Lessico

agg. e sm. [sec. XIII; latino Latīnus, da Latíum, Lazio].

1) Agg., del Lazio antico, degli antichi Romani: il popolo latino; le città latina; la lingua, la civiltà latina; il mondo latino, quello conquistato dai Romani. In particolare, che riguarda la lingua parlata dagli antichi Romani: grammatica, sintassi latina; le declinazioni latine.

2) Per estensione, relativo ai popoli che sono eredi della civiltà degli antichi Romani; neolatino: i Paesi germanici e quelli latini; il temperamento latino; la Sorella latina, la Francia, rispetto all'Italia; America Latina, l'America Centrale e Meridionale, in quanto colonizzata dagli Spagnoli e dai Portoghesi, popoli neolatini; quartiere latino, a Parigi, il quartiere dove hanno sede gli istituti universitari. In particolare: Chiesa latina, divisione territoriale della Chiesa cattolica che fa capo al vescovo di Roma come a suo patriarca. Per questo la Chiesa latina, od occidentale, è detta anche romana. Da quando la Chiesa greca si separò da Roma (1054), Chiesa latina indicò semplicemente Chiesa cattolica, in quanto Roma rivendicava a sé tale attribuzione. Il significato attuale del termine, pur conservando il sottinteso di cattolicità, non indica tanto l'antitesi con la Chiesa orientale “ortodossa”, quanto la distinzione liturgica e in parte giuridica con la Chiesa, anche cattolica, d'Oriente. La Chiesa latina è regolata dal Codex Iuris Canonici e ha due riti, il romano e l'ambrosiano.

3) Ant., italiano. Fig., chiaro, intelligibile; facile: “raffigurar m'è più latina” (Dante).

4) In marina, è detta vela latina la vela di taglio triangolare con il lato prodiero inferito a un'antenna e una scotta che la tesa verso poppa.

5) Sm., abitante, nativo del Lazio antico o dell'antica Roma. Per estensione, la lingua parlata dai Latini, anche considerata nella sua tradizione storica e culturale; l'italiano deriva dal latino; studiare il latino, sostenere un esame di latino. Fig., modo espressivo, linguaggio: “con preciso latin / rispuose” (Dante); scherz.: capire, intendere il latino, comprendere il significato nascosto di una parola o di una frase.

Linguistica: generalità

Il latino è una lingua indeuropea di tipo kentum diffusa nel Lazio, nell'Italia settentrionale, centromeridionale e insulare, nell'Africa settentrionale, in Gallia, in Iberia e nelle regioni balcaniche. I più antichi documenti sono le iscrizioni che si trovano sul cippo del Foro Romano indicato in genere col nome di Lapis Niger e quelle sul vaso di Dueno; altri testi arcaici, di carattere religioso e giuridico, giuntici per tradizione indiretta, sono il Carmen Arvale, il Carmen Saliare, le Leges Regiae e le Leges XII Tabularum. La lingua di questi documenti ha un aspetto notevolmente arcaico e presenta forme sensibilmente differenziate, sul piano fonetico e morfologico, rispetto a quelle del latino classico: così si trova iouestod per iusto (ablativo, giusto), tremonti per tremunt (tremano), aeuitas per aetas (età). Fin dai primi secoli della sua storia linguistica il latino fu particolarmente aperto all'influsso di altre lingue, e in primo luogo di quella etrusca che lasciò tracce sensibili nel lessico latino: parole come balteus (balteo), hister (danzatore, attore, istrione) sono già ritenute di origine etrusca da antichi autori. Attraverso la superiore civiltà etrusca sono penetrate nel latino anche parole di origine greca come amurca (morchia; greco amórgē), spelunca (spelonca; greco spelynga). Particolarmente intensi sono stati anche i rapporti tra il latino e l'osco-umbro, che hanno portato a un reciproco scambio di elementi linguistici: il più sicuro indizio dell'origine osco-umbra di parole latine è costituito dalla presenza delle labiali p, b, da originarie labiovelari (lupus, lupo; bos, bue) e di f all'interno di parola da originari dh e bh (scrofa, scrofa; tofus, tufo). La lingua che in ogni tempo ha esercitato il maggior influsso sul latino è stata però il greco; indizi fonetici permettono di distinguere i prestiti greci più antichi – in cui si riflettono i mutamenti, soprattutto vocalici, avvenuti nei primi secoli della storia linguistica latina come in camera (soffitto a volta) da greco kamára; olea (oliva) da greco eláia – da quelli di epoca più recente. Anzi, sul modello greco comincia a formarsi nel sec. III a. C. la lingua letteraria latina, proprio per impulso di Livio Andronico, originario della colonia greca di Taranto. L'opera intrapresa da Andronico fu continuata e perfezionata da Nevio e soprattutto da Ennio che, essendo originario di Rudiae, si vantava di parlare anche greco e osco. La lingua viene notevolmente arricchita con la creazione di nuovi vocaboli e costrutti atti a soddisfare esigenze espressive sempre più varie e complesse. All'azione uniformatrice esercitata dalla lingua scritta letteraria si affianca l'azione normativa dei grammatici, che spesso sono anche autori di opere letterarie: gli stessi Ennio, Accio e Lucilio si occuparono ripetutamente di questioni grammaticali. Altri grammatici giungono in numero sempre maggiore dalla Grecia e applicano al latino i principi già elaborati per la loro lingua materna, disciplinando soprattutto la prosa che aveva mosso i suoi primi passi con gli annalisti e aveva avuto in M. P. Catone il primo autore di rilievo (il suo Liber de agri cultura è la più antica opera in prosa a noi pervenuta). Alla formazione e al perfezionamento della prosa latina ha notevolmente contribuito anche l'insegnamento delle numerose scuole di retorica che dalla Grecia e dall'Asia ellenizzata furono trapiantate a Roma. La lingua letteraria viene così fissata in schemi e riesce a mantenere una relativa uniformità e stabilità per il prestigio della tradizione, che comporta una fedele imitazione dei grandi modelli classici, e per l'autorità dei grammatici e della scuola. È questa la lingua che viene comunemente definita latino classico, le cui caratteristiche principali sono: la distinzione dei timbri vocalici ; la riduzione del vocalismo delle sillabe interne in i, e per effetto dell'accento intensivo preletterario sulla sillaba iniziale (conficio rispetto a facio, confectus rispetto a factus); lo sviluppo delle originarie liquide sonanti r, l in or, ol e delle originarie nasali sonanti in en, em; il passaggio di bh e dh iniziali a f; la perdita del numero duale; la formazione di un imperfetto e di un futuro in -b- (amabam, amabo); la coniugazione passiva e deponente in -r (amor, sequor). La lingua parlata invece segue la sua evoluzione che può variare in rapporto alle diverse situazioni storiche e ai diversi ambienti sociali: gli autori latini contrappongono pertanto al sermo urbanus un sermo rusticus, un sermo cotidianus, un sermo familiaris, un sermo plebeius. Lo stesso Cicerone in alcune sue epistole familiari si esprime in una lingua più popolare e sensibilmente diversa da quella usata nelle orazioni e nelle opere retoriche e filosofiche. La lingua parlata, cioè il latino volgare, si differenzia sempre più dalla lingua letteraria; le più importanti caratteristiche fonetiche del latino volgare sono: spostamento di accento (íntegrum>întégrum, intero), sincopi di vocali atone (calidus >caldus, caldo), risoluzioni delle antiche opposizioni vocaliche quantitative in opposizioni qualitative (í ē>e chiusa, ĕ>e aperta, ŭ ō>o chiusa, ŏ>o aperta, ī e ū restano i e u), monottongazione dei dittonghi (haedus>edus, capretto), palatalizzazione di c e g davanti a e e i, e assibilazione di t e d avanti i più vocale (Laurentius>Laurentsius), spirantizzazione di -b- intervocalico (debere>devere, dovere) e, infine, sonorizzazione delle sorde intervocaliche (fricare>frigare, sfregare). Le principali caratteristiche morfologiche del latino volgare sono: la progressiva scomparsa del genere neutro, il passaggio dei nomi della V declinazione alla I e della IV alla II, il comparativo formato con gli avverbi plus o magis, lo sviluppo di forme perifrastiche nella flessione verbale (cantare habeo invece di cantabo, canterò). Il latino volgare fu diffuso dai soldati, dai mercanti e dai coloni in gran parte dell'Impero romano e andò assumendo caratteri diversi secondo le regioni e l'epoca in cui fu trapiantato; da queste varietà regionali si sono sviluppate le lingue romanze. Il cristianesimo agì positivamente sul latino favorendo la penetrazione di elementi volgari nella lingua delle classi superiori e avvicinando la lingua letteraria a quella del popolo; per i suoi nuovi bisogni espressivi attinse specialmente dal lessico greco (angelus, angelo; diabolus, diavolo; ecclesia, chiesa), ma a volte utilizzò anche vocaboli latini usandoli in una nuova accezione (sacramentum che in latino classico significava “giuramento” prese così il valore religioso di “sacramento”). Il latino non fu solo la lingua ufficiale della Chiesa cattolica fino ai nostri giorni, ma fu anche la lingua amministrativa, diplomatica e notarile dell'alto Medioevo prima che si affermassero le nuove lingue romanze, e la lingua della cultura e della scienza in quasi tutta l'Europa occidentale.

