Lessico

sf. [sec. XVIII; dal greco áisthētikḗ (téchnē), (dottrina) del sensibile]. Scienza del bello. Per estensione, bellezza, aspetto armonioso.

Arte e filosofia

Come scienza filosofica del bello, il termine fu usato per la prima volta da A. Baumgarten, sulla base della filosofia leibniziana, per la quale la bellezza è il grado più alto della conoscenza sensibile, ancora “confusa”, per quanto non più “oscura” come la mera sensazione, ma già “chiara”, sebbene non ancora “distinta” come la conoscenza intellettiva. Da allora il termine si è esteso alla filosofia del bello, anche nei casi in cui la bellezza viene concepita senza alcun riferimento al sentire, si tratti della sensazione, come nel leibnizianesimo, o del sentimento, come nel romanticismo; e si riferisce a ogni tipo di bellezza, sia a quella dell'arte, sia a quella della natura, sia a quella puramente intellettuale o addirittura sovrasensibile. Questi diversi tipi di bellezza non sempre vennero concepiti sotto uno stesso titolo: nell'antichità classica la teoria dell'arte e la dottrina del bello erano nettamente distinte, giacché la prima riguardava un “fare” (poieîn) consistente soprattutto nell'imitazione e avente per fine la “perfezione”, mentre la seconda aveva per oggetto la bellezza sovrasensibile, di cui i vari gradi del bello sensibile e intellettuale non sono che semplici riflessi, intesi ad accendere nell'anima l'“amore” (éros) per il bello assoluto. Donde per un verso la dottrina aristotelica della “poetica” e per l'altro la teoria platonica dell'amore, che sono le due espressioni più salienti dell'estetica antica. Solo nella tradizione platonica si trova un nesso fra la teoria dell'arte e la dottrina della bellezza, nel senso che l'entusiasmo o “furore” del poeta che produce l'opera d'arte è avvicinato all'amore reso fecondo dalla bellezza assoluta che esso contempla. Il Medioevo continua a mantenere distinti i due campi e da una parte limita l'arte a una produzione comandata da regole ben tracciate, definite dalla poetica e dalla retorica, e dalle varie artes dictandi, raffinatissime e complesse precettistiche di versificazione, e dall'altra parte preferisce ampliare la dottrina del bello estendendo il mondo dei segni e dei simboli, rinvianti tutti all'Essere assoluto che è, insieme, verità, bene e bellezza. Il Rinascimento, se per un verso continua e approfondisce la teoria classica dell'arte come imitazione, moltiplicando le poetiche e i commenti alla Poetica di Aristotele per l'altro verso sottrae le arti non liberali, come l'architettura, la scultura e la pittura, al novero delle arti servili, annettendole al regno della bellezza, ormai incontrastato dominio dell'amore, dell'entusiasmo e del furore poetico. Si apre così la via all'unione dei due aspetti, che sarà operata definitivamente dalla rivoluzione romantica, in ciò preparata dalle varie teorie seicentesche e barocche della produzione artistica come opera dell'immaginazione, della fantasia, dell'ingegno, e culminante nella concezione dell'arte come piena espressione del sentimento e prima rivelatrice della verità, cioè come opera del “genio” che agisce solo per ispirazione ed è il solo creatore della bellezza. Dalla definizione kantiana del genio come della “facoltà per cui la natura dà la regola all'arte” deriva quella grande esaltazione dell'arte che è stato il Romanticismo in generale e quel particolare primato che l'idealismo tedesco ha conferito all'estetica. Dalla dissoluzione della sintesi romantica discendono i contemporanei movimenti artistici ed estetici, nuovamente volti a separare arte e bellezza, col programma di conferire al fare artistico quella funzione di rottura e d'innovazione che l'ideale della bellezza sembra incapace di fornire al mondo odierno. Di qui le avanguardie, che conferiscono espressamente all'arte funzioni che essa tradizionalmente non si assumeva: suprema e completa forma di conoscenza, nuova ed esclusiva forma di religiosità, programmi d'azione pratica, protesta politica, ecc. Le definizioni più famose dell'arte si possono ridurre a tre: l'arte è concepita ora come un fare, ora come un conoscere, ora come un esprimere. Nell'antichità prevalse la prima: l'arte fu intesa come téchnē, come un fare in cui era esplicitamente o implicitamente accentuato l'aspetto realizzativo, esecutivo, manuale; ma il pensiero antico poco si preoccupò di teorizzare la distinzione fra l'arte propriamente detta e il mestiere o la tecnica dell'artigiano. Col romanticismo prevalse la terza, che fece consistere la bellezza dell'arte non nell'adeguazione a un modello o a un canone esterno di bellezza, ma nella bellezza d'espressione, cioè nell'intima coerenza delle figure artistiche col sentimento che le anima e le suscita. E in tutto il corso del pensiero occidentale compare anche la seconda concezione, che interpreta l'arte come conoscenza, visione, contemplazione, in cui l'aspetto realizzativo ed esecutivo è secondario se non superfluo, intendendola ora come la forma suprema ora come la forma infima della conoscenza, ma in ogni caso come visione della realtà, o della realtà sensibile nella sua piena evidenza, o d'una realtà metafisica superiore e più vera, o d'una realtà spirituale più intima, profonda ed emblematica. Queste tre diverse concezioni ora si contrappongono e si escludono fra loro, ora invece si alleano e si combinano variamente; ma in definitiva rimangono le tre definizioni principali dell'arte, che ricorrono costantemente nella storia del pensiero e i cui lineamenti o residui permangono ancora in tutta evidenza nella crisi odierna.

