Lessico

Sm. [sec. XIV; da capitale].

1) Il nucleo principale di un patrimonio; somma di danaro che produce interesse; per estensione, ricchezze, patrimonio: “Ormai possedeva un piccolo capitale ed era in grado di estendere la sua attività” (Cassola). Fig.: il suo solo capitale sono l'intelligenza e la volontà; far capitale di qualche cosa o di qualcuno, giovarsene, trarne profitto: “Quando ti occorro, fai capitale di me” (Giusti).

2) Nel linguaggio economico, l'insieme dei beni economici prodotti dall'uomo e destinati alla produzione diretta di altri beni economici; anche quella parte di ricchezza che serve a produrre reddito o viene identificata con la ricchezza materiale disponibile; per estensione, la classe cui appartengono i mezzi di produzione: la lotta tra il capitale e il lavoro, tra classe padronale e operai nella società capitalista. Anche valore presente di un apporto di redditi futuri o valore complessivo delle singole quote monetarie dei soci di una società: capitale azionario.

Economia: generalità

Il capitale è il risultato di un processo di accumulazione cioè di sottrazione al consumo di beni e della loro destinazione all'investimento. Si distingue talvolta fra capitale reale e capitale monetario: il primo consiste nelle macchine, negli impianti, nelle scorte di materie prime, ecc.; il secondo è sotto forma di moneta. Il capitale reale può inoltre essere fisso o circolante. È fisso se composto di beni che non si logorano completamente in un ciclo di produzione e quindi possono essere impiegati in più cicli successivi (macchinari, impianti, edifici, ecc.); è circolante se composto di beni che possono essere impiegati una sola volta in un ciclo produttivo (come le materie prime e ausiliarie, l'energia, ecc.). Si definiscono capitale fisso sociale le cosiddette “infrastrutture”, cioè quelle attrezzature (strade, ferrovie, ponti, impianti elettrici, ecc.), generalmente di proprietà pubblica, che costituiscono il presupposto per il funzionamento di altri mezzi e che, essendo causa di economie esterne, stimolano l'esecuzione degli investimenti privati. Mercato dei capitali è anche detto il mercato finanziario mentre, nell'ambito dei rapporti economici internazionali, si parla di capitali vaganti o moneta calda (hot money) alludendo ai movimenti o ai trasferimenti di natura speculativa da un Paese all'altro, di capitali monetari a vista o a breve termine, causa di gravi perturbazioni nelle bilance dei pagamenti. Capitale estero è infine quello appartenente a persone fisiche o giuridiche non residenti in un certo Paese. Il termine capitale appartenne inizialmente e per diversi secoli solo alla terminologia giuridica e significò la parte “principale” (pars capitalis) di un prestito, in quanto distinta dall'interesse e dagli altri diritti accessori del creditore. Successivamente servì a indicare le somme di danaro o titoli di esse rappresentativi conferiti dai soci a una società o l'insieme delle attività della società stessa. D'altra parte, come rileva J. A. Schumpeter, prima del sec. XVIII gli economisti ben raramente usarono il termine capitale preferendo, fino al sec. XIX, i termini di ricchezza o stock (nel senso di ricchezza durevole o produttiva).