Linguistica: alfabeto latino

È derivato da un alfabeto greco occidentale usato nelle colonie dell'Italia meridionale, e probabilmente dall'alfabeto calcidico di Cuma: ne è una prova il fatto che alcune lettere, che avevano diversi valori fonetici negli alfabeti greci occidentali e in quelli orientali, sono state assunte nell'alfabeto latino col valore fonetico degli alfabeti greci occidentali (H negli alfabeti greci occidentali h in quelli orientali ē, X negli alfabeti greci occidentali ks in quelli orientali kh). Per alcune lettere dell'alfabeto latino bisogna poi ammettere una mediazione etrusca: così il gamma greco (C negli alfabeti occidentali, Γ in quelli orientali) è stato usato dapprima in latino non solo per la velare sonora g ma anche per la sorda c per influsso dell'etrusco. Essendo estranea al sistema fonetico latino la serie delle consonanti aspirate, i segni greci di queste consonanti furono utilizzati in latino come sigle numeriche: per esempio θ=th in greco divenne in latino C=100 (per influsso dell'iniziale di centum). Viceversa per suoni latini che non avevano corrispondenza in greco antico, l'alfabeto latino adottò segni greci con diverso valore fonetico: così il digamma greco F fu assunto in latino, in un primo tempo anche accompagnato col segno H, per rappresentare il suono f. La lettera Z indicava la sibilante sonora in posizione intervocalica, ma quando questo suono nel sec. IV a. C. si trasformò in r il segno Z divenne superfluo e fu eliminato. Fu reintrodotto alla fine dell'epoca repubblicana, insieme col segno Y, per trascrivere le parole greche. Ennio introdusse l'innovazione, che si ispirò al modello greco, di scrivere doppie le consonanti geminate originariamente scritte con una consonante semplice (fuisse invece di fuise). L'alfabeto latino, già diffuso dai Romani in gran parte delle province conquistate, fu introdotto dai missionari cristiani presso le popolazioni germaniche, che usavano precedentemente l'alfabeto runico, e in parte anche presso le popolazioni slave.

Letteratura: dalle origini al secolo I a. C

Passano cinque secoli della storia di Roma senza il nome di un suo autentico scrittore. Sorta la città nel sec. VIII a. C., retta a monarchia sino al termine del sec. VI, in quei primi tempi è sensibile, nei monumenti archeologici, l'influsso degli Etruschi, stanziati a nord e nella valle stessa del Tevere, e dei Greci, che avevano disposto una serie di colonie nell'Italia meridionale e che possedevano da tempo una letteratura assai evoluta. Di quei secoli si hanno alcuni documenti linguistici, in un primitivo latino. Restano poi notizie indirette e frammenti di carmi cantati in varie occasioni, soprattutto religiose: il carme dei sacerdoti Salii e Arvali, quelli recitati nei banchetti, alcuni di tema epico; di testi prosastici si hanno le Leggi delle Dodici Tavole e notizie dei Libri dei pontefici e di elogi funebri. Su un altro livello, popolare, si pone fin dall'inizio il teatro, in cui fiorirono alcuni tipi di farsa, quali le atellane, di origine osca, basate su maschere fisse, e i fescennini, di origine etrusca, con invettive mordaci e licenziose scambiate fra contadini. Solo nel sec. III, durante l'età delle guerre puniche, apparvero le prime personalità di poeti, nell'epica e nel teatro. Primo è Livio Andronico (ca. 284-ca. 204 a. C.), un greco di Taranto condotto schiavo a Roma e lì divenuto maestro, autore di una traduzione dell'Odissea in versi saturni (il misterioso verso, forse di natura accentuativa, allora in uso), di tragedie e di commedie di tipo greco. Il senso della presenza di Andronico in capo alla letteratura latina è proprio quello di sottolineare l'intervento costante in essa, e sempre più forte, dell'esperienza greca; con questa contrastarono elementi indigeni (il senso della tradizione e dello Stato, la fattività realistica, il legame con la terra), ma il prestigioso modello non fu mai inoperante. L'italicità e l'eroismo della nazione romana ispirarono subito dopo Andronico un'altra, più netta personalità, quella di Gneo Nevio (ca. 270-ca. 200), combattente nella I guerra punica, spirito indipendente e vigoroso. Sulla I guerra punica verteva il suo poema Bellum Poenicum, pure in saturni, e fra le sue tragedie due erano di argomento romano (dette praetextae) anziché d'ispirazione greca; così pure, oltre a commedie modellate su esemplari greci (palliatae), Nevio ne scrisse di ambiente romano (togatae). Pochi frammenti rimangono di Andronico e di Nevio, mentre è giunto quasi per intero il grande teatro comico di Plauto, primo genio autentico della letteratura latina; 21 sono le commedie giudicate autentiche dalla critica posteriore fra le 130 a lui attribuite, dove i succhi della comicità italica e le possibilità ormai evolute della lingua latina si associano a un'inventiva linguistica e scenica rimasta ineguagliata a Roma. Si noti anzi che il teatro romano ha avuto una straordinaria fioritura in questi primi due secoli, per poi inaridirsi quasi completamente. Tito Maccio Plauto (ca. 255-184) giunse a Roma dalla natia Sarsina, in Umbria, fu schiavo per debiti e impresario teatrale, ebbe un successo di pubblico strepitoso; entro schemi piuttosto fissi e già propri della commedia nuova greca, di età alessandrina (un giovane ricco che vuole sposare una fanciulla povera malgrado l'opposizione di un padre burbero, e vi riesce grazie alle astuzie di un servo e con la scoperta dei buoni natali della sposa), erano portati sulla scena gli istinti e il mondo della plebe, le furberie, gli spassi, i contrasti di un popolo composito e vivace. Ma il poeta li arricchiva di trovate verbali, di squarci metrici (i suoi famosi cantica, brevi intermezzi cantati) e di una lingua che Varrone giudicherà tra le più ricche e pure di tutta la letteratura latina. Contemporaneamente si organizzava a Roma la prosa storica, con alcuni annalisti che narrarono in greco le vicende della città dalle origini ai loro tempi. Ben presto un nuovo indirizzo letterario venne delineato da un altro poeta, Quinto Ennio (239-169 a. C.), con cui si pose in modo più evidente il problema del rapporto di questa cultura giovane con quella più evoluta di Grecia. Ennio, tarantino, di Rudie, descrisse la storia di Roma in un poema epico, Annales: ispirandosi esplicitamente a Omero, vi introdusse elementi interpretativi tratti dalla filosofia greca, e riprodusse la metrica – quantitativa – del greco nel verso esametro (“di sei misure”), rimasto stabilmente dopo di lui come il verso eroico dei Latini. Anche le tragedie di Ennio erano chiaramente ispirate al teatro di Euripide e una serie di opere minori segnalavano i suoi vasti interessi culturali. Di tutto non restano che numerosi e talora ampi frammenti. Sulle sue tracce la tradizione teatrale fu continuata nel genere tragico da Pacuvio (ca. 220-ca. 130 a. C.) e nel comico (commedia palliata) dall'insubro Cecilio Stazio (ca. 230-ca. 166 a. C.), fino ad assumere più decisi toni grecizzanti con l'altro grande comico, Terenzio (ca. 185-ca. 159) . Egli, schiavo africano poi liberato, fu il portavoce, vero o fittizio, dell'ambiente ellenizzante che si raccoglieva a Roma intorno alla nobile famiglia di Scipione Emiliano; perciò fu fatto oggetto di ogni critica e denigrazione da parte dei più ostinati nazionalisti. In particolare lo avversò il conservatore Marco Porcio Catone il Censore (234-149), figura per conto suo assai vigorosa e prosatore di grande efficacia nella sua secchezza (orazioni, un'opera di storiografia, trattati tecnici). In effetti, le rappresentazioni delle 6 commedie di Terenzio non furono molto gustate dal popolino di Roma ma rimangono come il frutto purissimo di una civiltà artisticamente ormai evoluta, di un animo delicato e sensibile verso il suo prossimo, di un fine osservatore della psicologia umana. Il periodo successivo fu più ricco di manifestazioni letterarie, ma più povero di personalità geniali. Comprende l'età caratterizzata politicamente dai convulsi tribunati dei Gracchi, dalle guerre contro i Cimbri e i Teutoni, dai contrasti fra Mario e Silla e infine dalla dittatura di quest'ultimo, sino al 79 a. C. Esaurita l'epopea, il teatro continuò, ma già con una certa stanchezza, con le tragedie di Accio (ca. 170-ca. 84), con le commedie di Turpilio, di Atta e di Afranio (ca. 160-ca. 90) e con le atellane di Novio e di Lucio Pomponio. Andò acquistando se mai una validità letteraria lo spettacolo, destinato a grandi fortune in Roma, del mimo, a opera di Publilio Siro e di Decimo Laberio; ed entrò tra i veri generi letterari quello tutto romano della satira, “satura... tota nostra est”, come ebbe a dire Quintiliano, componimento poetico in esametri di tipo moralistico, che aveva forse dei precedenti in una satura arcaica, ma che solo ora si affermava con Gaio Lucilio (180-102), nativo di Sessa Aurunca, autore di un'ampia raccolta di poesie dal tema vario (autobiografiche, descrittive, di critica di costume e politica) intitolata appunto Saturae: ne rimangono ca. 1300 versi. Il clima di libertà e di lotta promosse in questi decenni una grande fioritura della prosa oratoria, dove si segnalarono, campioni delle rivendicazioni popolari, i fratelli Tiberio e Gaio Gracco, morti rispettivamente nel 133 e nel 121 sotto i colpi della reazione nobiliare; e più tardi Marco Antonio e Licinio Crasso, che incarnarono, nei decenni fra i sec. II e I, i due indirizzi dell'oratoria, quali si erano venuti stabilendo in Grecia nel corso del sec. IV, e poi sempre dominanti e contrastanti: l'indirizzo asiano, dai toni grandiosi, artificiosi, patetici, e quello atticista, semplice, elegante, razionale. La retorica ebbe una codificazione critica in un trattato a noi giunto anonimo e dedicato a un certo Erennio (Rhetorica ad Herennium). Accanto a esso vanno ricordati i primi cultori della filologia, promossa a Roma dal soggiorno del grande filologo greco Cratete di Mallo verso il 160 a. C. Suo maggior rappresentante fu Lucio Elio Stilone (150 a. C.-ca. 90 a. C.) studioso di Plauto e della latinità arcaica; mentre la storiografia vide l'esaurirsi dell'annalistica, la diffusione dei racconti autobiografici e i primi veri storici, quali Lucio Cornelio Sisenna (m. 67 a. C.). Di tutti questi prosatori, come già dei poeti, non ci restano che esigui frammenti.

