ripresa nella seconda metà del sec. XIX e nei primi decenni del XX, con l'intento di ricostruire il diritto classico, contrapposto, per la sua perfezione, a quello giustinianeo. Nel sec. XIX, soprattutto dopo la scoperta delle Istituzioni di Gaio, sono state acquisite nuove importanti fonti per la ricostruzione del diritto romano da un punto di vista storico. Negli ultimi decenni, l'utilizzazione di epigrafi e di papiri, oltre che di opere patristiche e letterarie, ha permesso di cominciare a inserire le singole fonti giuridiche nell'ambiente in cui hanno avuto origine e sviluppo. Questo nuovo diverso metodo di studio fa sentire più viva l'esigenza d'incontri fra studiosi dei diversi Stati, per continuare a parlare un “linguaggio comune” e, almeno sul piano culturale, a formarsi “un'esperienza comune”.

Religione romana: il concetto di sacralità

Il concetto di sacralità che distingue la religione romana va correlato, oltre che al concetto di “profano” (come in tutte le religioni), anche ai concetti di “pubblico” e di “privato”. La formula sacro: profano = pubblico: privato rende questo sistema di relazioni; essa ordinava al modo romano tutta la realtà e teneva, in tale funzione, il posto di una cosmogonia. Mancano in effetti alla religione romana miti cosmogonici o teogonici, tanto da farla apparire come una religione demitizzata. In luogo di un ordine cosmico dato una volta per sempre (da un evento mitico), i Romani ebbero una formula cosmica alla quale adeguavano il mondo oggettivandolo nel loro sistema di valori per mezzo di un'azione storiografica e giuridico-rituale. Tale azione era demandata al collegio sacerdotale dei pontefici e aveva per oggetto il mondo e gli uomini. La natura del mondo era ridotta a sostanza storica, la natura degli uomini a personalità giuridica. Ne deriva che il prodotto dell'azione pontificale è riconoscibile in una storiografia e in una giurisprudenza. Per la storiografia diremmo che si trattava della ricognizione religiosa del tempo storico, la quale si muoveva in due sensi: i pontefici fissavano sacralmente la periodicità e la qualità del tempo storico, dando a questo una sistemazione calendariale; di pari passo ne fissavano il corso, sottraendolo alla contingenza e registrandolo significativamente (ossia interpretandolo) in annali, atti e memoriali. Il momento giurisprudenziale consisteva sostanzialmente nella formulazione di riti e nella definizione della loro efficacia, come dimostra il fatto che i codici prodotti erano sempre e soltanto codici di procedura. In nessuna religione il termine per indicare l'azione rituale è così pregnante come a Roma (la radice di ritus è la stessa di rta, il concetto cosmico fondamentale della religione vedica); di fatto a Roma è il rito che stabilisce tanto il patto con gli dei (pax deorum) quanto il patto sociale che fa di ogni singolo uomo un civis, un cittadino, una persona giuridica. Il collegio pontificale comprendeva, oltre ai pontefici cui era riservata la teoria religiosa, altri sacerdoti destinati alla pratica, ossia al culto divino: un rex sacrorum, sacerdote che assolveva i compiti sacrali dell'antico re; quindici flamini, ciascuno addetto al culto di un singolo dio; sei vestali, addette al culto di Vesta. L'azione teorica e pratica del collegio pontificale era completata da quella di altri tre collegi sacerdotali: auguri, quindecimviri sacris faciundis, ed epuloni. I primi due collegi esercitavano la divinazione (la consultazione della volontà degli dei), un'attività che secondo la tradizione era stata in origine di pertinenza dei pontefici. Il terzo, che aveva la funzione di approntare due volte l'anno un banchetto a Giove, fu istituito nel 196 a. C. per liberare i pontefici da questa cura. Dunque tutti e tre i collegi in questione possono essere riguardati come promanazioni del collegio pontificale, e in effetti è questo collegio che rappresenta il nucleo della religione romana. Altri gruppi sacerdotali (tecnicamente chiamati “sodalizi” e quindi distinti dai “collegi”) erano: i Luperci, i Salii, gli Arvali e i Feziali. Questi sodalizi non avevano la funzione di stabilire un rapporto cultuale con gli dei, come accadeva per i sacerdoti del collegio pontificale, ma quella di liberare il popolo romano da una “sacralità” insita in certe azioni, addossandosela simbolicamente e permettendo agli altri di non curarsene, come individui. In questa funzione i Feziali agivano per stabilire rapporti di pace o di guerra con gli altri popoli. Più complessa era l'azione dei Luperci, Salii e Arvali: in sintesi diremmo che essi esplicavano simbolicamente la sacralità insita in una vita di pastori, di guerrieri e di agricoltori (nell'ordine).