Economia: le teorie

Una teoria della natura e delle funzioni del capitale si ebbe solo con R. Cantillon e soprattutto con F. Quesnay che introdusse la nozione di anticipazioni (avances), cioè ricchezze accumulate in precedenza e necessarie per iniziare e svolgere il processo produttivo. Alla teoria di F. Quesnay si rifecero, sviluppandola e affinandola, R. J. Turgot e poi A. Smith, che definì capitale da una parte quella porzione di ricchezza destinata a procurare reddito al suo proprietario e, dall'altra, uno stock di beni di produzione a disposizione dell'intera società. Smith, inoltre, distinse il capitale fisso da quello circolante ed enumerò i beni che facevano parte delle due categorie. D. Ricardo considerò il capitale “quella parte della ricchezza di un Paese che viene impiegata nella produzione e consiste di cibo, indumenti, utensili, materie prime, macchinario, ecc., necessari per dare effetto al lavoro” e, inserendolo in una precisa dimensione temporale, rilevò genialmente la non esistenza di una sostanziale diversità tra capitale fisso e capitale circolante pervenendo a individuare quelli che in termini moderni si chiamano capitale tecnologico o tecnico (utensili, macchine, edifici, materie prime) e capitale-salari (destinato alla domanda di lavoro). J. S. Mill affermò che “quello che il capitale fa per la produzione è di offrire riparo, protezione, utensili e materiali richiesti dal lavoro e di nutrire o comunque mantenere i lavoratori durante la produzione” e formulò quattro proposizioni (o teoremi) sul capitale: l'industria è limitata dal capitale; il capitale è il risultato del risparmio; il risparmio non diminuisce il consumo (nel senso che ciò che viene risparmiato, se affidato a un produttore, è speso in beni di consumo); la domanda di merci non è domanda di lavoro (interpretata esattamente da J. A. Schumpeter nel senso che “la somma pagata dal consumatore per una merce generalmente non paga il lavoro che è entrato nella sua produzione... la somma pagata dal consumatore permette all'industriale di reintegrare il suo capitale, normalmente con una aggiunta...” ed è la decisione dell'industriale d'investire che “avvantaggerà” il lavoro). Marx ribadì in sostanza la definizione di Mill ma considerò capitale solo le cose che sono possedute dai capitalisti e non dai lavoratori che le usano. Nella concezione marxista il capitale è il risultato dell'accumulazione, vale a dire della trasformazione della parte di plusvalore non consumata. Il capitale impiegato dal capitalista si divide, per Marx, in capitale costante e capitale variabile. Il primo, che comprende i macchinari e le materie prime, si limita ad aggiungere ai prodotti solo il suo proprio valore senza altro; il secondo è costituito dalla spesa per l'acquisto di forza lavoro e varia (cioè aumenta) in quanto produce il plusvalore. Il rapporto fra capitale costante e capitale variabile viene definito da Marx “composizione organica del capitale”, inversamente proporzionale al saggio di profitto. I primi marginalisti, come K. Menger, definirono il capitale “beni di ordine superiore” (in contrapposto ai beni di consumo) oppure, come W. S. Jevons, pur richiamandosi esplicitamente alla teoria ricardiana, suggerivano di limitare il termine capitale solo ai beni-salario, assegnandogli la funzione di permettere di “spendere lavoro in anticipo”. Jevons sostenne inoltre che “l'ammontare dell'investimento di capitale” è determinato dal prodotto di “ciascuna porzione di capitale investito in qualsiasi istante per il periodo di tempo durante il quale rimane investito”. E. Böhm-Bawerk, autore di una delle più famose teorie del capitale, lo definì “prodotti intermedi” (strumenti e materie prime) e considerò questi ultimi come “beni di consumo in via di maturazione”. Teorizzò inoltre il concetto di “processo di produzione per vie indirette” (vale a dire la produzione di beni di consumo attraverso la produzione di beni intermedi) e imperniò la sua teoria del capitale sulla nozione di “periodo di produzione” atto a caratterizzare la struttura della produzione di un dato sistema economico e dato dal rapporto tra “l'ammontare dell'investimento di capitale” (nel senso di Jevons) e l'ammontare di capitale investito. I. Fisher definì il capitale “fondo di ricchezza che esiste in qualsiasi momento”, contrapposto al reddito “flusso di servizi”, puntualizzando così la natura di “fondo” del capitale. V. Pareto considerò capitale tutti i fattori che concorrono a produrre il reddito nazionale distinguendo i capitali fondiari (terra, miniere, ecc., cioè beni naturali non trasferibili) dai capitali mobiliari (macchine, edifici, ecc., cioè beni strumentali trasferibili nello spazio) e dai capitali personali (cioè l'uomo). Un gruppo di autori infine, tra cui G. Cassel e J. A. Schumpeter, ponendo in rilievo l'importanza del capitale quale fattore di sviluppo economico, hanno teorizzato il concetto di “capitale disposizione” formato da un complesso di mezzi a disposizione dell'imprenditore (risparmio, ammortamento, credito nelle sue varie forme, ecc.). Nel corso degli anni Sessanta, si è sviluppato un ampio e acceso dibattito sul concetto stesso di capitale, che ha visto contrapporsi la scuola della Cambridge inglese a quella della Cambridge americana nel Massachusetts; la controversia aveva avuto inizio con un famoso articolo di J. Robinson (1953) in cui si dimostrava che non era possibile esprimere in termini reali il capitale aggregato inteso come insieme dei mezzi di produzione, indipendentemente dalla distribuzione del prodotto e dalla struttura dei prezzi. Tale critica poneva seri dubbi sulla possibilità di utilizzare la funzione aggregata di produzione in cui il capitale veniva considerato come fattore di produzione.