Cenni storici: dall'età antica al Medioevo

I primi a discutere sul significato dell'arte furono i pitagorici, ma non si hanno testimonianze sicure. Dalla teoria di armonia del cosmo, basata, come negli accordi musicali, sulla teoria di rapporti numerici fissi, si passa ai concetti platonici, dove l'arte non è imitazione del sensibile, ma interpretazione dell'idea immortale, astratta dalla concezione del tempo. Nel libro X della Repubblica, tuttavia, Platone condanna l'arte come invenzione di cose che stimolano alla leggerezza morale, mentre la esalta quando nasce dall'artista autentico che dev'essere insieme sacerdote del bello e del vero (si vedano Ione, Convito, Leggi). I problemi dell'estetica si ritrovano tutti nel suo pensiero: rapporto tra il vero e il bello, imitazione, necessità di aderire al mondo ideale. Con Aristotele l'imitazione è principio di conoscenza e di purificazione (si veda la sua Poetica) e sono valide solo quelle attività artistiche che hanno come fine l'evasione verso la verità. Ispirazione e preparazione per raggiungere i fini dell'arte, questo è il tema che interessa tutta la romanità. Intanto Plotino torna sul tema dell'armonizzazione del vero, del bello e del buono, reinserendosi nella fonte suprema di ogni conoscenza: Dio; Sant'Ambrogio riconosce bello ciò che Dio ha creato (Esamerone), Sant'Agostino ripropone la concezione di mutua corrispondenza tra i numeri che esprimono l'ordine ideale della creazione e i numeri che presiedono all'organizzazione delle opere dell'artista (De libero arbitrio). E mentre il Medioevo riprende il concetto di ispirazione e di studio per dare forma al concetto creativo, San Tommaso parla della Claritas come della contemplazione di un'opera prodotta secondo armonia e unità (Summa Theologica, 1266-74) e Dante vede nell'arte l'imitazione della Natura, che è figlia di Dio.

Cenni storici: il Rinascimento

È il Rinascimento a uscire da queste concezioni mistiche. Con Leonardo siamo nell'intuizione di quella che sarà l'arte astratta, creazione della fantasia e non ispirazione del reale: la logica della mente contrapposta alla logica delle cose. L'artista diventa, nella creazione, “similitudine” di mente divina. G. Bruno aggiunge che ogni artista è disciplinatore di se stesso, nettamente staccandosi da Scaligero (Poetica, 1561, ripensamento e discussione della Poetica aristotelica, che pur servì a diffondere in Francia i risultati del pensiero speculativo rinascimentale italiano e ispirò l'arte poetica di Boileau), da Castelvetro (Poetica d'Aristotile vulgarizzata et sposta, 1570), da Fracastoro (Naugerius sive de Poetica, 1553, edizione 1555), da Patrizi (Poetica, 1586) e dallo stesso Campanella (Poetica, iniziata nel 1596), i quali tutti invece segnarono un superamento o un rinnegamento dell'assunto aristotelico, senza tuttavia rinunciare alle tradizioni platoniche.