Letteratura: il periodo classico

La ricchezza della vita politica e il perfezionamento dei mezzi letterari al contatto, ormai maturato, con la grecità determinarono l'avvento del periodo più splendido della letteratura latina, quello “classico”. Negli scontri tra le classi sociali la Repubblica cede il passo all'Impero; Ottaviano, vinto Antonio nel 31 a. C., instaurò un principato configuratosi rapidamente con i contorni di un vero impero personale e destinato a durare, sotto sovrani di varia statura, tolleranza e tirannide, per cinque secoli. L'età di Cesare e di Augusto fu l'età d'oro delle lettere latine, più mossa negli ultimi decenni della Repubblica, letterariamente più perfetta nei primi dell'Impero. Tra l'80 e il 50 fiorì riccamente la poesia, anzitutto in una cerchia di giovani slegati dalla politica e volti a dar voce ai loro sentimenti d'amore e di amicizia, fortemente lirici da un lato, seguaci delle forme eleganti e dotte della lirica alessandrina dall'altro, in contrasto con la poesia romana arcaica (sono perciò detti poetae novi o neoteroi). Loro maestro era considerato il più anziano Valerio Catone, gallo cisalpino come parecchi di costoro; vanno ricordati anche Gaio Elvio Cinna, Furio Bibaculo, Publio Terenzio Varrone, l'oratore Licinio Calvo e, maggiore di tutti, il veronese Gaio Valerio Catullo (87-ca. 54), l'unico di cui sia giunta l'opera intera. Il liber delle liriche catulliane contiene un gruppo di poemetti eruditidi tipo alessandrino, ma soprattutto i canti d'amore per Lesbia. Catullo fu conquistato, a Roma, dal fascino di questa donna famosa e famigerata (Clodia, sorella del tribuno Publio Clodio). L'amore, la gelosia, le ripulse e i tradimenti, poi le riprese, creano una storia esaltante e straziante: è trasferita in poesia con immediatezza assoluta tutta la vicenda dei rapporti brucianti fra i due, cui si aggiungono solo, altrettanto genuini, i sentimenti dell'amicizia o dell'odio. Catullo è il lirico più moderno – si disse anche “romantico” o “maledetto” – di tutta la letteratura latina. Un'esperienza esistenziale è anche alla base del poema De rerum natura di Lucrezio (ca. 95-ca. 55 a. C.), misteriosa figura contemporanea dei poetae novi, ma appartata in un mondo di scienza e di filosofia. Fu, questa, l'epoca della diffusione in Roma dell'epicureismo (epicurei saranno anche Virgilio e Orazio), e Lucrezio lo predicò come il sistema che spiega l'essenza del mondo (atomi in movimento casuale nel vuoto) e che toglie i timori della vita (la religione e l'immortalità dell'anima). Il fervore predicatorio e l'intensa liricità animano i duri, violenti esametri del poema, prodotto originale della poesia didascalica. Ma questo fu anche un grande momento per la prosa latina. Cicerone (106-43 a. C.) ne divenne allora, e per i secoli a venire, il grande maestro. Provinciale anch'egli, di Arpino, partecipò – come ci testimonia anche il suo ricco epistolario – con varia fortuna e con scarsa coerenza alla vita politica: celebre oratore, debellò, da console, nel 63, la congiura di Catilina, poi si schierò con Pompeo, ottenne il perdono di Cesare e cadde infine sotto i colpi di Antonio. Nel mezzo della politica o nelle pause d'ozio coltivò gli studi; e, più delle numerose orazioni, interessano oggi per il loro valore di esposizione di dottrine filosofiche o retoriche opere come le Tusculanae disputationes,De officiis,De natura deorum, De republica,De legibus e De oratore, Orator, Brutus. Cicerone fu un grande divulgatore della cultura greca, un chiaro, forbito maestro; coi suoi limiti, è pure un nodo capitale nello svolgimento della letteratura latina. L'enciclopedismo fu invece la caratteristica dominante del maggior erudito del tempo, Marco Terenzio Varrone, di Rieti, che nella sua lunga vita (116-27 a. C.) si occupò a fondo di ogni ramo del sapere: scrisse fertilmente di filosofia, di letteratura, di linguistica (si ha in parte il suo De lingua Latina), di agricoltura (resta il De re rustica), di storia antica. Alla storia dei loro tempi mirarono invece il più grande uomo di quell'età, Giulio Cesare, e un cesariano quale Gaio Sallustio Crispo. Cesare (101-44 a. C.) descrisse nei Commentarii de bello Gallicoe Commentarii de bello civili la campagna settennale (58-52) che lo portò a conquistare le Gallie e quella condotta contro i suoi avversari politici nel 49 e nel 48 in Italia, Spagna, Grecia ed Egitto. Con tocco inimitabile, di semplice eleganza, Cesare fa rifulgere, al di là degli immediati valori di storia, le qualità di chiarezza lapidaria della lingua latina: il suo è l'esempio più alto di atticismo romano. L'estrema secchezza delle due monografie a noi giunte di Sallustio (86-ca. 34 a. C.), il De Catilinae coniuratione e il De bello Jugurthino, rivela già, sotto l'apparente austerità, una ricercatezza stilistica. Sallustio fu uno storico d'idee; al di là dei fatti analizzò nelle opere citate (e ancor più, certo, nelle perdute Historiae) i movimenti politici che determinarono il crollo della Repubblica. Anche la sua è una documentazione preziosa, non solo di fatti, ma di stati d'animo. Scompare, al suo confronto, il modesto biografo Cornelio Nepote (ca.100-ca. 30 a. C.). Dopo quest'età di rivolgimenti, l'età di Augusto, signore