Lessico

sm. [sec. XIII; da diritto (aggettivo)].

1) Il complesso di norme e regole che determinano ciò che nelle relazioni tra i membri di un gruppo sociale è obbligatorio o vietato o permesso (diritto oggettivo): diritto italiano, romano; diritto civile, penale; diritto pubblico, privato; diritto volgare; diritto canonico, il complesso delle norme giuridiche della Chiesa; diritto di Teodorico. Per estensione, scienza che si occupa dello studio di tali norme: scuola di diritto; professore di diritto costituzionale.

2) Facoltà che, sulla base del diritto oggettivo, è accordata a un soggetto di esigere da altri un determinato comportamento (diritto soggettivo): i diritti e i doveri del cittadino; il diritto di proprietà; diritti reali di godimento, vedi enfiteusi, servitù prediali, superficie, usufrutto; diritti civici, usi civici; diritto di asilo; esercitare un diritto; farò valere i miei diritti; avere diritto a qualche cosa, poterla pretendere legalmente; essere in diritto di, avere la facoltà di; di diritto, per legge: questo mi spetta di diritto; avere dei diritti su qualche cosa o su qualcuno, avere facoltà di disporne in qualche modo; diritto d'autore; diritto di rappresentazione; diritto di riproduzione. Per estensione, potere o pretesa legittimata dalla tradizione, da norme morali e simili: i diritti della vecchiaia; non hai il diritto di leggere la mia corrispondenza; ognuno ha il diritto di dire la sua opinione; a buon diritto, giustamente; a maggior diritto, tanto più.

3) Nome di vari tributi dovuti dal cittadino allo Stato o ad altro ente pubblico o privato, per lo più come corrispettivo per un servizio e simili: diritti erariali, diritti di segreteria, d'urgenza. § In economia, diritti speciali di prelievo (inglese Special Drawing Rights), facilitazioni di credito automatiche assegnate dal Fondo Monetario Internazionale ai Paesi membri che abbiano aderito al sistema. Non convertibili in oro, i diritti speciali di prelievo possono essere utilizzati dal Paese debitore cui sono assegnati, per acquistare valute al fine di estinguere debiti derivanti da disavanzo della propria bilancia dei pagamenti o a scopo di riserva. Sono entrati in vigore nel luglio 1969 e sono stati assegnati a partire dal 1970. Per il diritto di sfruttamento, vedi royalty.

Struttura generale

Caratteristiche del diritto oggettivo sono: la sua generalità, cioè la sua capacità a valere per ogni caso corrispondente a quello tipico, che ne ha causato l'emanazione; la sua imperatività; la sua coattività o capacità a infliggere una pena al trasgressore. Il complesso delle norme si articola in: diritto privato, le norme che regolano i rapporti dei singoli fra loro o con gli enti pubblici non aventi funzioni di potere politico e sovrano; diritto pubblico, le norme che disciplinano l'organizzazione e la funzione dello Stato o in genere i rapporti dei singoli con lo Stato o con enti pubblici. Nella sfera del diritto privato tuttavia alcune norme proteggono interessi che hanno prevalente importanza sociale, come, per esempio, il diritto di famiglia. Per il diritto oggettivo è importante anche la suddivisione in diritto comune, norma conforme ai principi generali di diritto, e diritto singolare, norma che contrasta con i principi generali ma trova giustificazione in motivi speciali di utilità. Per quanto concerne il diritto soggettivo, esso costituisce una categoria unitaria comprensiva dei rapporti esistenti tra privati e tra questi e la pubblica amministrazione. Per il loro contenuto i diritti soggettivi possono essere trasmissibili, idonei cioè a essere trasferiti da un soggetto all'altro; o intrasmissibili, quali, per esempio, i diritti familiari; disponibili, quando il loro titolare è autorizzato a disporne; non-disponibili, sui quali il titolare non ha diritti a disposizione (per esempio, diritti familiari); patrimoniali, valutabili in denaro, quali i diritti reali o di credito; non-patrimoniali, inerenti alla persona (per esempio, i diritti alla vita, all'integrità personale, ecc.). I primi sono alienabili, i secondi no. Una suddivisione a parte è costituita dai diritti potestativi (per esempio, diritto alla separazione della dote, alla denunzia di un contratto, ecc.). La relazione fra il titolare del diritto soggettivo e chi è sottoposto al comportamento corrispondente costituisce il rapporto giuridico, base di ogni moderna suddivisione del diritto privato.

