colelitìasi

sf. [da cole-+litiasi]. Calcolosi della colecisti, che può essere colesterolica, se i calcoli sono di colesterolo, oppure pigmentaria, se i calcoli sono costituiti da bilirubina. Nel primo caso il colesterolo passa dalla forma solubile a quella insolubile e precipita in cristalli, la cui agglomerazione porta alla formazione del calcolo. La colelitiasi colesterolica è nel mondo occidentale la varietà di gran lunga più comune. Nei Paesi dell'Estremo Oriente è più frequente la colelitiasi pigmentaria, favorita dall'alta incidenza di infezioni croniche delle vie biliari, soprattutto parassitosi, che rappresentano il punto di partenza da cui originano l'ostruzione, la stasi e la successiva precipitazione dei cristalli di bilirubina. La colelitiasi è spesso asintomatica; in altri casi può provocare una sintomatologia dispeptica, con eruttazioni, meteorismo, nausea, difficoltà digestiva e dolenzia ai quadranti superiori dell'addome, e può complicarsi con una colecistite, una colangite, una litiasi del coledoco e, a lungo andare, con una sofferenza del pancreas. L'indagine di scelta per la diagnosi è rappresentata dall'ecografia, mentre a casi selezionati è riservato l'impiego della scintigrafia e di tecniche invasive, come la colangiopancreatografia retrograda endoscopica. La colecistectomia è l'intervento terapeutico risolutivo di questa patologia, anche se non ha una specifica indicazione nei casi asintomatici. L'alternativa alla terapia chirurgica è rappresentata dalla cura con gli acidi biliari (chenodesossicolico e ursodesossicolico) attivi nella dissoluzione dei calcoli di colesterolo, la cui efficacia tuttavia è documentabile in una percentuale piuttosto bassa di casi ed è gravata da alte probabilità di recidiva. Questa terapia deve essere osservata per almeno sei mesi e può provocare essa stessa alcuni disturbi, soprattutto diarrea.

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