Religione romana: le divinità

Dal punto di vista delle divinità, la struttura fondamentale, e quindi permanente, della religione romana era costituita dalla triade Giove-Marte-Quirino insieme a Giano e Vesta. La triade, al cui servizio erano i tre flamini maggiori (rispettivamente: il Diale, il Marziale e il Quirinale), procedeva probabilmente dalla concezione trifunzionale della società, che Dumezil attribuisce ai popoli indeuropei. Comunque sia, si può dire che la triade rappresenti lo Stato romano mediante personificazioni divine. Ma a questa rappresentazione statica o qualificante va aggiunta una rappresentazione dinamica o dialettica: in tale funzione si possono interpretare altre due personificazioni divine: Giano e Vesta. Giano, al cui servizio era il rex sacrorum, personificava l'apertura alla contingenza, alla trasformazione, al divenire storico. Vesta, per contro, personificava il limite concesso alla trasformazione, e dunque la stabilità o la necessità rispetto alla contingenza. La dialettica Giano-Vesta poneva il dio agli “inizi” di ogni cosa e la dea alla “fine”. Il pantheon arcaico si completava con le 12 divinità attestate dai 12 flamini minori (ci restano soltanto 9 nomi: Carmenta, Cerere, Falacer, Flora, Furrina, Pomona, Portuno, Volturno, Vulcano), più un'altra desumibile dai nomi di giornate festive (Conso, Termino, Nettuno, Ope, Robigo, Matuta, Saturno, Larenta, Carmenta, Angerona). Col passare del tempo queste divinità, evidentemente non ritenute necessarie alla struttura permanente dello Stato, furono tagliate fuori dalla storia: o scomparvero come quantità identificabili (ce ne resta appena il nome) o furono identificate con divinità greche (come Nettuno con Posidone, Vulcano con Efesto, ecc.). Altre divinità, anche se arcaiche, erano variamente ricordate dalla tradizione, ma alcune di esse erano specialmente importanti in quanto, come vedremo appresso, venivano assunte a protagoniste nello svolgimento storico del culto pubblico romano: Diana, Fortuna, Cerere e Minerva. Infine, tra le divinità complementari del nucleo fondamentale, c'era Giunone, la cui complementarità era diversa, in quanto la dea era presente in qualche modo anche nel nucleo stesso; al suo culto erano addetti due personaggi femminili, la flaminica (titolo ufficiale della moglie del flamen Dialis) e la regina (titolo ufficiale della moglie del rex sacrorum); perciò si potrebbe dire che la complementarità di Giunone rispetto al nucleo divino fondamentale era la stessa delle “mogli” rispetto ai “mariti” nella società romana. Ciò che convenzionalmente viene definito come riforma dello Stato a opera della dinastia etrusca si riduce, dal punto di vista religioso, all'istituzione del culto di Giove Ottimo e Massimo sul Campidoglio, e di quello di Diana sull'Aventino. A parte gli epiteti, questo Giove non era funzionalmente lo stesso dio che figura nella triade Giove-Marte-Quirino; tanto che, nella sua nuova funzione e nel nuovo tempio a lui eretto sul Campidoglio, gli si affiancavano Minerva e Giunone, invece di Marte e Quirino (sorge una nuova triade che, in certi settori, prende il posto dell'arcaica). Il Giove Ottimo e Massimo, come la dea Diana, era un dio “sottratto” alla Lega Latina. Giove e Diana, rispettivamente venerati sulla cima e alle falde del Monte Albano (oggi Monte Cavo), erano stati assunti dalle città della Lega Latina come simboli e protettori della confederazione. Giove era stato scelto per la sua “sommità”, che lo poneva al di sopra degli interessi delle singole città, e Diana, quale dea del bosco e quindi dell'extraurbano per eccellenza, per la sua “estraneità” (all'urbano) che la teneva al di fuori di ogni particolare politica cittadina. Il trasferimento in Roma di queste due divinità “universali” fu quasi una presa di possesso, da parte romana, della realtà metafisica della Lega Latina. Fu anche una presa di coscienza “dell'universalità” romana: Roma si faceva non soltanto egemone delle città latine, ma addirittura le incorporava; si stabilivano così i fondamenti di uno Stato interetnico (come interetnica era la Lega) in senso moderno, che emersero come superamento della tradizionale città-Stato. La cacciata dei re e l'avvento della repubblica possono essere visti per quel che concerne la religione romana, come l'acquisizione da parte delle assemblee deliberanti del diritto di determinare il “sacro”, realizzata come presa di coscienza del valore superindividuale, e perciò assoluto o universale, delle deliberazioni comiziali: per loro mezzo si assolutizzava (o “sacralizzava”) la storia e si dava ordine al mondo (lo si oggettivava in un determinato sistema di valori). Dal nostro punto di vista la costituzione della magistratura consolare annua, più che una limitazione temporale del potere, va considerata in funzione dell'esercizio periodico dell'azione comiziale. Quest'azione era quasi un rito che il popolo doveva compiere annualmente; il luogo e il giorno del rito dovevano essere regolarmente “inaugurati”, ossia “aumentati” dall'assenso di Giove. L'ingresso in carica dei consoli dava inizio all'anno ufficiale; dunque era come se, attraverso l'elezione di nuovi consoli (eponimi dell'anno), i comizi “creassero” l'anno stesso (il che sul piano religioso equivale a “creare” il mondo). Il costituirsi di un'organizzazione plebea comportò da un punto di vista religioso l'istituzione di un culto di Cerere sull'Aventino. La dea, venerata insieme ai suoi “figli” Libera e Libero (quest'ultimo identificato poi con il greco Dioniso), era diventata il simbolo dell'azione plebea, tanto che i patrizi finirono per adottare, quasi in funzione di anti-Cerere, la frigia Cibele (205 a. C.), che negli schemi del mondo ellenistico-romano poteva in qualche modo opporsi a Demetra (con la quale dea greca i Romani identificavano la loro Cerere). Ma le lotte plebee ottennero ben di più: ottennero il ripudio degli iura gentis e l'instaurazione degli iura civilia. I primi erano sentiti quasi come una “dote religiosa” che si trasmetteva per sangue e che dava ai patrizi certe prerogative come quella di esercitare i sacerdozi e di trarre gli auspici. Con la legge Ogulnia (300 a. C.) anche i plebei ebbero l'accesso al sacerdozio e furono considerati capaci di esercitarlo per il solo fatto di essere cittadini romani (ossia per gli iura civilia).