Etica

Se la morale si definisce “norma universale dell'attività umana” sono evidenti analogie con la norma giuridica; entrambe infatti poggiano su di un giudizio e un comando, sopra una valutazione e una volizione e sull'accettazione di un sistema di valori e di fini. Sostanziali però sono anche le divergenze che ne scaturiscono: nella morale, prevalente è il fine identificato nell'idea del bene, mentre nella norma giuridica la finalità varia o addirittura è assente; l'imperativo morale investe tutto il soggetto nelle sue intenzioni e nelle sue azioni, quello giuridico si limita alle sue azioni; inoltre la norma morale nasce dal soggetto e vale solo per lui, mentre quella giuridica è eteronoma e riguarda solo le manifestazioni esterne del soggetto; nella legge morale legislatore e soggetto sono la stessa persona, mentre in quella giuridica il legislatore è sempre altro dal soggetto; da ultimo la sanzione morale è interna al soggetto, mentre quella giuridica è esterna e materiale.

Filosofia: dall'antica Grecia al Medioevo

Lo studio del diritto in quanto ricerca filosofica vuol definire il concetto di diritto nella sua forma logica e ne precisa il carattere di universalità, facendolo assurgere a un ideale di giustizia, che serva di modello al diritto positivo per correggerne le possibili imperfezioni. La filosofia del diritto affonda le sue radici nel diritto naturale quale esigenza alla giustizia assoluta (di qui la sua definizione di “scienza del diritto naturale”, che ha resistito fin quasi al sec. XIX). In origine la filosofia del diritto appare intimamente unita e subordinata alla morale, alla teologia e alla politica (per esempio, nei libri sacri dell'Oriente), presentandosi con leggi positive indiscutibili, in quanto emanate da un potere insindacabile. La prima discussione critica sull'essenza della giustizia si ebbe in Grecia, stimolata specialmente dai sofisti; Platone trovò il campo preparato per delineare la visione del suo Stato come un perfetto organismo in cui le varie classi sociali si collocano con precise attribuzioni; Aristotele delineò a sua volta una teoria della giustizia, che guarda specialmente al valore delle cose e le dispensa secondo un principio distributivo, che tiene conto del merito delle persone; nella visione dello Stato egli valorizza l'individuo, anche se ammette ancora la schiavitù. Gli stoici entrarono nell'indagine filosofica sul diritto sostenendo l'esistenza nella natura di una legge universale, che negli individui si manifesta come retta ragione, mentre gli epicurei concepirono lo Stato come effetto di un calcolo utilitario. Agli stoici s'ispirò Cicerone sostenendo che vi è una legge naturale attestata dalla coscienza e valida per ogni tempo e luogo. Nelle varie scuole giuridiche romane prevalse il concetto della razionalità insita nelle cose, superiore all'arbitrio umano. Vicino a questa concezione del diritto naturale sarà lo ius gentium. Nell'elaborare il proprio diritto i Romani lo mantennero in stretta connessione con la morale, anche se nei casi pratici ne intuirono le differenze, per cui il giurista Paolo afferma: “Non tutto ciò che è lecito è onesto”. Il cristianesimo esaltò la fratellanza di tutti gli uomini e pose a fondamento morale e giuridico della società l'amore del prossimo, riuscendo a mitigare numerosi istituti giuridici. Lo stesso cristianesimo tuttavia accettò gran parte del patrimonio giuridico di Roma e l'inserì nella sua organizzazione innalzandolo a manifestazione della divina sapienza: saggio grandioso di questa costruzione fu il De civitate Dei di Sant'Agostino. Il pensiero giuridico cristiano ricevette la sua sistemazione definitiva da San Tommaso, che distinse tre ordini di leggi: la lex aeterna, o ragione divina che governa il mondo; la lex naturalis, impressa da Dio nel cuore dell'uomo e fatta a misura della sua natura; la lex humana, inventata dall'uomo sui presupposti della legge naturale. Da questa stretta dipendenza della legge umana positiva da quella divina scaturiva la supremazia della Chiesa sullo Stato, che trovò la sua formulazione più estrema nella “teocrazia” di Bonifacio VIII e costituì il fondo della lotta per le investiture. Questa dottrina fu avversata da Dante Alighieri (teoria dei due Soli) e da Marsilio da Padova (indipendenza dello Stato dalla Chiesa).