Cenni storici: l'età moderna e contemporanea

Se con G. Bruno si entra di colpo nella storia del pensiero moderno, il Seicento e il Settecento sono i secoli dei “distinguo”, con analisi della fantasia, dell'ingegno e dell'immaginazione per stabilire l'ascendenza dell'arte, e bisogna giungere a G. B. Vico per trovare una netta posizione in cui il filosofo vede nella poesia il momento primo dello spirito, creatore delle cose che nomina al di fuori delle distinzioni razionali (Scienza nuova, 1725; Scienza nuova seconda, 1744). Siamo ormai alla vigilia del momento in cui il termine estetica come dottrina dell'arte viene introdotto da A. G. Baumgarten (Aesthetica, 1750-58) e il suo pensiero influenzerà Croce. Kant, da parte sua, con la Critica del giudizio (1790), indica nel “genio” il tramite di una rinnovata comunione con la natura. F. W. J. Schelling nel Sistema dell'idealismo trascendentale (1800) fa confluire nell'arte ragione e sentimento, ideale e reale in unità creatrice. Per Hegel l'arte diventa l'intuizione dell'infinito nel finito durante il momento estetico, ma non è ancora conoscenza, ciò di cui solo la filosofia è capace (Fenomenologia dello spirito, 1807, Estetica, 1836-38). Schopenhauer riconosce la priorità della filosofia nella conoscenza e vede nella contemplazione estetica la liberazione dalle sofferenze con la partecipazione all'idea del bello universale. Oltre la sintesi romantica, l'estetica diventa, sul finire del secolo scorso, oggetto delle scienze sperimentali. H. Taine con Filosofia dell'arte (1865) segna la nascita dell'estetica sociologica, mentre G. Th. Fechner con Preparazione all'estetica (1876) e S. Freud con i suoi Saggi sull'arte e La letteratura e il linguaggio danno vita all'estetica psicologica. Croce, dal canto suo, pochi anni dopo pone e discute tutti i problemi dell'arte: arte e filosofia, intuizione ed espressione, storicità e astoricità dell'arte, arte e morale, critica e storia dell'arte, arte e letteratura, in Estetica (1902); definisce anche l'arte come una forma di conoscenza, tuttavia distinta dalla conoscenza logica e filosofica, diventando il suggeritore delle numerose dottrine di filosofia estetica. Gentile vede nell'arte un modo dello spirito. G. A. Borgese, A. Aliotta, U. Spirito, G. Gall e V. F. Allmayer aderiscono a questo idealismo estetico che ha illustri sostenitori in esistenzialisti come Kierkegaard, Jaspers e Abbagnano, mentre si professano per un problematicismo estetico G. Rensi, A. Banfi, S. Tissi e altri. Per le correnti marxiste si può invece parlare di realismo estetico e addirittura, in alcune, di identificazione dell'arte con la prassi politica (W. Benjamin nei saggi raccolti col titolo Angelus novus, edizione italiano 1962) o con l'ideologia in cui la struttura prende coscienza di sé (G. Lukacs, in Estetica, 1963). Per lo strumentalista J. Dewey l'arte è esperienza che si ordina da sé secondo un fine che le è immanente (Arte come esperienza, 1934). Infine, per l'esistenzialismo, l'arte ha la capacità di investire integralmente l'esistenza dell'uomo e rende operante la verità, schiudendo un nuovo orizzonte dell'essere, come sostiene Heidegger in Sentieri interrotti (1950). A partire da questi esiti estremi della riflessione novecentesca sull'arte, più di un interprete ha sostenuto il “tramonto dell'estetica”, dovuto al fatto che l'arte non ha più bisogno di essere giustificata, traendo da se stessa le proprie condizioni di possibilità. Lo sviluppo delle discipline artistiche, nel corso del sec. XX, e in particolare nella seconda metà, non necessita più di quell'appendice riflessiva che è appunto l'estetica. Scrive, a conclusione della sua Storia dell'estetica (1988), Sergio Givone: “c'è chi nel tramontare dell'estetica ha visto anzitutto la necessità di risolvere decisamente l'estetica nelle scienze dell'interpretazione delle singole arti (critica letteraria, musicale, ecc.) o nelle scienze positive a esse applicate (psicologia dell'arte, sociologia dell'arte, ecc.). C'è invece chi ha inteso quel tramontare come un assecondare (e un lasciarsi trasportare da) la vicenda in un certo senso sempre tramontante delle correnti, delle scuole, degli stili, insomma delle proposte che l'arte continuamente avanza e lascia cadere”. A cavallo tra il XX e il XXI secolo si assiste a una rinascita delle riflessioni filosofiche relative all'estetica. J.L. Nancy in Le Muses (1994; Le Muse) affronta la questione nodale del perché ci siano più arti e non una sola: l'opera d'arte, nel darsi in una singolarità, lascia affiorare dal suo stesso interno un numero molteplice di possibili, che le vietano di rinchiudersi in una definizione assoluta. Taluni, tuttavia, come J. M. Schaeffer nel saggio Adieu à l’estétique, (2000; Addio all'estetica) hanno negato che possa ancora esistere e quindi rinascere una dottrina estetica in se medesima, pensata e strutturata come una teoria filosofica che fondi il concetto di bello.