Religione romana: il calendario festivo

I luoghi e i tempi dell'azione divina erano fissati in templi e sacrari (aedes, templa, fana delubra, sacella) e in feste occasionali e periodiche, mobili e fisse; queste ultime componevano un calendario festivo che costituisce il più antico e più importante documento della religione romana. Il calendario festivo, legato alle origini, come ogni altro calendario, al ciclo agricolo, conservava dell'antica funzione soltanto un certo schema; come pure manteneva convenzionalmente nei mesi lo schema delle lunazioni con il rilievo, pure convenzionale, di due fasi, il novilunio e il plenilunio, nei giorni detti rispettivamente calendae e idi (il primo del mese e il 13 o il 15 secondo i mesi brevi o lunghi). Il calendario festivo, sottratto ai suoi concreti scopi originari, serviva soltanto a esigenze religiose, dividendo e organizzando il tempo in funzione dei vari dei. Per esempio, la parte “oscura” del mese, quella che culminava col novilunio convenzionale (calende) era sacra a Giunone, mentre la parte “luminosa”, culminante col convenzionale plenilunio (idi), era sacra a Giove: le calende erano una festa di Giunone e le idi una festa di Giove. I vari mesi, poi, erano particolarmente dedicati a qualche dio, a parte le singole giornate festive messe sempre in relazione con una divinità. Un gruppo di sei mesi, da gennaio a giugno, costituiva una particolare festa dell'anno che cominciava con l'attiva presenza di Giano (il quale dava nome al primo mese, gennaio) e finiva con quella di Vesta (l'ultima festa di giugno), così come in ogni azione sacrificale si cominciava col nome di Giano e si finiva con quello di Vesta. A giugno seguiva una seconda serie di sei mesi senza nome, che venivano indicati semplicemente con un numerale (quintile, sestile, settembre, ecc.). Si cominciava con un quintile (che si chiamerà poi luglio, Iulius, in onore di Giulio Cesare) perché il computo era fatto a partire da marzo, considerato il primo mese dell'anno sacro. I mesi di febbraio e di dicembre, che rispettivamente precedevano il capodanno di marzo e quello di gennaio, erano caratterizzati da feste “caotiche” di fine d'anno. Vi era un terzo capodanno, il 21 aprile (i Parilia), natale di Roma, considerato capodanno dei pastori. Bastano questi rilievi per far comprendere la complessità del calendario festivo romano, che non era certo uno strumento per computare il tempo a qualsiasi fine pra tico, ma era una sapiente elaborazione religiosa per poter dare la migliore esecuzione al culto divino.