Ragioneria: generalità

Il capitale è l'insieme coordinato dei beni misurati in valore a disposizione di un'impresa in un determinato momento. Denominato patrimonio nelle aziende di erogazione, può essere analizzato sotto l'aspetto qualitativo e quantitativo: nel primo caso il capitale è costituito da un insieme eterogeneo di beni i cui componenti si possono distinguere come segue: secondo la destinazione, in immobilizzazioni e disponibilità, beni che l'azienda non può o viceversa può erogare senza compromettere la propria redditività (per esempio le macchine in una tipografia o le medesime macchine in un'industria produttrice di tali beni); secondo l'aspetto giuridico, in beni propri e beni di terzi, a seconda che l'azienda abbia regolarmente acquistato o temporaneamente acquisito in possesso detti beni; secondo la materialità, in beni materiali o immateriali quali impianti e macchine o brevetti e diritti d'autore; secondo l'importanza, in elementi principali ed elementi accessori del capitale. Sotto l'aspetto quantitativo il capitale è un fondo omogeneo di valori espressi in moneta di conto. I suoi elementi si distinguono in tal caso in attività e passività, quali danaro liquido (cassa), conti correnti bancari (banca), fatture da esigere (clienti), ecc., o fatture da estinguere (fornitori), cambiali da pagare (cambiali passive), ecc. e, secondo il criterio di valutazione adottabile, in valori numerari e valori presunti o stimati se determinabili in base a semplice enumerazione o se soggetti a stima o presunzioni. L'analisi del capitale sotto l'aspetto quantitativo porta allo studio della determinazione dei valori da attribuirsi al capitale e ai singoli elementi che lo compongono. Si hanno valori diversi secondo i criteri adottati e la scelta di un criterio è in funzione dello scopo per cui si procede alla valutazione. Essendo il capitale un bene strumentale dell'azienda per lo svolgimento del processo produttivo, è necessario procedere all'anticipata acquisizione dei fattori di produzione per l'ottenimento dei prodotti finiti, con evidente discrasia temporale tra il momento dell'investimento e quello dei ricavi: ciò significa che l'azienda deve dotarsi anticipatamente di risorse economiche che solo successivamente, in seguito ai ricavi ottenuti, potranno essere reimmesse nel ciclo di produzione. L'insieme dei fattori produttivi, intesi in ampia accezione e includenti oltre che fattori tecnici della produzione anche risorse finanziarie variamente impiegate in conseguenza dello svolgimento del processo produttivo, può essere definito come il capitale lordo aziendale. L'azienda, per poter effettuare il volume di investimenti necessari per alimentare il proprio processo produttivo, deve reperire risorse finanziarie che possono essere ottenute alternativamente con il vincolo del prestito, in tal caso si ha il capitale di credito, ovvero con il vincolo della proprietà, configurandosi in tale ipotesi il capitale di proprietà, altrimenti detto capitale di rischio. Conseguentemente, reinquadrando la definizione di capitale nella logica delle rilevazioni di contabilità generale, il capitale lordo, inteso come insieme degli investimenti posti in essere in un determinato momento ed esposti al netto di eventuali poste di rettifica, viene definito come l'insieme degli elementi attivi, o attività, del patrimonio aziendale; al contrario sottraendo a tali attività l'insieme dei debiti che su di esse gravano, ossia il totale capitale di credito, altrimenti detto passività, è possibile definire il capitale netto, necessariamente coincidente con il totale dei mezzi propri investiti nell'azienda. L'elemento caratterizzante i beni economici componenti il capitale lordo, ossia le attività aziendali, è costituito dal ricordato vincolo di complementarità nello svolgimento del processo produttivo e, quindi, di utilità strumentale a esso; ne consegue che il valore attribuibile a tali beni viene a dipendere, oltre che dalla consistenza fisica dei beni stessi, dall'andamento aziendale futuro previsto e dal conseguente processo produttivo programmato; per cui, nell'ipotesi di normale funzionamento aziendale (going concern principle), essendo salva l'utilità strumentale dei beni componenti il patrimonio aziendale, il capitale viene a configurarsi come un vero e proprio sistema di valori, laddove l'utilità traibile dai singoli beni, e, quindi, il loro valore, dipende strettamente dal loro grado di strumentalità rispetto al processo produttivo; in tale ipotesi, valutando “sistemicamente” i singoli componenti si perviene al capitale netto di funzionamento.