Estetica musicale

Non è possibile parlare di uno sviluppo autonomo dell'estetica musicale prima del Settecento. Il pensiero illuministico che impostò su basi scientifiche lo studio delle leggi inerenti al linguaggio musicale, sottraendolo alle perduranti remore metafisiche, è alla base della generale rivalutazione della musica nella cultura romantica. Il Romanticismo ridiede alla musica il primo posto nella tradizionale gerarchia delle arti, considerandola il linguaggio dell'assoluto e il vertice delle possibilità espressive dell'uomo. Esso pose inoltre le premesse con E. Hanslick, che si ricollegava al formalismo herbartiano, per un'analisi del linguaggio musicale, prescindendo da ogni suo aspetto eteronomico, al limite anche dalle sue capacità espressive. Questo indirizzo, cui si ricollegò la Musikwissenschaft germanica e anglosassone, è stato alla base di molti sviluppi delle poetiche e delle estetiche del Novecento (per esempio, G. Brelet, B. de Schloezer, S. Langer, L. Mayer), arricchendosi anche degli apporti della psicologia della forma e delle indagini sul linguaggio della musica contemporanea operate spesso dagli stessi compositori (Schönberg, Webern, Hindemith, Stravinskij, Cage, Stockhausen, Boulez, Pousseur, ecc.). Una caratteristica dell'estetica musicale del sec. XX è la varietà dei presupposti metodologici. Se in Italia l'estetica musicale è stata per lungo tempo legata all'idealismo crociano (cosa che non ha precluso la nascita di indirizzi diversi, come la prospettiva marxista-fenomenologica di L. Rognoni), altrove sono prevalse altre metodologie: da quella sociologica di Th. W. Adorno a quelle fenomenologiche (seppure divergenti) di R. Leibowitz ed E. Ansermet, alle prospettive strutturalistiche di C. Lévi-Strauss (Il crudo e il cotto). Un elemento comune è tuttavia ravvisabile nello sforzo che a ogni livello ha sollevato, a partire dagli inizi del Novecento, la crisi del linguaggio musicale europeo.

Per la filosofia

B. Croce, L'estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Bari, 1902; R. Bayer, Histoire de l'esthétique, Parigi, 1961; W. Tatarkiewicz, Historia Estetiky, Varsavia, 1962; M. C. Beardsley, Aesthetics from Classical Greece to the Present, Londra-New York, 1966; L. Bonesio, La ragione estetica, Milano, 1990.

Per la musica

G. Brelet, Esthétique et création musicale, Parigi, 1947; M. Mila, L'esperienza musicale e l'estetica, Torino, 1950; J. Portnoy, The Philosopher and Music. A Historical Survey, New York, 1954; E. Fubini, L'estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino, 1964; D. Fornasiero, Elementi di estetica musicale, Roma, 1983.

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