assoluto di Roma dal 31 a. C. al 14 d. C., segnò la stabilizzazione di un nuovo regime politico, e anche nelle lettere lo splendore più perfetto di vari generi letterari. Augusto favorì col suo intervento diretto la fioritura delle arti; in ciò fu coadiuvato da diversi potenti del tempo, quali il suo ministro Cilnio Mecenate (ca. 69-8 a. C.) e, in posizione più appartata, quasi d'opposizione, Messalla Corvino e Asinio Pollione. Perse sono le opere di poeti quali Vario Rufo, Quintilio Varo, Plozio Tucca, Cornelio Gallo, contemporanei e amici di Virgilio. Quest'ultimo, il massimo poeta romano (70-19 a. C.), giunse a Roma dalla nativa Mantova verso il 52, entrò in amicizia col giovane Ottaviano e visse poi sempre nella cerchia sua e di Mecenate, tra Roma e Napoli, spettatore non indifferente delle lotte politiche prima, poi cantore delle speranze e dei programmi del nuovo regime. Esordì con le Bucoliche (42-37), 10 carmi elegiaci colmi di nostalgia per la vita primitiva dei pastori; seguì il più complesso poemetto delle Georgiche (4 libri in esametri, composti fra il 37 e il 29), in cui gli insegnamenti sull'agricoltura, sulla pastorizia, sull'apicoltura si esplicano nella più pura poesia: è il carme più perfetto, per toni e per eleganza, dell'intera letteratura latina. L'Eneide (12 libri in esametri, composti dal 29 alla morte e pubblicati postumi) ha solo un maggior respiro, una maggior ricchezza di motivi. Cantando le vicende di Enea fuggiasco da Troia, fino al suo insediamento nel Lazio e alla fondazione della stirpe romana, Virgilio non solo canta le glorie della casa imperiale e i destini della propria gente ma esprime una nuova, moderna visione del mondo, intrisa di sofferenza. Diviene così poeta universale, in cui si sono ritrovate tutte le età successive. Accanto a lui si pone l'amico suo Quinto Orazio Flacco (65-8 a. C.), anch'egli un provinciale di Venosa, in Puglia, approdato a Roma dopo aver combattuto fra i repubblicani a Filippi, ed entrato alla fine nell'intimità di Mecenate. Spirito più scettico, amante d'una vita d'ozi, epicureo convinto, Orazio fu a tratti il cantore ufficiale della nuova ed eterna Roma di Augusto, ma soprattutto il descrittore della vita quotidiana, degli uomini e dei loro difetti negli Epodi e nelle Satire (41-30 a. C.) poi l'elaboratore, nelle elegantissime forme della lirica greca, di motivi poetici e filosofici, di sentimenti intimi e giocosi (amicizia, amore, quiete dei campi, bellezza della natura, ecc.) coi 4 libri delle Odi(Carmina). Gli stessi temi, ma in tono più affabile, trasferì in un libro di epistole in esametri, pubblicato verso il 20 (in un secondo, successivo, trattò problemi letterari). In posizione più defilata politicamente operarono altri poeti di elegie, coltivando un'arte di sentimenti individuali, soprattutto d'amore, con varie sfumature. Era ancora il mondo ellenistico che ispirava la poesia romana. Albio Tibullo, laziale (ca. 60-ca. 19 a. C.), compose due libri di elegie per certe Delia e Nemesi, associando al loro amore quello per la quiete dei campi: la dolcezza dei temi e dei paesaggi si esprime in dolcezza un po' molle di versi. Un terzo libro di elegie contiene, accanto a cose sue, altre di un altro più giovane elegiaco, Ligdamo. Tempra più vigorosa di poeta, e coinvolto in una più bruciante passione, fu Sesto Properzio, umbro (ca. 50-ca. 10 a. C.). Nei suoi 4 libri di elegie cantò essenzialmente una donna, sotto lo pseudonimo di Cinzia, con toni di raro vigore, con potente fantasia e con l'intervento di note dotte, di spunti mitologici che gli ispirava l'elegia degli alessandrini. Più complessa, anche se menosincera e profonda, la poesia di Publio Ovidio Nasone, nato a Sulmona nel 43 a. C. e passato dalla vita galante di Roma all'esilio, decretatogli da Augusto per misteriosi motivi, sul Mar Nero, dove morì verso il 17 d. C. Esordì come poeta d'amore con le elegie degli Amores e delle Heroides, poi si fece maestro dell' “arte amatoria” (Ars amandi, 3 libri in metro elegiaco, tutti finezza e ironia); quindi produsse il suo massimo capolavoro, le Metamorfosi, un complesso poema in 15 libri di esametri, a episodi di trasformazioni naturalistiche e mitologiche, cui fece seguire un secondo in metro elegiaco sul calendario romano (Fasti), rimasto interrotto per l'esilio, verso l'8 d. C., al sesto libro; dell'esilio sono due raccolte di elegie, i Tristia e le Epistulae ex Ponto. Nella prosa del tempo primeggia la grande storia di Roma del padovano Tito Livio (59 a. C.-17 d. C.), vissuto per lo più a Roma nella cerchia augustea. Livio narrò tutte le vicende della città dalla sua fondazione ai propri tempi; ne rivisse, con tono epico e con uno stile ampio, la crescita fino al dominio del mondo, quasi celebrandone la missione storica ora che parevano già sensibili, per la grandezza stessa dell'impero, i segni di un'ineluttabile decadenza. Il suo è soprattutto un immenso capolavoro d'arte; 142 libri, di cui 35 conservati sino a noi. Accanto a Livio sono da ricordare, tra i prosatori, il retore Anneo Seneca (ca. 50 a. C.-ca. 40 d. C.), gli eruditi Gaio Giulio Igino e Marco Verrio Flacco, lo storico Pompeo Trogo e l'architetto Vitruvio Pollione, autore del manuale De architectura, in 10 libri.