Religione romana: il culto privato

Il culto privato non presenta rispetto agli altri popoli antichi caratteri originali. Il capofamiglia (pater familias) aveva la responsabilità dei riti, per lo più rivolti alle divinità domestiche (Lari, Penati). Ogni individuo, poi, coltivava il suo genio personale. Le idee sulla morte non espressero mai un'escatologia che improntasse a suo modo la religione. Bastava fornire al morto le dovute onoranze (iusta). Il morto si trasformava in larva o lemure ed entrava a far parte dei Mani, gli dei dello stato di morte. Il sovvertimento di valori che portò alla fine della Repubblica ebbe naturalmente un riflesso religioso. Indicativi, al riguardo, sono i casi di Venere e Fortuna. Queste due dee, che rappresentavano rispettivamente gli aspetti “gratuiti” e “fortuiti” della realtà, erano per l'innanzi contrapposte a Giove come elementi negativi di un ordine adeguato alla “volontà” del dio, in cui niente era lasciato al caso o all'arbitrio. Con l'enorme espansione della città risultava materialmente impossibile una partecipazione responsabile della massa dei cittadini alla vita politica, e così il “gratuito” e il “fortuito” vennero acquistando un senso più adeguato al sentire comune, a spese della “responsabilità” civica sostenuta dall'antica tradizione. In questo cambiamento di prospettive sia Venere sia Fortuna emersero a sostenere un nuovo e importante ruolo nell'attualità politico-religiosa, soprattutto Venere, che la leggenda faceva madre di Enea e pertanto la progenitrice della stirpe romana. Si preparava l'avvento di un imperatore, e questo sarebbe stato un affiliato alla gens Iulia, discendente di un mitico Iulo, figlio di Enea e nipote di Venere. Roma non aveva più bisogno di un dio (Giove) romanizzato; ma aveva bisogno di un romano (l'imperatore) divinizzato; se prima infatti si voleva adeguare alla volontà di Giove l'esistenza di Roma, adesso era necessario adeguare il mondo alla volontà di Roma. Su questa strada al culto dell'imperatore si affiancò ben presto il culto di Roma, fatta dea. L'ingresso a Roma dei culti orientali segnò la crisi della religione tradizionale, tanto più inadeguata quanto più si consideri la tendenza a razionalizzare il culto, seguita all'introduzione e diffusione a Roma del pensiero filosofico greco. I culti orientali si esprimevano nell'ambito domestico e privato nelle forme più svariate di misticismo, che si ritrovano anche nelle loro manifestazioni collettive (misteri). La religione pubblica invece, malgrado i ripetuti tentativi di Augusto di ripristinare la tradizione, assumeva la forma della venerazione dei sovrani, iniziatasi con Tiberio come religione “di Stato”.

Arte romana: generalità

Viene qui considerata non solo l'arte sorta e sviluppatasi nella città di Roma, in quanto si possa distinguere dalle altre culture artistiche della penisola italiana, ma soprattutto l'arte della parte sempre più vasta del mondo antico soggetta a Roma. Rientrano quindi nell'arte romana i monumenti sia di Roma e del suo porto di Ostia, sia quelli eseguiti nelle varie città italiche (e basti ricordare per la loro conservazione Pompei o Ercolano) dopo il loro assoggettamento a Roma, sia quelli delle nuove città dell'Italia centrale e settentrionale, come Aquileia o Brescia, sia infine quelli delle diverse province europee, dalla Spagna alle Gallie, alle province alpine e alla penisola balcanica. Anche le città della Grecia e quelle greche dell'Asia Minore sono ricche di monumenti romani, mentre presentano particolare interesse (perché in genere meglio conservati) i monumenti delle numerose città romane dell'Africa settentrionale, da Leptis Magna a Sabrātha in Libia, da Sufetula ad Hadrumetum in Tunisia, da Cuicul a Madaura a Lambèse in Algeria, a Volubilis nel Marocco, come pure quelli dei centri carovanieri dell'Asia, come Petra, Gerasa, Palmira e Dûra Europos. L'arte romana, che nelle diverse aree conserva spesso caratterizzazioni locali, fu in realtà il risultato di uno scambio costante e continuo di impulsi artistici dal centro alla periferia e viceversa. Gli apporti più importanti vennero prima soprattutto dall'Etruria, poi dalla Magna Grecia, quindi dalla Grecia e dal mondo ellenistico e infine, in età imperiale, dalle altre aree dell'Impero romano e anche da popolazioni esterne, soprattutto orientali, con cui Roma veniva a contatto. La complessità e quindi la difficoltà di distinguere tali componenti nel lungo sviluppo dell'arte romana spiega perché essa sia stata considerata, dal Winckelmann sino al sec. XIX, quasi come un'appendice subordinata dell'arte greca, mentre poi se ne è affermata l'originalità per la tarda età imperiale (Wickhoff, Riegl; le loro conclusioni sono però oggi superate); se ne sono viste soprattutto le contraddizioni, istituendo dualismi come “etrusco-ellenistico” (Furtwängler), “greco-romano” (Sieveking), “classico-anticlassico” (Rodenwaldt), o si sono poste in evidenza, soprattutto per la scultura, le differenze tra l'arte aulica, di corte o colta, e quella popolare o plebea (Rodenwaldt, Bianchi-Bandinelli) o tra la struttura dinamico-plastica di alcune opere e la struttura statico-cubica di altre, in genere più tarde (Kaschnitz-Weinberg).