Ragioneria: capitale di funzionamento

Il capitale di funzionamento, rilevabile in qualsiasi momento dell'attività aziendale, può dedursi, alla fine di un periodo amministrativo, dallo stato patrimoniale costituente, con il conto economico, il bilancio di esercizio. Nell'ambito di un'azienda di produzione tale configurazione del capitale risulterà complessa data l'interdipendenza nello spazio e nel tempo delle operazioni di gestione. Il capitale di funzionamento è formato, per quanto riguarda gli elementi attivi, da valori numerari, rimanenze attive e costi pluriennali; per quanto riguarda gli elementi passivi, da debiti di funzionamento e finanziamento, da rimanenze passive, da fondi-ammortamento e fondi-rischi e spese futuri. La scelta del criterio e la valutazione di ogni singola posta, tenendo conto delle norme legislative al riguardo, dovranno basarsi sul prudente apprezzamento e dipenderanno da vari elementi tra cui la situazione dell'azienda e l'andamento del mercato. I valori da imputare alle attività non numerarie sono differenti se si tratta di beni destinati alla vendita (generalmente valutati al presunto ricavo) o d'immobilizzazioni (valutate in base al costo storico al netto delle quote di ammortamento). Nella determinazione dell'entità dei crediti, valutabili in base al valore nominale, si dovrà tener conto dell'eventuale non riscossione di alcuni di essi. Difficoltà notevoli si presentano nell'adozione di un criterio di valutazione delle rimanenze attive e passive d'esercizio in quanto il criterio adottato incide in misura rilevante sul valore attribuito al capitale e al risultato economico dell'esercizio. Anche in tal caso non è possibile stabilire un criterio; il principio fondamentale da seguirsi è quello di non superare il presunto prezzo di realizzo, nel caso di rimanenze attive, e di non attribuire un valore inferiore al costo di estinzione, nel caso di rimanenze passive.