Filosofia: dal Rinascimento all'età contemporanea

All'inizio dell'evo moderno venne configurandosi l'ipotesi di un contratto sociale da porre a fondamento dello Stato. Con il Rinascimento e la Riforma protestante si operò lo sganciamento completo del diritto dalla teologia e Grozio ne approfittò per costruire il suo sistema di diritto naturale e internazionale sulla sola base della ragione umana. La larga influenza del suo pensiero portò, nel sec. XVII, alla formazione di una “scuola del diritto naturale”, che talora peccò di razionalismo astratto, ma seppe indagare sui fondamenti del diritto ed elaborò il concetto del moderno Stato di diritto: fra questi pensatori Locke affermò che tutti gli uomini posseggono per natura i diritti di libertà, di eguaglianza, di lavoro e di proprietà e che lo Stato ha la funzione di tutelarli; Hobbes sostenne invece la necessità di un governo assoluto per temperare la natura aggressiva dell'uomo; Pufendorf distinse il diritto dalla teologia e il diritto naturale da quello positivo, assegnando al primo i diritti innati e al secondo quelli acquisiti. Fondamentale è per l'uomo l'obbligo della pacifica socievolezza in quanto corrispondente al fine del genere umano. Già nel sec. XVIII Vico e Montesquieu si soffermavano a studiare la fenomenologia del diritto positivo, che Vico trovava conforme a quello naturale, mentre Montesquieu esaminava le istituzioni giuridiche di molti popoli per spiegare i motivi e le circostanze (anche ambientali) che le avevano originate. Prevalse tuttavia ancora la “scuola del diritto naturale”, specialmente in Rousseau, dove l'ipotesi di un passaggio dallo stato di natura a quello di società mediante un contratto è sottoposta ai diritti inalienabili della libertà e dell'eguaglianza e lo Stato è legittimo solo in quanto li riconosce e li garantisce. Questi concetti troveranno applicazione nella Rivoluzione francese con la “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino”. Kant ebbe il merito di aver eliminato la confusione esistente fra gli elementi storici e razionali: egli afferma che il diritto naturale si fonda esclusivamente su principi razionali a priori e ha valore etico. L'unione dei cittadini nello Stato obbedisce a un imperativo della ragione. Sulle sue orme la “Scuola di diritto naturale” si chiamò “Scuola di diritto razionale”. Al razionalismo reagì la “Scuola storica dei giuristi”, che, specialmente con Savigny, mise a frutto come principio e fonte del diritto il concetto di “spirito del popolo” (Volkgeist), incontrandosi con la filosofia di Schelling e di Hegel. Questi identificò il diritto in una delle forme dello spirito obiettivo. Nel sec. XIX la “scuola cattolica” cercò nuovi sviluppi ai principi elaborati da San Tommaso, connettendo i vari rami del diritto con la legge naturale. Affine a essa è il pensiero di Rosmini, che affermò il principio etico di “riconoscere l'essere nel suo ordine” da cui emana il rispetto assoluto della personalità umana. Era però diffusa anche la tendenza a negare al diritto ogni esigenza spirituale e a considerarlo come fatto storico e positivo: caposcuola di questa tendenza fu A. Comte, che propose la fondazione della sociologia come nuova scienza unitaria dei fatti sociali, collaborando a diffondere la tendenza a fermarsi alla fenomenologia giuridica positiva. Affine al positivismo giuridico fu la teoria della “Scuola di Vienna”, che tendeva, secondo il suo principale rappresentante, H. Kelsen, a considerare il diritto positivo come è, al di fuori di ogni valutazione. In campo inglese prevalse il principio utilitario (J. Bentham, J. S. Mill), che si combinò, in Darwin e nello Spencer, con la teoria dell'evoluzione, secondo la quale il diritto si fonderebbe sulle condizioni biologiche necessarie all'esistenza degli individui e della società. Negli Stati Uniti lo studio del diritto si tenne lontano dal soverchio formalismo e da ogni concettualismo astratto, concentrandosi sulla realtà del diritto nella pratica giudiziaria e sulla sua funzione nella vita sociale. Al di sopra delle differenti posizioni delle diverse scuole di diritto, si può affermare che tutte hanno dato un apporto più o meno importante all'affermazione dei diritti inviolabili dell'uomo e dei popoli. Ne è solenne documento la “Dichiarazione universale dei diritti umani” approvata dall'Assemblea generale dell'ONU nel 1948.