Letteratura: dall'età di Nerone al declino della cultura pagana

Ancora per tutto il sec. I dell'Impero, sino a Traiano, i germi di quest'arte veramente “aurea” continuarono a dare ricchi frutti; ma la temperie spirituale e la stessa perfezione letteraria qua e là s'incrinarono, la scrittura si fece meno regolare, i problemi umani più intensi; ciò vale soprattutto per l'età neroniana, pur così fertile di artisti, tra il 54 e il 68 d. C. Sotto Tiberio vissero i poeti Fedro (ca. 15 a. C.-ca. 50 d. C.), maestro di brevi favole animalesche con valore allegorico, secondo l'esempio del greco Esopo; e Manilio, autore di un poema astronomico non privo di squarci gradevoli in una materia così arida. Fra Tiberio e Claudio continuò soprattutto la prosa, con gli storici Gaio Velleio Patercolo, Valerio Massimo e Quinto Curzio Rufo. Poi prevalse la poesia, anzitutto col satirico Aulo Persio Flacco, di Volterra, morto giovanissimo (34-62 d. C.) e autore di sei intense satire, spietate raffigurazioni della società ricca del tempo. Tra Claudio e Nerone visse il maggior genio letterario del tempo e uno degli scrittori più interessanti di tutta la latinità: Lucio Anneo Seneca, figlio del retore, nato a Cordova il 4 a. C., salito in fortuna e poi in disgrazia sotto Claudio, maestro di Nerone e suo ministro sino al 62, coinvolto dall'imperatore 3 anni dopo nella congiura dei Pisoni e da lui costretto al suicidio. La produzione di Seneca, ispirata allo stoicismo, che in quegli anni attirava molti uomini di cultura, comprende trattati filosofici (i 12 libri dei Dialoghi), 20 libri di Epistulae morales ad Lucilium, una serie di spunti e commenti sulla condotta e sui casi della vita, in forma di lettere a un amico, un'opera di scienza in 7 libri, Naturales quaestiones, e dieci tragedie (se è sua la praetexta Octavia), drammi di cruda tragicità fatti per la lettura più che per la rappresentazione. Seneca riproduce nella varia ricerca delle sue opere e nel suo stesso stile, a frasi brevi e nervose, le oscillazioni di tutta la sua vita pratica e politica; appaiono in lui un'umanità e una latinità nuove, che ne garantirono anche la fortuna nei secoli seguenti. Suo nipote fu l'epico dell'età di Nerone, Marco Anneo Lucano, già amico dell'imperatore, poi anch'egli costretto al suicidio nel 65 d. C., a 26 anni di età. Il suo poema storico Farsaglia, in 10 libri, canta la guerra civile tra Cesare e Pompeo con grande vigore fantastico e con una presenza del poeta stesso in squarci lirici frapposti all'azione, che riescono un'interessante novità nel quadro dell'epica antica. Ma pochi periodi della storia hanno mai avuto un testimone quale fu allora Petronio Arbitro, il confidente di Nerone, poi da lui spinto alla morte nel 66, autore, si crede, di un romanzo, Satyricon, giunto solo per i libri XV e XVI, sufficienti però a farne comprendere il valore. Petronio descrive le avventure di alcuni giovani ribaldi; ma vi intreccia abilmente con vigoroso realismo un disegno spietato della società romana. Più pacato il quadro dell'età seguente, quella dei Flavi (69-96). Solo i 14 libri di epigrammi dello spagnolo Marco Valerio Marziale (ca. 40-ca. 104), vissuto lungamente a Roma, mostrano ancora, con tono pungente o divertito, gli aspetti più bassi e mossi della vita della capitale; la fertilità e la forza icastica, nel giro di pochi versi, colpiscono ancora oggi il lettore di questi componimenti, in cui si riversano i rancori di un frequentatore povero della società “bene” del tempo. La poesia scivolò per il resto nell'imitazione classicistica, con i freddi poemi epici di Gaio Valerio Flacco (Argonautiche), di Silio Italico (Punica, sulla II guerra cartaginese) e di Publio Papinio Stazio (Tebaide, sulla guerra dei Sette re contro Tebe, e Achilleide, interrotta al II libro). Ma Stazio è anche l'autore di più gradevoli carmi occasionali, spesso autobiografici, dal titolo Silvae. Il classicismo trovò anzi in questi anni il suo più famoso codificatore nel retore Marco Fabio Quintiliano, spagnolo (ca. 35-ca. 96), maestro a Roma, autore dell'Institutio oratoria, ampia esposizione in 12 libri delle materie letterarie sulla formazione del futuro oratore; Cicerone vi assurge al sommo valore di maestro di stile e la convenzionalità s'insinua in tutto questo rigido programma educativo. Ancora, per la prosa, è da ricordare Gaio Plinio Secondo, detto il Vecchio, di Como (23-79), per la sua vasta enciclopedia in 37 libri Naturalis historia, compendio di notizie sulle conoscenze scientifiche del tempo valido ancora nel Medioevo. I principati di Nerva, di Traiano e di Adriano operarono successivamente (dal 96 al 138) una restaurazione di libertà e di sicurezza politica, deteriorate soprattutto sotto l'ultimo dei Flavi, Domiziano. Ne sono frutto straordinario, in letteratura, le opere storiche di Cornelio Tacito, nato verso il 55, console nel 97 e governatore d'Asia dopo un'eclissi nella carriera politica subita sotto Domiziano. Tacito ripercorse nelle sue due opere maggiori (Historiae e Annales, a noi giunte solo parzialmente) tutta la storia di Roma dalla morte di Augusto al principato di Domiziano; vide l'azione provvidenziale dell'Impero per conservare il dominio di Roma, ma anche le sue interne contraddizioni, le ostilità delle classi, le opposizioni alle tirannidi; delineò con insuperata maestria i profili dei principi e il quadro della vita politica e sociale sotto di loro, con pessimistica accentuazione dei vizi umani e con uno stile coerentemente severo, a frasi disarmoniche, ben contrastanti con le ampie volute del periodo latino classico. Anche Tacito è, per i contenuti e per la forma dei suoi scritti, un poderoso testimone del suo tempo e un avvisatore delle crisi ormai vicine e sempre più frequenti nella società e nelle strutture dello Stato romano. Assai scadente, al suo confronto, il biografo Gaio Svetonio Tranquillo, vissuto tra il 70 e il 140 ca., e per parecchi anni alla corte imperiale: in 8 libri narrò le vite degli imperatori da Cesare a Domiziano, infarcendole di curiosità e di pettegolezzi, che le rendono solo piacevoli alla lettura. Si può ricollegare se mai a Tacito per la sua vigorosa tempra morale, per la genialità delle sue invenzioni stilistiche e per la potenza fantastica, un cupo poeta satirico di quegli anni, Decimo Giunio Giovenale, di Aquino (ca. 50-ca. 135): 16 le sue satire, piuttosto ampie, una anzi, la sesta, quella famosa sulle donne, di ben 661 esametri; in esse il poeta si scaglia con raro calore e violenza contro tutti i vizi umani, e più quelli che gli rendevano odiosa la vita di Roma, tra viltà politiche, degradazioni morali, avarizia e lussuria. Anch'egli precisa un quadro amaro, ma a tinte anche troppo cariche, della Roma imperiale. Nulla dei suoi rancori nel pacato nipote di Plinio il Vecchio, Gaio Plinio Cecilio Secondo, vissuto tra il 61 e il 112 ca., con fortunata carriera politica sotto Traiano; il suo epistolario, in 10 libri, è una sorta di diario d'un uomo fine e soddisfatto, in uno stile degno del suo maestro Quintiliano: una lettura gradevole ma non travolgente. L'orizzonte culturale muta sensibilmente a partire dagli anni dell'imperatore Adriano, quando si assiste a un progressivo sfaldamento di quelle ideologie nazionali romane che avevano ispirato Virgilio, Livio e lo stesso Tacito. L'Impero da un lato è ormai cosmopolita, dall'altro comincia a subire la pressione di nazioni barbariche esterne. Alla religione tradizionale si affiancarono o subentrarono culti orientali, fedi mistiche, sistemi filosofici complessi; soprattutto il cristianesimo conquistò strati sempre più vasti di popolazione, specialmente umili, e cercò una propria espressione anche letteraria; le opere di grande respiro cedettero a composizioni più ridotte. La cultura latina si fece riflessa ed elaborò piuttosto che creare. Lo stesso Adriano entrò in questo stato d'animo, coltivando, con altri poeti detti “novelli” (Floro, che fu anche storico, Settimio Sereno, gli autori anonimi del poemetto Pervigilium Veneris e di altri carmi naturalistici), una lirica esile e raffinata. Altri scrittori coltivarono l'erudizione e la compilazione, come Aulo Gellio (ca. 130-ca. 175), autore di una miscellanea antiquario-letteraria dal titolo Noctes Atticae: il culto antiquario si fece sentire persino nello stile dei prosatori, per cui il retore Marco Cornelio Frontone, maestro dell'imperatore filosofo Marco Aurelio (121-180), predicò nei suoi trattati e nell'epistolario un ritorno a Catone. Ma quegli anni offrirono anche un autentico genio della letteratura latina, l'africano Apuleio (ca. 125-ca. 180). Impastato di cultura greca e latina, ritenuto un mago, egli interpretò, già nelle mosse vicende della sua vita dalle molte esperienze religiose e filosofiche, e poi nel suo capolavoro, il romanzo delle Metamorfosi, la complessità del suo tempo, le sue confuse aspirazioni, i tentativi di superare il paganesimo con la ricerca di culture nuove, la crisi morale, le stravaganze, la sensualità; la lingua stessa s'impasta di vocaboli nuovi o esotici, scintilla continuamente di un barocco che è il riflesso di un mondo interiore ed esteriore ricco di scompensi e continuamente mosso. Apuleio è, con tutto ciò, l'ultimo grande scrittore della latinità pagana e uno dei massimi creatori di linguaggi artistici; il fascino della sua opera fu duraturo, anche nell'età moderna.