Ragioneria: cessazione di attività

Nell'ipotesi in cui è prevista la cessazione dell'attività e la conseguente liquidazione aziendale con la vendita disgiunta dei beni componenti il patrimonio e il relativo pagamento dei debiti, il capitale risultante si configurerà come un mero aggregato di valori, tipicamente di realizzo, attribuibili distintamente ai singoli beni del patrimonio; in tal caso si configura il capitale di liquidazione per stralcio. E ancora, in vista di una cessione dell'unitario complesso aziendale, il valore di scambio, ossia il capitale di cessione, viene determinato, più che dal grado di utilità strumentale dei singoli beni componenti il patrimonio, dal flusso atteso di redditi futuri; in tal caso il capitale si configura come un valore unico e viene detto, oltre che capitale di cessione, capitale economico; qualora la cessione del complesso aziendale avvenga mediante una fusione, ovvero una trasformazione societaria, il capitale di cessione si configura più propriamente, nel primo caso, come capitale di fusione, determinato facendo riferimento sempre al capitale economico sulla cui consistenza si basa il calcolo del valore di concambio delle azioni, nel secondo caso come capitale di trasformazione derivante comunque dal capitale economico. L'esposizione dei valori del capitale nel bilancio di esercizio conduce alla redazione dello stato patrimoniale, in cui figurano esposti i valori delle attività, delle passività e del netto patrimoniale; le attività possono essere distinte in attività finanziarie, costituite da denaro, valore numerario certo, e crediti di varia natura, valori numerari assimilati generalmente stimati in base al presunto grado di realizzo, e in attività economiche, ossia fattori specifici della produzione aventi la natura di costi in attesa di recupero; analogamente, le passività possono essere anch'esse distinte in passività finanziarie, debiti di varia natura, valori numerari assimilati e stimati in base al presunto valore di estinzione, e in passività economiche comprendenti, oltre che eventuali poste di rettifica di valori dell'attivo, ricavi conseguiti in via anticipata e relativi a operazioni per la cui conclusione si renderà necessario sostenere altri costi; la differenza tra il valore delle attività e quello delle passività conduce al ricordato capitale netto, nell'ipotesi di eccedenza delle attività sulle passività, ovvero, nel caso contrario, al deficit patrimoniale.

Ragioneria: grado di liquidità

Nella logica dell'analisi finanziaria del bilancio il capitale può essere variamente distinto a seconda del grado di liquidità che caratterizza i vari elementi patrimoniali; conseguentemente, il totale degli investimenti risultanti dallo stato patrimoniale depurato dalle eventuali poste di rettifica configura il complessivo capitale investito, che può essere distinto in capitale circolante lordo, costituito dall'insieme degli investimenti realizzabili mediante il loro ritorno in forma liquida entro un breve periodo di tempo, e in capitale immobilizzato, rappresentato, viceversa, dall'insieme di investimenti il cui tempo di ritorno in forma liquida è notevolmente esteso; sottraendo dal capitale circolante lordo l'insieme dei debiti a breve scadenza si ottiene il capitale circolante netto (o working capital), importante margine finanziario in grado di fornire, seppur in modo approssimativo, informazioni sulla complessa situazione finanziaria aziendale. Infine, nelle imprese societarie, il capitale netto può essere distinto in capitale sociale, corrispondente al valore nominale totale delle azioni, o quote, di cui si compone, in fondi di riserva variamente costituiti (riserva legale, statutaria, straordinaria, per rivalutazione monetaria dei cespiti, ecc.) e nel reddito di periodo (utile o perdita di esercizio). In passato, con l'affermazione delle teorie patrimonialistiche veniva riconosciuta un'importanza fondamentale alla determinazione del capitale a fine esercizio, poiché dal confronto tra questo e il capitale esistente all'inizio del periodo era possibile dedurne per differenza il reddito attribuibile all'esercizio; con l'affermazione della teoria del reddito, e di altre teorie da questa derivate, il risultato economico attribuibile al periodo viene desunto dal confronto tra componenti positivi (ricavi e rettifiche di costi) e componenti negativi (costi e rettifiche di ricavi) di reddito, per cui la determinazione del capitale netto di funzionamento viene ad assumere principalmente la funzione di accogliere, oltre che i valori finanziari risultanti a fine periodo, soprattutto i costi e i ricavi sostenuti e conseguiti anticipatamente, sospesi dalla formazione del reddito di periodo e rinviati per competenza economica a formare il reddito nei periodi successivi.

A. Graziani, Sviluppo economico e produttività del capitale, Napoli, 1957; O. Vitali, La formazione del capitale in Italia, Milano, 1968; F. Marzano, Teorie del capitale e della produzione, Padova, 1974; J. A. Kregel, Teoria del capitale, Napoli, 1979; B. Iaccarino, A. Romano, La gestione del costo del capitale, Napoli, 1986.

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