Storia: dall'età primitiva alla fine dell'Impero Romano

Presente a ogni stadio dell'evoluzione umana, il diritto trovò le sue prime espressioni nelle comunità primitive come regola magico-religiosa atta a disciplinare gli atti del singolo e della comunità sotto la minaccia di una punizione. Con la suddivisione dei compiti di lavoro e il formarsi delle prime forme di potere, la norma giuridica, munita di adeguata sanzione, assunse valore imperativo al fine di assicurare un preciso bene materiale o morale. In mancanza della scrittura il complesso di queste norme veniva trasmesso oralmente in forma di massime o proverbi, che nella loro fase originaria costituirono un diritto popolare, racchiuso nelle consuetudini, negli usi domestici, agricoli, economici, religiosi, nei giochi, ecc. Quando la norma fu scritta e si strutturò in legislazione, si precisarono anche le figure del legislatore e del giudice e l'esperienza divenne oggetto di riflessione, fondando le idee-madri del diritto. Con il consolidarsi delle forme di potere divennero sempre più numerose le norme imposte dall'autorità nei confronti di quelle scaturite direttamente dalla collettività, creando conflitti che contribuirono all'evoluzione delle istituzioni. Entrambe queste fonti di diritto ambivano a dichiarare la loro origine divina e questo si riscontra ancora nelle più antiche civiltà, dove quasi sempre le norme di legge coincidono con i comandi della religione o da questa sono fortemente influenzati. Solo con il perfezionarsi dell'organizzazione civile si venne creando una vera autonomia del diritto come complesso di norme destinate a regolare la convivenza sociale. L'antico Egitto conosceva già istituti di notevole valore, soprattutto in materia di obbligazioni e di successioni. Ma anche i diritti reali e determinate forme di garanzia (per esempio, il pegno) vi conobbero antichissima tradizione. Più evoluto e complesso era il diritto sumero-babilonese, in cui avevano trovato accoglienza anche istituti dell'ampia area semitica, dei Cassiti, dei Mitanni e degli Ittiti. Monumento giuridico di quest'epoca è il Codice di Hammurabi, dove la giustizia deriva la sua efficacia dalla volontà del dio Shamash e viene amministrata nell'intento di proteggere il popolo e di difendere il debole contro le sopraffazioni del forte. Le leggi avevano già una loro struttura ben ordinata e precisavano i reati contro l'amministrazione della giustizia, contro la proprietà, il commercio, il matrimonio e la famiglia; altre norme regolavano il lavoro agricolo, la responsabilità professionale, il trattamento degli schiavi, le retribuzioni e gli affitti; le pene erano in proporzione al danno arrecato alla società; considerevole la posizione giuridica riconosciuta alla donna. Il diritto greco fu essenzialmente un diritto della pólis, per cui ogni città ebbe le sue leggi e i suoi magistrati. Tuttavia, pur nelle differenziazioni, si ravvisano elementi comuni nella disciplina del diritto privato e commerciale. Questo elemento divenne ancor più evidente al tramonto della pólis e con la nascita delle monarchie, oggettivato in un diritto comune omogeneo, capace d'influenzare gli stessi Romani. Grandi intuizioni ebbero i Greci in materia di proprietà e di possesso, nel diritto pupillare e nella legislazione sugli schiavi. Ma la massima profondità del pensiero giuridico, unita all'organizzazione più efficiente, si ebbe presso i Romani. Dal diritto originario delle tribù, inteso quale divisione amministrativa del popolo, alla perfetta organizzazione repubblicana, tutto l'apparato giuridico romano fu improntato all'uso più razionale delle norme di legge nell'interesse dello Stato e dei suoi cittadini; alla puntigliosa difesa della “cosa pubblica” fece riscontro una straordinaria e armonica continuità d'istituzioni perfettamente aderenti alle variate condizioni politiche e sociali. Originali sono soprattutto alcuni principi: la “missione educatrice” del diritto teso a prevenire più che a reprimere l'illecito e l'accoglimento del concetto di “equità”, intesa quale ragione naturale preposta a temperare la rigidità delle norme positive. Col tramonto della potenza politica romana cominciò in Europa una nuova era di produzione del diritto, in cui apparvero nuove istituzioni; queste però erano sempre sotto l'alta influenza che il diritto romano ancora esercitava. Esempio notevole di questa stretta simbiosi fu il diritto longobardo comprendente le leggi di re e imperatori fino a Enrico III (1056).