Letteratura: il periodo cristiano

I decenni seguenti videro il declino quasi completo della letteratura pagana, che segnalò solo qualche versificatore erudito di poco conto, mentre s'impiantò vigorosamente la letteratura cristiana. Nella sua prima fase, dalla fine del sec. II alla fine del III, designata comunemente come quella dell'apologetica, ossia della “difesa” della nuova religione, il bagaglio dogmatico era ancora esile, con molte incertezze; ma forte fu in alcuni il vigore della fede, in altri assai persuasivo il discorso. Il primo è il caso di Quinto Settimio Florente Tertulliano, cartaginese (ca. 155-ca. 222). Il vigore e il rigore della sua conversione, avvenuta verso il 195, gli dettarono accenti intensi, fin dalla sua prima e migliore opera, il libretto dell'Apologeticum, e poi sempre ispirarono tutta la sua abbondante produzione di scritti polemici, teologici e disciplinari; anzi il suo rigorismo lo spinse addirittura fuori dell'ortodossia, nell'eresia dei montanisti. Minucio Felicecontemporaneo e autore del dialogo Octavius, sviluppò invece un discorso assai più pacato ma suadente, fondato com'era ancora sugli schemi e sulla mentalità della tradizione letteraria e filosofica classica, pur in una temperie morale nuova. Ancora da citare il vescovo di Cartagine Cecilio Cipriano, martirizzato nel 258 ca., per i suoi trattati di catechesi e di morale e per il suo intenso epistolario; gli altri africani Arnobio(m. ca. 327) e il suo discepolo Lattanzio (ca. 250-ca. 320), un retore ormai di età costantiniana, che accanto a opuscoli polemici sviluppò già un organico e pacato discorso sul cristianesimo come sistema di pensiero e di vita (soprattutto nelle Divinae institutiones, che si richiamano anche nel titolo a Quintiliano). Il sec. IV vide, in coincidenza col riconoscimento ufficiale del cristianesimo e con la sua più ampia diffusione, un risveglio della letteratura pagana in molte sue forme. Nella storiografia, accanto a numerose ma mediocri compilazioni, si presentò uno scrittore di vaglia quale Ammiano Marcellino, nativo di Antiochia, generale di Giuliano l'Apostata (ca. 330-ca. 400). Il vigore del suo stile e la vastità delle sue concezioni sono degni della migliore tradizione romana, e anzi di quello stesso Tacito di cui Ammiano volle essere il continuatore: i suoi Rerum gestarum libri XXXI cominciavano appunto dalla fine delle Historiae e giungevano ai suoi tempi; a noi sono giunti gli ultimi 18, il periodo più interessante, contemporaneo all'autore. Lingua, fantasia, interessi denunciano in Ammiano uno spirito orientale e una formazione non più latina; portano alla luce nuovi problemi storici e letterari e mostrano nuovi aspetti della storia romana. Anche la poesia contò almeno tre scrittori di rilievo, nativi delle province, con Decimo Magno Ausonio, Claudio Claudiano, Rutilio Namaziano: essi cantano nei loro poemetti e in stile ancora elegante un mondo turbato da invasioni, da vicende tumultuose con rare oasi di pace e con grande nostalgia per il passato glorioso di Roma; sono un documento prezioso di esperienze drammatiche e di stati d'animo assai diffusi. Fiorirono d'altro canto, anche con uno sforzo significativo di ricapitolazione e di salvataggio di tutta una cultura, la compilazione di florilegi, i commenti ad autori classici, le enciclopedie, i trattati di grammatica e di metrica. D'altro canto, il cristianesimo ebbe allora i suoi grandi Padri, che organizzarono sotto tutti i profili la nuova fede, senza respingere la tradizione di pensiero e d'arte della classicità. Sant'Ambrogio , vescovo di Milano (340-397), San Gerolamo, inquieto monaco dalmata (ca. 347-ca. 420), e Sant'Agostino di Tagaste, vescovo d'Ippona (354-430). Il primo lottò con la sua attività e con le sue opere contro l'arianesimo e diede disciplina e organizzazione alla sua chiesa. Il secondo, spirito combattivo e scrittore fecondo, fu il grande storico cristiano, il traduttore in latino e il commentatore della Bibbia e dei Vangeli, l'epistolografo appassionato. Il terzo fu il maggior teologo e scrittore latino cristiano: approfondì i dogmi (De Trinitate...), narrò con inaudita profondità ed efficacia la propria esperienza interiore sino alla conversione (Confessiones), affrontò con originale prospettiva il tema della storia come scontro di Bene e di Male (De civitate Dei): con una produzione vastissima, diede la misura del nuovo mondo cristiano, che più di ogni altro egli contribuì a creare. Il sec. V vide anche il maggior poeta cristiano latino, lo spagnolo Aurelio Prudenzio Clemente (348-ca. 410), autore di carmi lirici, di inni e poemetti religiosi, e lo storico Paolo Orosio (ca. 390-dopo il 418).

Letteratura: dispersione e irraggiamento della cultura latina

Poi la cultura si disperse in conseguenza della caduta dell'Impero sotto le orde barbariche. Cominciò l'età più buia del Medioevo, in cui solo le corti, talora, e più i conventi, alimentarono l'arte e il pensiero, conservarono i tesori della letteratura classica trascrivendo i manoscritti e studiandone le opere. A tale provvida attività partecipò tutta l'Europa, dove si andavano costituendo i regni romano-barbarici e si stabilivano scuole e centri di cultura monastici. L'Italia subì più degli altri Paesi il contraccolpo della crisi politica e sociale succeduta alla caduta anche ufficiale dell'Impero (476). Solo all'inizio del secolo seguente, durante il regno di Teodorico (493-526), la presenza di due scrittori come Boezio e Cassiodoro fece rivivere la cultura con risultati fecondi anche per l'avvenire. Severino Boezio (480-524), nobile romano, ministro di Teodorico, poi da lui condannato a morte, fu grande interprete di Aristotele e filosofo dialettico, autore di manuali per la scuola, ma soprattutto di quel De consolatione philosophiae, scritto in carcere, in cui confluiscono problemi di cultura ed esperienza umana con tale ricchezza di motivi da farne poi uno dei libri fondamentali per tutto il Medioevo. Potente ministro di Teodorico fu anche Magno Aurelio Cassiodoro (ca. 490-583), che passò tuttavia l'ultima parte della sua vita in un monastero della sua Calabria coltivando gli studi e istruendo discepoli. Scrisse di storia (Chronica, De origine actibusque Getarum), delle Institutiones scolastiche e raccolse sue lettere e documenti nelle Variae, dando anch'egli un indirizzo alle future attività delle scuole e delle cancellerie. Infine è da ricordare un papa, non meno grande per la sua attività letteraria che per l'opera di governo della Chiesa: San Gregorio Magno, che chiude il sec. VI (regnò dal 590 al 604), autore di opere esegetiche e liturgiche, di omelie e di quei Dialoghi in cui rivela la sua costante aspirazione all'ascetismo monastico, una delle componenti fondamentali della spiritualità del tempo, e dei tempi ancora a venire. Fecondissima di scrittori, dal sec. V al VI, fu poi la Gallia, con teologi come Fausto di Riez e Gennadio di Marsiglia; con poeti come Apollinare Sidonio, Avito di Vienne, Venanzio Fortunato; con storici come Gregorio di Tours. L'Africa continuò la tradizione inaugurata dagli apologisti e dai Padri col teologo Fulgenzio di Ruspe, oppositore accanito degli ariani (sec. VI); mentre Blossio Emilio Draconzio dava voce di poesia al suo fervore religioso e alle proprie sofferenze di cristiano perseguitato, con accenti commossi. La Spagna, infine, conclude questa tarda propaggine della patristica, e, si suol dire, l'intera epoca dell'antica letteratura latina, con Isidoro di Siviglia (ca. 560-636), raccoglitore e ordinatore magistrale del patrimonio culturale antico,in un'età che ormai minacciava seriamente di sommergerlo per sempre. Oltreché di studi biblici e teologici, si occupò, in vari trattati, di scienze naturali, di cronologia e di storia; la sua attività culminò in quella vasta raccolta di nozioni che sono i 20 libri delle Etymologiae, un'enciclopedia che ha formato per buona parte la cultura del Medioevo.