Arte romana: architettura e urbanistica

L'architettura più antica, nota a Roma solo da pochi resti, rientra nell'ambito di quella etrusco-italica caratterizzata dal tempio tuscanico che, a differenza di quello greco, era orientato e su alto podio, con alzato in un primo tempo di legno rivestito di terrecotte policrome e ornato da statue fittili. I basamenti dei templi, le fortificazioni e altre costruzioni di carattere pratico (cisterne, acquedotti) erano in opera quadrata di tufo locale. La maggior ricchezza, i contatti con il mondo greco e la venuta a Roma di architetti greci portarono, nel sec. II a. C., all'impiego del marmo in templi di tipo ellenistico; contemporaneamente si ebbero nuove creazioni architettoniche, come l'arco trionfale o la basilica (la Porcia, nel Comizio, è del 184 a. C.). L'impiego dell'opera cementizia (vedi anche Roma) consentì la realizzazione delle prime grandi costruzioni con impiego di volte, non solo a Roma, come il portico Emilio (193 a. C.), ma anche nei grandiosi santuari del Lazio, considerati generalmente sillani, della Fortuna Primigenia di Palestrina, di Giove Anxur a Terracina, di Ercole a Tivoli. Le strette connessioni dell'architettura romana (e dell'arte romana in genere) con quella ellenistica, sono evidenti soprattutto a Pompei; il suo foro (ca. 100 a. C.), che riunisce in un insieme chiuso e coordinato i principali edifici pubblici cittadini, sia civili sia religiosi, è un esempio dell'interesse dell'architettura romana per le soluzioni urbanistiche razionali; a Pompei si trova anche il più antico anfiteatro (ca. 80 a. C.). Grande sviluppo ebbero l'urbanistica e l'architettura durante la lunga pace di Augusto, oltre che nell'Italia, ormai tutta romana, nelle diverse province, congiunte a Roma da una fitta rete viaria (i Romani furono, come è noto, grandi costruttori di strade e di opere stradali come ponti, gallerie, tagli di roccia). L'architettura romana dell'età imperiale, che è quella più ampiamente documentata in tutto il mondo antico, si ispirò – con sviluppi successivi dovuti anche all'impiego di nuove tecniche che permisero la costruzione di edifici sempre più grandiosi coperti spesso a volta e a cupola – a costanti concetti di razionalità e utilità pratica, mentre il tempio non ebbe più, come in Grecia, predominanza assoluta sugli altri edifici, e tra gli ordini architettonici si preferì quello corinzio. Le città vennero costruite o sistemate secondo regolari disposizioni a scacchiera derivanti dai castra (da Torino, Como o Aosta in Italia a Barcellona o Mérida in Spagna), organizzate intorno al loro foro con gli edifici più importanti (capitolium, curia, basilica), dotate, a imitazione di Roma, degli altri monumenti necessari alla vita cittadina (terme, teatri, anfiteatri, mercati), fornite di perfetti impianti di acquedotti, fognature, latrine pubbliche, abbellite da fontane, ninfei o da monumenti di interesse politico (archi trionfali a uno o tre fornici), se necessario recinte da mura turrite con porte monumentali; le città marittime ebbero anche idonee installazioni portuali. Nelle zone più amene o più fertili del territorio sorsero ville signorili o ville-fattorie più o meno grandiose, secondo un uso già comune nell'età repubblicana. Il nuovo largo uso del mattone cotto in fornace (impiegato per la prima volta a Roma nei Castra Praetoria di Tiberio) consentì realizzazioni più facili ed economiche di edifici pubblici (terme, teatri, magazzini, mercati) e di case private a più piani (insulae). Nell'età di Nerone e dei Flavi gli edifici importanti assunsero piante complesse, con ambienti anche poligonali, circolari, o mistilinei, in cui furono impiegate sempre più largamente strutture laterizie e volte a concrezione di materiale leggero (Domus Aurea degli architetti Severo e Celere, Domus Flavia dell'architetto Rabirio). L'architettura di Traiano fu rivolta, in tutto l'Impero, a grandiose opere pubbliche, dai porti di Roma e Civitavecchia in Italia ai monumenti della Spagna, Paese natale dell'imperatore (acquedotto di Segovia, ponte di Alcantara) a quelli dell'Africa romana, dove è traianeo l'impianto a castrum di Thamugadi, o dell'Asia Minore, dove la biblioteca di Celso a Efeso presenta un nuovo elaborato tipo di facciata monumentale che sarà adottato anche nella porta del mercato di Mileto; esempio significativo è anche il complesso, urbanistico e architettonico insieme, del suo foro a Roma. Le terme sul colle Oppio – opera, come il foro, dell'architetto Apollodoro di Damasco – costituiscono il primo grande esempio del nuovo tipo di impianto termale romano, con un nucleo monumentale centrale circondato da ampie aree libere. Intensissima e variata fu anche l'attività edilizia di Adriano non solo in Grecia (ricostruzione di Atene) e nelle città greche dell'Asia Minore (Traianeo di Pergamo) ma in tutto l'Impero, dalla Britannia (vallo di Adriano) all'Africa (campo di Lambaesis, grandi terme di Leptis Magna). L'architettura adrianea fu ricchissima di idee e di motivi, con predilezione per le linee curve, per le planimetrie centralizzate e per i grandi ambienti coperti a volta di vario tipo (Villa Adriana, Pantheon) che caratterizzarono l'architettura romana più tarda. Classica grandiosità monumentale si ebbe con gli Antonini, quando i tre ordini architettonici assunsero forme particolarmente elaborate (templi di Baalbek), e con i Severi, periodo in cui l'unione della decorazione all'architettura si fece ancora più stretta (arco di Settimio Severo e degli Argentari a Roma; monumenti di Leptis Magna e di diverse altre città africane); le possibilità offerte dai nuovi sistemi costruttivi romani trovarono la loro massima applicazione nelle sempre più grandi aule delle terme (Terme di Caracalla). Tra le ultime grandiose realizzazioni architettoniche sono le Terme di Diocleziano a Roma e il suo palazzo di Spalato nonché i monumenti imperiali di Treviri. Dai ninfei e dai mausolei circolari (Tor de Schiavi, mausoleo di S. Elena) si passò alle chiese a pianta centrale e ai battisteri, dalle grandi aule rettangolari alle basiliche cristiane.

