Lessico

Agg. [sec. XIV; dal greco bárbaros, tramite il latino barbărus]. Straniero, con implicita la valutazione spregiativa che gli antichi Greci e Romani davano ai popoli non appartenenti alla loro civiltà (anche come sm.): dominio barbaro; “i barbari,... veggendo Roma e l'ardua sua opra, / stupefaciensi” (Dante); quindi detto in genere dei popoli di civiltà primitiva o inferiore: viaggio tra genti barbare; ammirare la spontaneità dei barbari Spesso con i sensi estens. di barbarico: costume barbaro; “barbaro misfatto” (Panzini); in particolare, rozzo, privo di gusto: pittura barbara; è una moda barbara!; scrittura, lingua barbara, piena di barbarismi o, in genere, grammaticalmente scorretta. Per estensione metrica barbara, vedi metro barbaro.

Storia

Il termine greco, presente anche in altre lingue indeuropee, nel suo significato originario indicava colui che parlava un linguaggio incomprensibile; con questo valore il termine è attestato nel libro II, pseudo-omerico, dell'Iliade, databile intorno ai sec. VIII-VII a. C., a proposito dei Cari, detti barbarofoni (Iliade, II, 867). In base alla diversità del linguaggio il termine barbaro venne a indicare per i Greci il “non greco”, lo straniero. Tale definizione non comportava, di per sé, nessun disprezzo etnico, come rivela Erodoto (I, 1), che chiama barbari i Persiani riconoscendoli contemporaneamente autori, al pari dei Greci, di grandi e meravigliose imprese. Così i Greci chiamarono barbari, dando alla parola questo significato, i popoli di alta cultura, come i Cartaginesi, i Romani, gli Etruschi, gli Ebrei. Dopo il conflitto con i Persiani, però, in Erodoto come in Eschilo, la differenza tra greco e barbaro venne sentita soprattutto come di natura politica: l'uno era cittadino e libero, l'altro servo, perché suddito. Dall'approfondimento di questa distinzione nasce il disprezzo dei Greci per i barbari, ritenuti per natura, e non solo per cultura, inferiori a loro. Isocrate, rivolgendosi a Filippo di Macedonia (Filippo, 154), dichiara che egli deve essere benefattore dei Greci, re dei Macedoni, padrone dei barbari. Aristotele consiglia Alessandro il Grande di essere egemone dei Greci e padrone dei barbari, usando gli uni come amici, gli altri come animali e piante, perché a essi non è dato di saper reggersi da soli, ma debbono sottostare a un capo assoluto. Diversamente dai Greci, i Romani non ebbero gravi prevenzioni etniche verso gli altri popoli; pur accogliendo dai Greci il concetto di barbaro come uomo di lingua straniera (Plauto, Miles gloriosus, II, 2, 58, Asinaria; Cicerone, Brutus, 74, Orator, 48; Ovidio, Tristezze, V, 10, 37), non identificarono lo straniero col barbaro, ma considerarono tale solo colui che non partecipava della civiltà greco-romana. Con l'espandersi dell'impero il termine barbaro, con valore di “carattere indomito e feroce”, passò a designare le popolazioni stanziate oltre i confini, non toccate dalla civiltà romana, ben distinte dai provinciales, che fruivano invece di ordinamenti e di concessioni e seguivano il diritto romano. Il terrore delle invasioni accentuò questo significato del termine barbaro, ma non alterò mai il carattere culturale e politico, non etnico, della distinzione. Più tardi, infatti, alcuni barbari furono ammessi ad alti gradi militari e rivestirono cariche pubbliche: gli ultimi difensori dell'Impero d'Occidente, Ezio, Stilicone, Oreste, padre di Romolo Augustolo, furono, appunto, di origine barbarica. Le lettere paoline frattanto, affermando l'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, toglievano valore alla discriminazione nei confronti del barbaro (Ai Colossesi, 3, II), mentre accoglievano il concetto corrente di barbaro come parlante una lingua incomprensibile (Ai Corinti, 14, II). In seguito, tuttavia, il concetto di barbaro si tinse nei testi cristiani di significato religioso. Divenuto cristiano tutto l'impero, barbaro equivalse infatti a non cristiano e quindi a non romano. L'elemento discriminante fra barbaro e non barbaro fu la religione: gli Ebrei, perciò, precursori del nuovo credo, non furono considerati barbari nel mondo cristiano. In età carolingia, il termine perse la sua intransigenza religiosa e assunse nuovamente sfumature di tipo etnico-culturale, come in Paolo Diacono e in Eginardo. San Tommaso nella sua Summa riprese il primitivo termine cristiano gentes per designare i non credenti. Nell'Umanesimo e nel Rinascimento, il rinato amore verso il classicismo e il mondo romano fece sì che venisse giudicato barbarico tutto ciò che non era classico e barbari furono ritenuti quei popoli che non potevano vantare una salda tradizione classica, come gli Scandinavi, i Turchi, ecc. Gli umanisti italiani sentirono come barbaro tutto ciò che non era italiano: nel 1510 il grido di guerra contro i Francesi, lanciato da Giulio II, fu “Fuori i barbari”. Con l'Illuminismo si verificò un'ulteriore evoluzione del concetto: nacque il mito del buon selvaggio, mentre Vico vide nel barbaro il “primitivo”, come primo e necessario momento dell'evoluzione dell'uomo civile. Il Romanticismo colse nel barbaro l'espressione delle genuine e primitive energie della natura umana. Attualmente il termine, che ha perduto ogni caratteristica etnico-culturale, serve a indicare per lo più gli istinti primordiali presenti nell'uomo, cosiddetto civile, che possono esplodere a livello individuale e collettivo.

Iconografia

Nell'arte greca le raffigurazioni di “non greci” appaiono dal sec. VI a. C. caratterizzate dai lineamenti, dalle acconciature, dalle vesti. Guerrieri sciti, frigi e traci sono frequenti nella pittura vascolare. Molto comuni sono uomini dalla pelle scura, nella ceramica e in statuette. Sciti, Arimaspi, Persiani e Lidi appaiono nella ceramica greca e apula del sec. IV a. C. e in rilievi dell'età di Alessandro. In età ellenistica i Galati rappresentano il tema dominante nei celebri gruppi statuari dei donari degli Attalidi (Galata morente, copia romana; Roma, Museo Capitolino). In età romana imperiale barbari combattenti o vinti appaiono su molti monumenti onorari degli imperatori . Daci e Geti sono i protagonisti dei rilievi storici, quali la Colonna Traiana e le metope del trofeo di Adamclissi. Germani, Celti e Sarmati affollano le drammatiche composizioni della colonna di Marco Aurelio e i rilievi di tutto il sec. II d. C. fino alle tarde figurazioni delle basi della colonna di Costantino e della colonna di Arcadio a Costantinopoli.

Bibliografia (per la storia)

J. Juethner, Hellen und Barbaren, Lipsia, 1923; S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, vol. I, pag. 521 seg., Bari, 1966; A. N. Sherwin-White, Racial Prejudice in Imperial Rome, Cambridge, 1967; S. Gasparri, Il mondo dei barbari, Firenze, 1987.

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