Letteratura: l'età medievale

Comprende la produzione letteraria, sacra e profana, che dal sec. VII al XIV ebbe vita in tutta l'Europa cristiana, in una lingua non più viva, aperta alle varie influenze locali, quanto al lessico, che si andava arricchendo di neologismi e corrompendo coi barbarismi, ma ancora abbastanza legata alla sintassi usata dagli scrittori della Chiesa romana; comunque assai lontana dalla forma classica dei secoli precedenti. Tale letteratura si suole dividere in 4 periodi, tenendo conto che, secondo i luoghi e gli autori, si hanno differenze notevoli, che impediscono un'assoluta caratterizzazione delle categorie. Il primo periodo è quello di transizione o del cosiddetto “basso latino” (sec. VII-VIII), dall'invasione longobarda alla rinascita carolingia, che si protrasse (sec. IX-X) anche durante il regno della casa di Sassonia (rinascita ottoniana). Gli ultimi due periodi sono quelli dell'apogeo (sec. XI-XII) e della decadenza (sec. XII-XIV). Durante il periodo di transizione si ebbe un generale silenzio nell'Europa continentale, mentre nelle isole, e specialmente in Irlanda, si sviluppò il seme della poesia religiosa, in seguito all'apostolato di S. Patrizio: il Liber hymnorum, l'Antifonario di Bangor, le opere di San Colombano (540-615), fondatore del convento di Bobbio, e dell'abate Adamnan (624- 704). Dall'Irlanda questo fervore religioso e letterario si trasferì in Britannia in seguito all'evangelizzazione del monaco Agostino (597) e si manifestò con una vita anche più intensa. Il maggiore rappresentante ne fu, accanto al vescovo Aldelmo (ca. 673-735), autore di poemetti ed enigmi a carattere religioso, e a Wynfrith (San Bonifacio, ca. 675-755), Beda il Venerabile (672-735), autore di cronache e iconografie preziose per gli storici moderni. Nello stesso periodo, soltanto nella Spagna dei Visigoti, si ebbe una qualche valida attività letteraria in latino, e cioè la creazione di quegli inni anonimi che hanno dato vita alla liturgia mozarabica. Carlo Magno, chiamando alla corte di Aquisgrana letterati e dotti da ogni parte d'Europa, fondò quella scuola che per due secoli avrebbe influenzato la cultura e dato vita a una rinascita del classicismo. Vi appartennero il franco Angilberto, che seguì Carlo Magno a Roma nell'800 e fu probabilmente l'autore del poemetto Carolus Magnus et Leo papa; Alcuino del Northumberland (ca. 735-ca. 804), compilatore di numerosi testi di studio per lungo tempo fondamentali in Europa; Paolo Warnefrido, detto Diacono (ca. 720-ca. 799), friulano, autore di quella Historia Langobardorum che costituì la più attendibile fonte di notizie per i futuri storici: Paolino, patriarca di Aquileia (ca. 740-802), autore di versi ritmici di carattere popolare; Teodolfo di Orléans (ca. 760-821), che invece si rifece ai modelli classici di Ovidio e Prudenzio, e infine il cronachista Eginardo (770-840), autore della Vita Karoli Magni. I personaggi e le opere più importanti di questa rinascita apparvero però durante il regno parallelo di Ludovico il Germanico e di Carlo il Calvo: in Germania, dalle scuole di Fulda e di Reichenau, uscì il monaco Magnenzio Rabano Mauro di Magonza (ca. 780-856), al quale vengono attribuiti diversi inni (Veni, Creator Spiritus) e con lui il suo discepolo Walahfrid Strabo (ca. 808-849), il teologo Radberto Pascasio (ca. 790-dopo l'866), il sassone Gottschalk (805-869). In Francia si distinse, tra molti mediocri scrittori, Lupus Servatus (ca. 805-862), abate di Ferrières, autore di un epistolario dal quale appare il suo gusto di umanista: infine gli irlandesi Sedulio Scoto (ca. 850), poeta in metri classici, oltre che teologo, e il filosofo Giovanni Scoto Eriugena (810-ca. 870). Dai monasteri, divenuti in Germania veri e propri vivai di poeti, storici e pensatori, alla fine del sec. IX uscirono alcuni personaggi di grande rilievo, tra i quali Notker Balbulus di San Gallo (840-912) che, oltre a raccogliere le Gesta Karoli dalla tradizione popolare, dette valore d'arte alla “sequentia”, che restò, nella poesia lirica latina medievale, uno dei più caratteristici canti liturgici. Alla rinascita favorita dagli Ottoni (sec. X) appartengono le figure dello storico Widukind di Corvey (ca. 915-ca. 973), autore dei Rerum gestarum Saxonicarum libri tres; di Ruotger di Colonia (Vita Brunonis); del poeta epico Eccheardo I, decano di San Gallo (900-973), autore del poemetto in esametri Waltharius; la monaca Rosvita (ca. 935-dopo il 975), autrice di 8 leggende, tra cui Teofilo, che prelude in modo singolare al Faust, di due poemi sulla storia di Ottone I e del monastero, e di 6 drammi a imitazione di Terenzio, ma di argomento cristiano, in prosa rimata (Abraham, Paphnutius, Callimachus, Dulcitius, Gallicanus, Sapientia), che sono un anello di congiunzione nel grande silenzio del teatro da Seneca alle sacre rappresentazioni in volgare; lo storico Liutprando di Cremona (ca. 910-972). Nella prima metà del sec. XI Germania, Francia e Italia produssero le opere latine di maggiore importanza: quelle del cronachista Ekkehart IV (980-1060), l'anonimo romanzo in versi Ruodlieb (ca. 1050), le prime poesie profane (Carmina Cantabrigiensia), le agiografie di Otloh di St. Emmeram (ca. 1010-ca. 1070), le storie di Adamo di Brema, definito il “Tacito del Nord”, autore dei Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum, e, in Italia, il Chronicon Venetum di Giovanni Diacono (ca. 1050), il Chronicon Novalicense, gli scritti di musicologia di Guido d'Arezzo (ca. 997-1050: Micrologus disciplina artis musicae), le poesie di alcuni monaci di Montecassino. La I Crociata offrì l'occasione per numerose cronache e storie (Sigeberto di Gembloux, m. nel 1112, che ampliò la cronaca di S. Gerolamo fino al 1111). In Francia vanno ricordati i tre “poeti delle cattedrali”: Ildeberto di Lavardin (1056-1134), Marbodo di Rennes (ca. 1035-1123) e Baldarico di Bourgueil-1130). In Italia compaiono i primi capisaldi della futura Scolastica: il ravennate Pier Damiani (1007-1072), Lanfranco di Pavia (1005-1089) e Sant'Anselmo d'Aosta (1033-1109). Nel sec. XII la letteratura latina medievale raggiunse l'apogeo specialmente in Francia con i dotti che affollano lo Studio di Parigi, le scuole di Orléans, Chartres, Cluny e l'abbazia di San Vittore: poeti e filosofi che restano per sempre legati alla grande architettura del pensiero medievale: Pietro Abelardo (1079-1142), San Bernardo di Chiaravalle (1091-1153), Pietro il Venerabile (ca. 1094-1156), Ugo di San Vittore (1096-1141). Caratteristici di questi secoli del Medioevo sono i canti goliardici (Carmina Burana , esaltanti l'amore, il vino, i giochi delle taverne, e diffusi dai chierici erranti, che vengono ancora cantati dalle corporazioni studentesche scandinave e tedesche; tra gli autori si ricordano un Archipoeta, contemporaneo del Barbarossa, e Ugo di Orléans, detto Primas (ca. 1093-1160). Ricchissima anche la storiografia: in Inghilterra,dove dopo la conquista normanna tutta la letteratura si svolse in latino (sec. XII e XIII), scrisse il gallese Goffredo di Monmouth (Historia regum Britanniae, ca. 1140), che fornirà a Shakespeare molti motivi per le sue tragedie e ispirazione ai narratori del ciclo di re Artù (brettone); in Germania il vescovo Ottone di Frisinga (1114-1158), zio del Barbarossa, autore del celebre Liber de mutatione rerum e delle Gesta Friderici; nel Nord, Helmond di Bosau, autore di una Chronica Slavorum (ca. 1170); il danese Saxo Grammaticus (Gesta Danorum); il boemo Cosma di Praga (1046-1125). Di questo periodo vanno ricordate anche l'opera mistica e profetica di Sant'Ildegarda, badessa di Bingen (1098-1179), e l'ampia epopea animalesca Ysengrimus di Nivardo di Gand (ca. 1148). Diffusa per tutta l'Europa fu l'opera di Pietro Lombardo (ca. 1100-1160), autore di quei Sententiarum quattuor libri ricordati anche da Dante, che restarono il testo fondamentale della filosofia e della teologia fino a San Tommaso. Dal sec. XII ha inizio il declino della letteratura latina medievale, a causa del sempre maggior uso del volgare, mentre è in piena fioritura la Scolastica, dopo la fondazione dell'Università di Parigi (1257). In questo periodo compaiono le gigantesche figure di Alberto Magno (1200-1280) e di Tommaso d'Aquino (1225-1274), maestri dell'aristotelismo domenicano, di San Bonaventura da Bagnorea (1221-1274), Ramón Llull (Raimondo Lullo; ca. 1233-ca. 1315), Giovanni Duns Scoto (1266-1308), grandi mistici francescani; figure alle quali va affiancata quella dell'inglese Ruggero Bacone (ca. 1214-dopo il 1292), fondatore del metodo sperimentale. In Italia Fra' Salimbene da Parma (1221-1288) scrive la sua Chronica, il domenicano Iacopo da Varazze, arcivescovo di Genova (ca. 1230-1298), la Legenda aurea, Fra' Tommaso da Celano (m. ca. 1260) il Dies irae e altre poesie religiose, oltre alla biografia di San Francesco; Iacopone da Todi (1236-1306) lo Stabat Mater. Della letteratura latina tedesca è sufficiente ricordare il Dialogus miraculorum di Cesario di Heisterbach (ca. 1220). Nel sec. XIV si fa sempre più vistosa la sostituzione del volgare al latino, ma non si può tralasciare il ricordo del francescano inglese Guglielmo di Occam (m. ca. 1350), teorico della critica dissociativa, del filosofo Giovanni Buridano (m. dopo il 1358), delle opere latine di Dante Alighieri (De Monarchia, De vulgari eloquentia, Quaestio de aqua et terra, Epistulae), di quelle del Petrarca e del Boccaccio, dell'anonima compilazione Gesta Romanorum e infine delle opere del fiammingo Tommaso da Kempis (1380-1471) tra le quali, famosa, la De imitatione Christi.