Arte romana: influenze dell'arte greca

Non è facile distinguere l'arte di Roma dell'età regia e dei primi secoli della Repubblica da quella etrusco-italica. La cista Ficoroni (fine del sec. IV a. C.) che l'iscrizione dice fatta a Roma da Novios Plautios, non è diversa da altre ciste etrusche; di Veio era del resto Vulca, chiamato a Roma nel 500 a. C. ca. per adornare il tempio capitolino di statue fittili. La caratteristica romana del verismo si esplicò soprattutto attraverso i ritratti, derivanti anche dalle imagines maiorum, quella dello stile narrativo attraverso le pitture trionfali, quadri improvvisati con cui i generali illustravano le loro campagne vittoriose. Un deciso orientamento del gusto romano verso l'arte greca si ebbe con l'arrivo a Roma di statue e quadri greci, nonché di oreficerie e argenterie ellenistiche, dai trionfi su Siracusa (212 a. C.) e Taranto (209 a. C.) e da quelli successivi sulle città della Grecia e dell'Asia Minore. Opere d'arte greca ornarono gli edifici pubblici e le case dei ricchi romani; artisti greci furono attivi a Roma, soprattutto nei sec. II e I a. C., sia come copisti o rielaboratori eclettici di modelli classici, sia come creatori di oggetti ornamentali (bronzi decorativi, vasi e candelabri a rilievo, gemme, ecc.) nello stile chiamato neoattico. Il ritratto, che soprattutto nell'età sillana fu crudamente veristico, per altri aspetti appare influenzato da tendenze ellenistiche (ritratti di Pompeo e Cicerone); nell'ara di Domizio Enobarbo un corteo marino ellenistico si unisce a una scena storica tipicamente romana. La pittura, nota soprattutto nel suo aspetto di pittura decorativa parietale, appare genericamente ellenistica nel cosiddetto primo stile (pompeiano), a riquadri imitanti il marmo, ma già intorno al 100 a. C., con l'inizio del secondo stile, presenta prospettive architettoniche originali (casa dei Grifi al Palatino; villa di Boscoreale presso Pompei); e se di derivazione ellenistica sono le scene dell'Odissea di una casa dall'Esquilino (Vaticano), di tradizione romana sono le pitture storiche di un colombario dell'Esquilino (Museo Nazionale Romano) forse già di età augustea ma riecheggianti motivi anteriori. Realismo romano, motivi ellenistici, gusto classicheggiante sono le componenti del “classicismo augusteo” caratterizzato da grandissima perfezione tecnica e formale. Anche in un monumento ufficiale come l'Ara Pacis le diverse tendenze possono sembrare non perfettamente fuse, ma unica è la concezione generale dell'opera, in cui architettura e decorazione scultorea sono strettamente legate, e le singole figurazioni appaiono tipicamente romane anche nel loro significato. Meno perfette formalmente, forse più naturali e realistiche sono altre opere, come il fregio del tempio di Apollo Sosiano (20 a. C.) con corteo trionfale. Precisione accademica, gusto classico, sensibilità veristica mostrano anche i ritratti di Augusto dove, tuttavia, anche in relazione al luogo di ritrovamento, può prevalere l'intonazione eroica dei diadochi ellenistici, il patetismo microasiatico, l'accademismo neoclassico o il verismo italico. Nella pittura, che nelle pareti del cosiddetto secondo stile unisce alle prospettive architettoniche grandi scene figurate derivanti o ispirate da celebri quadri classici ed ellenistici, non mancano paesaggi o scene di giardino (Villa di Livia a Prima Porta, ora al Museo Nazionale Romano) o anche megalografie in cui copie di pitture greche e motivi romani sono riuniti in un insieme abilmente omogeneo (Villa dei Misteri a Pompei). La conquista dell'Egitto portò all'introduzione di motivi egizi o egittizzanti (pigmei, coccodrilli, ecc.) dell'arte alessandrina, che si aggiunsero, se pure come moda temporanea, alle altre componenti ellenistiche, soprattutto nella pittura e nel rilievo.

