ermenèutica

sf. [sec. XVIII; dal greco hermēneutikḗ (téchnē), (arte) dell'interpretazione]. Esame del fenomeno dell'interpretazione, considerato come problema del rapporto fra lettore e testo, con particolare riferimento alle possibilità e alle condizioni per avvicinare testi di epoche differenti, affrontando così la questione generale della comunicazione tra personalità ed epoche diverse. Nella filosofia contemporanea, il problema è stato impostato in particolare da Schleiermacher e quindi sviluppato da Dilthey, diventando poi uno dei temi principali della riflessione esistenzialistica, che è giunta, con Heidegger, a riconoscere la struttura ermeneutica di tutta l'esistenza umana. Ma il filosofo che più di ogni altro ha insistito sulla centralità dell'ermeneutica è Gadamer, allievo di Heidegger. In Verità e metodo. Lineamenti di un'ermeneutica filosofica (1960), Gadamer si richiama alla tradizione romantica e classica, da Schleiermacher a Humboldt e Hegel, allo storicismo di Dilthey, al neokantismo della scuola di Marburgo, ma anche al pensiero fenomenologico di Husserl e soprattutto a quello ontologico di Heidegger. Gadamer dà a questo ordito di riferimenti filosofici un esito unitario, orientandoli nella struttura universale del comprendere. Per Gadamer comprendere, interpretare sono caratteri del tutto originari dell'esperienza umana. Nell'interpretare l'uomo non solo si esprime, ma realizza la sua umanità, definisce il suo legame con il passato, ma anche con il mondo attuale e con gli altri. L'ermeneutica indica dunque “il movimento fondamentale dell'esistenza, che la costituisce nella sua finitezza e nella sua storicità, e che abbraccia l'insieme della sua esperienza nel mondo”, come scrive lo stesso Gadamer in Verità e metodo. Per l'ermeneutica biblica, vedi Bibbia, interpretazione della-.

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