Definizione

sf. [sec. XIX; da crimine+-logia]. Disciplina che studia il comportamento deviante in senso antisociale di singoli o gruppi su basi sia biologiche sia psicologiche e socio-economiche.

Cenni storici: le origini

Lo studio del comportamento criminale dei singoli individui ebbe inizio in modo sistematico già nel sec. XIX: l'italiano C. Lombroso, nel 1876, pubblicò un'opera (L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza e alle discipline economiche), nella quale espose le basi di una teoria per cui la criminalità è legata a precise tare biologiche facilmente individuabili nelle caratteristiche somatiche e anatomiche dei singoli individui. Tale vasto studio portò alla creazione di una scuola di “antropologia criminale”, i cui massimi esponenti in Italia, oltre a Lombroso, furono G. Virgilio, E. FerriR. Garofalo. L'evoluzione degli studi sociologici e psicologici rivelò i limiti di questa scuola e contrappose alla metodologia ispirata a principi biologici quella che attribuiva il comportamento criminale a cause esclusivamente socio-psicologiche (G. Tarde, E. Durkheim, H. Joly). Altri studiosi (F. von Liszt, E. H. Sutherland, K. Mannheim) proposero una metodologia interpretativa globale che tenesse conto dei caratteri psicofisici dell'individuo e del contesto sociale nel quale l'individuo vive e opera.

Cenni storici: la criminologia critica

La tendenza della criminologia è stata in misura sempre maggiore quella della costruzione di una criminologia cosiddetta critica, in contrapposizione da un lato alle impostazioni biopsicologiche, tendenti comunque a vedere le cause della devianza all'interno dell'individuo, siano queste cause organiche (come volevano le vecchie dottrine costituzionaliste, o poi le teorie cromosomiche, che hanno rivelato però rapidamente la loro inconsistenza) o puramente psichiche. Contrapponendosi d'altro lato alle concezioni presenti nel pensiero penalistico e giudiziario, che trovano la loro espressione più avanzata nella cosiddetta teoria della “difesa sociale”, ma che sono comunque scollate dalle acquisizioni della sociologia e dell'antropologia. Più che una scuola di criminologia critica con una teorizzazione unitaria, si sono formati piuttosto gruppi di studiosi (particolarmente significativi sono stati quelli facenti capo in Gran Bretagna a I. Taylor, P. Walton, J. Young e in Italia ad A. Baratta e F. Bricola attorno alla rivista La questione criminale), con impostazioni spesso molto differenziate, ma comunque tese verso un'impostazione macrosociologica che storicizza la devianza e ne individua i legami con le strutture sociali, rifiutando ogni impostazione naturalistica. Particolarmente interessante in questa prospettiva il cosiddetto labeling approach (teoria dell'etichettatura), che è stato al centro delle discussioni criminologiche, e particolarmente seguito in Germania (W. Keckeisen, H. Steinert, ecc.). Secondo tale impostazione, il punto di partenza non deve essere tanto il concetto di devianza, quanto la reazione sociale (soprattutto quella delle istanze ufficiali di controllo sociale, come polizia, magistratura, ecc.) che, etichettando certi comportamenti come devianti, finisce con l'avere una funzione “costitutiva” della criminalità.

Bibliografia

H. Mannheim, Comparative Criminology, Londra, 1966; B. Di Tullio, Principi di criminologia clinica e psichiatrica forense, Roma, 1967; D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, Torino, 1971; F. Mantovani, Il problema della criminalità, Padova, 1984; G. Ponti, Compendio di criminologia, Milano, 1990.

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