Arte romana: da Augusto a Teodosio

La lunga pace augustea favorì lo sviluppo artistico di tutte le province e l'affermarsi, soprattutto in quelle occidentali, dell'arte “provinciale”, con manifestazioni che se da una parte appaiono diverse da luogo a luogo in relazione alla più o meno accentuata presenza della componente artistica locale, dall'altra presentano caratteristiche comuni non solo formali – come per esempio la minor precisione di forme – ma anche sostanziali, come una certa maggior vivacità e spontaneità di rappresentazione e insieme un certo maggior tradizionalismo (per esempio nei ritratti che sono più tipizzati che fisionomici). L'arte “provinciale” è stata avvicinata all'arte non ufficiale – definita talora impropriamente “plebea” – di molte città dell'Italia settentrionale e centrale e in realtà sia in Italia sia nelle province (Gallia, Italia, Spagna, illirico, iberico, Romania) le analoghe manifestazioni artistiche furono l'espressione dei medesimi ceti medi locali: magistrati minori, militari, commercianti, artigiani. L'indirizzo classicheggiante dell'età di Augusto, presente anche nella raffinata toreutica, nelle gemme, nei cammei, continuò per tutta l'età giulio-claudia. I ritratti di questo periodo mostrano però, già con Caligola e poi con Claudio e Nerone, notazioni più realistiche e ricerca di caratterizzazione, e il rilievo storico (Ara Pietatis Augustae, del 43 d. C.) una sintassi più complessa e l'introduzione di sfondi architettonici con preciso valore topografico; la pittura acquistò toni sempre più impressionistici e sommari e si espresse sia con la riproduzione di quadri celebri (terzo stile pompeiano) inquadrati in complesse scenografie architettoniche, sia con la raffigurazione di scene di vita quotidiana (pittura pompeiana con rissa tra Nucerini e Pompeiani nell'anfiteatro). Alcuni rilievi aulici dell'età dei Flavi (arco di Tito al Foro Romano) sono caratterizzati dall'inserimento della figura nello spazio, con sovrapposizione di piani che dà ai rilievi un vivo senso luministico, mentre in altri sono più evidenti tendenze classicheggianti (rilievo della Cancelleria); altre opere meno ufficiali si distinguono invece per il vivace realismo (rilievi del sepolcro degli Haterii). Nei ritratti, il raffinato chiaroscuro della superficie delle carni contrasta con quello ben più accentuato delle chiome femminili a nido d'ape. La pittura delle pareti del cosiddetto quarto stile di Pompei (tra il terremoto del 62 e l'eruzione del 79), piene di fantasia e chiaramente impressionistiche, si ispirò probabilmente a quelle, in molte parti distrutte, del pittore Fabulo o Amulio della Domus Aurea di Nerone. Le tendenze plastiche e coloristiche dell'età dei Flavi si accentuarono nell'arte traianea, come appare nel grandioso rilievo con scene di battaglia, ricco di effetti chiaroscurali, che ornava il Foro Traiano e che fu poi inserito, suddiviso in più parti, nell'arco di Costantino, e ancor più nel lungo fregio continuo della colonna (coclide), un tempo ravvivato dal colore e da elementi metallici aggiunti, in cui i diversi elementi formali genericamente ellenistici sono fusi in una composizione pienamente romana non solo nel suo significato di esaltazione politica o nella sua nuova disposizione a rotolo continuo (come è nuova la figura del “barbaro”), ma anche nell'espressione artistica, caratterizzata da una grande espressività (si è notata la pietà dell'artista per i Daci sconfitti) e da un'attenta ricerca psicologica. Altri monumenti di Roma e d'Italia (rilievi dell'arco di Benevento) si avvicinano all'arte dei rilievi del Foro Traiano, mentre il monumento ad Atene di Filopappo, erede della stirpe regale dei Seleucidi, presenta nell'architettura spunti siriaci, e la decorazione del Trophaeum Traiani ad Adamclisi, grandioso monumento circolare di tipo italico romano eretto a ricordo della vittoria di Traiano sui Daci, è opera di artisti locali, che hanno dato ai rilievi un'ingenua ma forte espressività. L'arte ufficiale del tempo di Adriano, legata al gusto personale dell'imperatore, ritornò a composte eleganze classicheggianti (tondi adrianei inseriti nell'arco di Costantino, ritratti di Antinoo), mentre si moltiplicarono le copie o le rielaborazioni di celebri opere d'arte greca; nei sarcofagi, di cui allora ricominciò l'uso, scene mitologiche greche si uniscono a episodi di vita romana (arte adrianea). Una maggiore vivacità e la tendenza verso un pittoricismo barocco caratterizzano l'arte dei primi Antonini, in particolare i ritratti, in cui, anche per l'uso del trapano, il contrasto tra la levigatezza delle carni e le superfici mosse dei capelli o della barba appare sempre più forte. La base della colonna di Antonino Pio (Roma, Vaticano) presenta, a differenza di altri rilievi storici contemporanei di composta classicità, figure di cavalieri a tutto tondo, galoppanti spesso di scorcio, immersi nello spazio intorno al gruppo centrale. Il pittoricismo, già chiaro negli otto rilievi storici di Marco Aurelio inseriti nell'arco di Costantino, è particolarmente accentuato nel fregio della sua colonna coclide, più povera di invenzioni di quella di Traiano e dal modellato ruvido e duro, ma dall'espressività forte e drammatica; la frequente posizione frontale dell'imperatore, a indicarne il carattere divino, come anche la scena del miracolo della pioggia nel paese dei Quadi, preludono all'elemento irrazionale e metafisico che, rompendo la tradizione ellenistica, si affermò poi nell'arte tardo antica e nel Medioevo. Esuberante fu la scultura dell'età dei Severi, dal vivace colorismo barocco, documentata a Roma dall'arco di Settimio Severo, che nelle file sovrapposte di figure ripete lo schema del fregio continuo; da quello degli Argentari; e, a Leptis Magna, dall'arco quadrifronte e dai pilastri della basilica, opera di artisti della scuola di Afrodisia, molto attivi in questo periodo. La scultura romana del sec. III è rappresentata soprattutto dai ritratti, caratterizzati spesso da lineamenti contratti e dolorosi, e dai sarcofagi, con figure sovraffollate e talora deformate, ma di intensa espressività e talora con figurazioni simboliche genericamente orientali. Se l'arte di Alessandro Severo (cui si riferiscono anche i grandi mosaici con gladiatori delle Terme di Caracalla) fu caratterizzata dal ritorno al grandioso, quella del filelleno Gallieno si orientò verso un classicismo spiritualizzato, come appare nei ritratti e nei sarcofagi monumentali di Plotino (Laterano) e di un alto funzionario dell'annona (Museo Nazionale Romano). Nella pittura non mancano, pur nel prevalente impressionismo, forme classicheggianti, anche nella sorgente arte cristiana; importanti i numerosi mosaici africani con vivaci scene realistiche ispirate alla vita della regione. Ricca fu anche la produzione di vetri, oreficerie e argenterie, che continuò anche nel sec. IV. Nella scultura tetrarchica le teste delle figure dell'arco quadrifronte di Galerio a Salonicco, con scene allegoriche più che belliche, presentano la visione stereometrica propria del tardo antico, mentre le pieghe delle vesti sono scavate con rigida simmetria; per le statue imperiali (gruppi di Venezia e del Vaticano) si usò soprattutto il porfido egiziano, che richiama il colore della porpora. L'arte di Costantino, che si richiamò ad Augusto come nuovo fondatore dell'Impero, presenta ritratti idealizzati di chiara impronta classica; classiche sono pure le figurazioni dei grandi sarcofagi in porfido di S. Elena e S. Costanza, mentre nel grande arco di Costantino a Roma, che incorpora anche rilievi di imperatori precedenti, i fregi con la guerra contro Massenzio e con scene di pubblica cerimonia sono caratterizzati da una geometrizzazione delle figure sproporzionate e da un fortissimo gioco di luci e ombre; inoltre appare sempre più preminente la posizione di prospetto dell'imperatore e dei personaggi della sua corte: quanto della nuova concezione artistica venga dall'Oriente, quanto dall'arte provinciale occidentale o da quella “popolare” è ancora da stabilire. Tendenze espressionistiche e insieme classicheggianti sono presenti in tutta l'arte dei sec. IV e V, ivi compresa quella paleocristiana, sia nelle sculture sia nelle pitture e nei mosaici, tra cui eccezionali quelli siciliani di Piazza Armerina e della villa del Tellaro. Nel cosiddetto rinascimento classicheggiante di Teodosio le figure risultano allungate, con particolare eleganza formale, sia nei ritratti sia nei rilievi; quelli della sua colonna coclide di Costantinopoli, e di quella analoga di Arcadio, sono però soprattutto astratte celebrazioni della maestà dell'imperatore.