Storia: dal Medioevo all'età moderna

In materia di storia del diritto il Medioevo aveva sempre valorizzato il breve ma prezioso Enchiridion di Sesto Pomponio, che aveva descritto l'origine e l'evoluzione del diritto di Roma e delle sue fonti e delle sue magistrature. Tra i sec. XIII e XIV la mentalità medievale, abituata a considerare il diritto sub specie aeternitatis, fu portata a rivedere le proprie opinioni dal rinascere della filosofia aristotelica e dal rinnovato senso dell'individualità: Giovanni d'Andrea e Baldo degli Ubaldi fissarono nei loro scritti il ricordo dei più celebri interpreti del diritto romano e canonico; più tardi Diplovataccio vi aggiunse anche le indicazioni delle loro opere e il suo contemporaneo Aymard du Rivail nella sua Historia iuris civilis legava alle storie delle istituzioni giuridiche e dei loro commentatori quella delle strutture politiche. È interessante notare che proprio il Rinascimento, che condannava il Medioevo come “età delle tenebre”, fu il primo a tenere in considerazione lo studio degli istituti giuridici germanici evidenziandone i principi e i dati più importanti. Ma l'elemento determinante di questo periodo rimase ancora lo studio del diritto romano e soprattutto il ritorno alla sua applicazione come diritto comune. Notevoli furono in questo campo gli studi compiuti in Francia, in Olanda e in Germania. In Italia, nel sec. XVIII, a opera di una nutrita schiera di storici, sui quali primeggia Muratori, vennero alla luce ricchissimi materiali, che permisero uno stretto collegamento del diritto romano con quello di molti altri popoli: Vico diede a questa ricerca un fondamento filosofico, Giannone creò un organico legame fra storia civile e sviluppi giuridici. Questa età terminò idealmente con la Rivoluzione francese e il radicale rinnovamento da essa apportato. La nuova fase storica del diritto ebbe come caratteristica precipua la compilazione di codici nazionali, che segnò la fine dell'uso pratico delle fonti giuridiche romane e nel contempo rappresentò l'elemento fondamentale e peculiare dello Stato moderno, nato dalla Rivoluzione francese. Nasceva cioè la produzione giuridica moderna non più basata sulle fonti consuetudinarie o sull'influsso della giurisprudenza, ma sulla legislazione statuale e sulla codificazione. Un primo illustre esempio fu costituito dal Codice napoleonico, che informò dei suoi principi larga parte della legislazione europea. Tradizionalmente contrapposto al diritto romano (a cui fanno capo gli ordinamenti giuridici dei Paesi dell'Europa continentale e dell'America Latina) è quello anglo-americano, che oggi interessa (compresi i Paesi già o ancora appartenenti al Commonwealth britannico) una popolazione di ca. 800 milioni d'individui. L'elemento unitario degli ordinamenti di questi popoli è dato dalla loro comune matrice costituita dalla Common Law, che venne sviluppandosi in Inghilterra dopo la conquista normanna (sec. XI) e che si differenzia dalla base romanistica (Civil Law) per i concetti, le strutture, gli istituti fondamentali e le fonti. La Common Law o diritto comune si sostituì ai diritti locali precedenti e si costituì come “giustizia del re”, a cui tutti potevano fare ricorso nel Paese intero, ben distinta da ogni altra fonte di diritto a carattere particolare. I rimedi proposti dal diritto comune furono consacrati in brevi (writs), che segnavano l'inizio di procedimenti giudiziari e che per il loro numero limitato lasciavano al giudice ampio campo di forgiarli e di svilupparli. Da un punto di vista tecnico i brevi erano emanati dalla Cancelleria, ma, dopo lo Statuto di Westminster (1285), tale diritto venne limitato lasciando un campo ancora maggiore ai giudici, che ebbero facoltà di ampliare e modernizzare i rimedi già esistenti secondo le nuove necessità. Su questa base della Common Law e per i casi in cui essa presentava lacune si originò un corpo separato di regole, che costituirono l'istituto dell'equity, emanante dalla Cancelleria e riconducente il caso al diritto comune o a una nuova obbligazione, che a esso si sovrapponeva. L'equity non era però un mezzo per aggirare le difficoltà della Common Law, ma piuttosto uno strumento per farla applicare e in questo caso aveva mezzi più efficaci, perché dove la Common Law chiamava in causa la sola responsabilità del soggetto, la equity gli imponeva di assolvere alla sua obbligazione. Specialmente all'inizio non mancarono tra le due fonti del diritto vivaci contrasti, ma essi si assopirono nella misura in cui l'equity cercava un collegamento con la Common Law contribuendo all'espansione dei suoi limiti. Tale felice collaborazione si ebbe nel corso del sec. XVII, ma in processo di tempo l'equity, che veniva esercitata dal cancelliere, assistito da tre giudici, s'irrigidì in precisi istituti e non ebbe più legami con il diritto comune. Si cercò dapprima di ovviare con riforme parziali e finalmente nel 1873 si procedette alla fusione dei due sistemi in uno solo attribuendo a ogni tribunale la facoltà di applicare l'equity tutte le volte che insorgeva un conflitto con la Common Law. Veniva così ulteriormente allargata la competenza del giudice, che ormai poteva intervenire in entrambi i campi, anche se la sua azione doveva contenersi entro i limiti di sentenze precedenti. Da quanto detto emerge che caratteristica fondamentale del diritto anglo-americano è la sua intrinseca storicità; esso deve la genesi dei suoi istituti non a un'elaborazione dottrinale, ma all'esperienza viva del processo. È quindi un diritto essenzialmente giurisprudenziale, i cui principi s'identificano con quelli delle decisioni giudiziarie, anche là dove esiste una previsione legislativa. A differenza di quello inglese il diritto statunitense usa più largamente dello Statute Law, ma anche questo acquista valore solo attraverso l'elaborazione delle regole espresse dalla giurisprudenza, la quale rimane per entrambi i Paesi l'elemento primo di produzione del diritto. § Branche principali del diritto sono: aeronautico, agrario, amministrativo, bizantino, canonico, civile, commerciale, comparato, comune, costituzionale, ecclesiastico, finanziario, industriale, internazionale, del lavoro, militare, della navigazione, penale, processuale, romano.