Teatro

Secondo Livio, il teatro arrivò a Roma nel 364 a. C. quando, nell'ambito delle cerimonie propiziatorie per impetrare dagli dei la fine di una pestilenza, le autorità fecero venire dall'Etruria dei danzatori che ballarono per le strade al suono di una specie di flauto. Il successo incoraggiò i giovani romani a imitarli e ad accompagnare ai movimenti la recitazione di rozzi versi burleschi, detti fescennini. Dal fescennino derivò poi la satura, mentre la commedia vera e propria incominciò a essere recitata verso la metà del sec. III. In seguito il teatro divenne uno strumento di propaganda personale e politica: col pretesto di celebrare la festa di qualche dio, ricchi cittadini con ambizioni politiche offrivano alla popolazione di Roma, cioè all'elettorato, lussuosi intrattenimenti che comprendevano, accanto ad attrazioni come pugili, acrobati e domatori, rappresentazioni di testi generalmente adattati dalla commedia nuova greca, da recitare all'aperto davanti a un pubblico eterogeneo, ammesso gratuitamente. Gli attori, in maschera e costume, erano professionisti socialmente assai poco considerati: solo pochi ottennero fama e onori. Ai giovani di buona famiglia erano riservati gli exodia, che concludevano le rappresentazioni teatrali. Si trattava di brevi farse nelle quali confluiva, accanto alle memorie dei fescennini, la tradizione osca dell'atellana. Questo tipo di teatro a personaggi fissi e farcito di trovate spesso oscene (la censura non tollerava allusioni politiche irriverenti, ma era assai longanime in fatto di moralità) soppiantò la commedia nei favori del pubblico all'inizio del sec. I a. C. e venne a sua volta soppiantato con l'Impero da due nuovi generi, il mimo e il pantomimo, originari entrambi della Magna Grecia. Il primo, farsa grossolana, era tutto affidato alla forza comica degli interpreti (era l'unica forma teatrale in cui comparissero le donne, che esibivano generosamente le loro nudità); il secondo sceneggiava episodi, generalmente piccanti, della storia o della mitologia, con un solo attore che, valendosi esclusivamente di gesti, movimenti ed espressioni del viso, interpretava tutti i personaggi, accompagnato da un'orchestrina e da un coro a cui era affidato il compito di fornire il filo conduttore delle vicende. Mimi e pantomimi erano i soli attori professionisti della Roma imperiale: in qualche caso godevano, pur rimanendo socialmente degli infames, del prestigio di autentici divi. La concorrenza era costituita dalle innumerevoli attrazioni che la città poteva offrire: corse di cavalli e di carri, battaglie navali, combattimenti tra gladiatori, scontri con bestie feroci, ecc., secondo un gusto del colossale e del sanguinario che rimase tipico di quell'epoca e che attirò sul teatro e sullo spettacolo i fulmini dei moralisti prima e dei padri della Chiesa dopo. Particolarmente avversati furono mimi e pantomimi, che reagirono con parodie oscene o grottesche dei sacramenti. Ma erano destinati a soccombere: nel 435 Teodosio proibì le recite pubbliche di domenica e nel secolo successivo tutti i teatri vennero definitivamente chiusi: l'ultima notizia di un fatto teatrale in Occidente si riferisce al 533.

Per la linguistica

G. Cremaschi, Guida allo studio del latino medievale, Padova, 1959; A. Ernout, A. Meillet, Dictionaire étymologique de la langue latine, Parigi, 1960; V. Pisani, Grammatica latina storica e comparativa, Torino, 1962; G. Caliò, Il latino cristiano, Bologna, 1965; A. Traina, L'alfabeto e la pronuncia del latino, Bologna, 1967; G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna, 1969; V. Väänänen, Introduzione al latino volgare, Bologna, 1971; R. L. Palmer, La lingua latina, Torino, 1977; E. Löfstedt, Il latino tardo. Aspetti e problemi, Brescia, 1980; M. Durante, Dal latino all'italiano moderno, Bologna, 1981.

Per la letteratura

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Per il teatro

M. Beare, The Roman Stage, Londra, 1950; G. E. Duckworth, The Nature of Roman Comedy, Princeton, 1952; E. Paratore, Storia del teatro latino, Milano, 1957; A. Traina, Commedia. Antologia della palliata, Padova, 1969; M. Bevilacqua, Sulla storia della satira romana, Roma, 1970; A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, Torino, 1979; W. Beare, I romani a teatro, Bari, 1986.

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