Biblioteche nella Roma antica

La prima biblioteca pubblica fu aperta da Asinio Pollione nel 39 a. C. nel tempio della Libertà. Nel 32 a. C. Augusto fondò l'Ottaviana (bruciata nell'80, ricostruita nel 203) e nel 28 a. C. la Palatina nel tempio di Apollo (vi si conservavano i libri sibillini; fu distrutta dal fuoco ai tempi di Commodo). Tra le biblioteche posteriori, la Ulpia, fondata da Traiano, custodiva tra l'altro i libri lintei e sopravvisse fino al sec. V; famosa fu anche la bibliotheca Pacis fondata da Vespasiano.

Musica nella Roma antica

Mentre il teatro latino è ampiamente documentato, poco si sa della musica nell'antica Roma, dove non raggiunse mai la considerazione e la dignità sociale riservatale dai Greci, che ne influenzarono in maniera determinante i modi e l'espressione. Si conoscono le occasioni che si prestavano all'intervento della musica (dalle più solenni legate al culto, al teatro, alla vita militare, ecc.), ma poche notizie si hanno sulle concrete tecniche esecutive e nessuna testimonianza diretta di musica notata. Tra gli strumenti più caratteristici si citano la tuba, il cornu, la bucina, il lituus, la tibia o aulos, affine all'omonimo strumento greco, l'utricularius o ascaules, corrispondente alla nostra cornamusa, l'organo idraulico, la lira e la kithara, entrambe di chiara provenienza greca, lo scabellum, sorta di spessa suola di legno o di metallo utilizzata per battere il tempo, il sistrum, nonché tamburelli, cimbali, campane e fischietti.

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