Sociologia

Il pensiero sociologico si è già con M. Weber interrogato circa il rapporto fra diritto e trasformazioni sociali, considerandolo il più efficace strumento formale del controllo quando – venuti meno i vincoli comunitari di tipo primario – si pone il problema di norme e sanzioni di carattere impersonale e valore universale. Così, se alcuni studiosi si sono concentrati sulla relazione fra diritto e valori fatti propri da una società, numerosi altri hanno cercato di indagare il significato e il rilievo sociale del diritto prescindendo da qualsiasi superiore sistema di principi. È questa l'ispirazione della cosiddetta scuola positivistica, sin da quando, ai primi dell'Ottocento, J. Austin elaborò la sua giurisprudenza analitica che – opponendosi al vecchio giusnaturalismo – considerava il diritto in quanto sistema dotato di una logica autonoma, peculiare e compiuta. Questo approccio trova in anni più recenti un importante sviluppo in H. Kelsen e nella sua dottrina pura del diritto che, affermando il primato della norma e la sua sostanziale autonomia, si oppone alla concezione marxiana del diritto borghese come astratto riconoscimento dell'eguaglianza e concreto strumento di tutela dei privilegi della classe dominante. I principi di H. Kelsen hanno però nei fatti rappresentato un prezioso riferimento per la tutela dei diritti civili minacciati dai regimi autoritari e totalitari. Di rilievo anche la lettura dinamica che del diritto propone F. Oppenheimer, secondo cui esso sarebbe il frutto sempre provvisorio degli equilibri e dei compromessi prodotti dal conflitto per il potere che attraversa gruppi e classi nelle società complesse.

Bibliografia

F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Padova, 1940; F. Lopez de Onate, L'ordinamento del diritto, Roma, 1942; S. Romano, L'ordinamento del diritto, Firenze, 1945; P. Roubier, Théorie générale du droit, Parigi, 1946; N. Bobbio, Teoria della scienza giuridica, Torino, 1950; G. Del Vecchio, La giustizia, Roma, 1951; H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 1952; L. Strauss, Natural Right and History, Chicago, 1953; F. Carnelutti, Discorsi intorno al diritto, Padova, 1953; idem, Il fine del diritto, Firenze, 1955; U. Scarpelli, Il problema della definizione e il concetto del diritto, Milano, 1955; G. Gurvitch, Sociologia del diritto, Milano, 1957; H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1959; G. Auriti, Il valore del diritto, Chieti, 1988.

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