Lessico

sf. [sec. XIII; dal latino tardo magīa, dal greco mágeia]. Propr., la dottrina e l'arte dei magi persiani. Quindi, la presunta capacità di dominare le forze della natura; l'insieme delle pratiche in cui essa si esplica e dei mezzi materiali a cui ricorre: praticare la magia; “per fare le cose da maestra / pose quella magia nella minestra” (Forteguerri). Fig., forza ammaliatrice, fascino, incanto: non riesce a sottrarsi alla magia del suo sguardo; la magia dei colori, della bellezza.

Cenni storici

Termine con cui in Grecia, in epoca ellenistica, si designarono l'arte rituale (soprattutto divinatoria) e i poteri specifici dei magi persiani, e poi anche degli astrologi-indovini caldei, fusi e confusi con i primi in una comune accezione dell'esotico, o estraneo alla religione tradizionale. Questa posizione rispetto alla religione tradizionale, nonché la fortuna che magi e caldei trovavano negli strati meno colti della popolazione fecero sì che la cultura ufficiale classificasse la magia nei termini negativi di una fattucchieria-stregoneria opponibile in qualche modo alle realtà civili, sociali ed etiche, che la stessa cultura ufficiale sosteneva. La negatività della magia si stendeva perciò in un arco di significati che andavano dalla “superstizione” (quasi un'ideologia rozza e incivile) al concetto di un potere malefico assoluto (la negazione assoluta dell'ordine costituito). Il cristianesimo ereditò una simile concezione della magia e anzi se ne servì nella sua polemica contro movimenti religiosi concorrenziali, ossia che, come il cristianesimo (esso stesso accusato talvolta di magia dalla cultura ufficiale), si presentavano sotto l'aspetto di sovvertitori dell'ordine costituito. E per il cristianesimo la magia fu o “superstizione” o uso di poteri derivati dal diavolo. Tale opinione trovò sbocchi pratici anche nella giurisprudenza (con l'istruzione di processi per magia) e si fece più esplicitamente teologia nei termini con cui a Dio era opponibile il diavolo. La conseguenza fu la persecuzione religiosa e civile di maghi e streghe per tutto il Medioevo. L'opposizione, in origine di natura storica (tra magia e religioni etniche prima del cristianesimo, e poi tra magia e cristianesimo), venne in seguito astrattamente proiettata in un'opposizione concettuale che, con i primi studi storico-religiosi, diede forma alle due distinte categorie del “magico” e del “religioso”. Fu di solito relegato al “magico” quanto nelle culture studiate (per lo più quelle dei popoli primitivi) sembrava irriducibile alle religioni politeistiche e monoteistiche con le quali, più o meno coscientemente, si colmava il concetto di religione. L'opposizione concettuale degli studi storico-religiosi trovava il suo sostegno: nella contrapposizione delle culture superiori (“religiose”) alle culture primitive (“magiche”); nell'identificazione di certa produzione culturale dei primitivi con pratiche, definite magiche, della sub-cultura europea (tradizioni popolari). Donde si perpetuava il giudizio negativo della magia, che diventava una scienza sbagliata, primitiva, ancora incapace di distinguere tra cause ed effetti (Frazer); o una fase pre-religiosa caratterizzata dalla manipolazione di forze impersonali, tipo mana (Marett); o un'espressione, nociva, d'individualismo contrastante i culti intesi all'edificazione di una società (Hubert e Mauss). Da queste definizioni si ricava l'impressione che la cultura occidentale moderna si sia realizzata (nei suoi aspetti scientifico, religioso e sociale) contro tutto ciò che veniva e viene incluso nella categoria del “magico”. In altri mondi culturali concetto e giudizio sulla magia svaniscono e rimangono soltanto i fatti, che vengono correttamente studiati in funzione delle culture a cui si riferiscono. Nei limiti di una “convenzione”, e senza implicazioni ontologiche o scientifiche, si può oggi accettare la definizione di magia per quei riti che pretendono di ottenere qualcosa senza chiedere l'intervento di entità sovrumane. Una convenzione ancora più restrittiva, ma anche più funzionale, riduce la magia a quei riti (sempre autonomi da entità sovrumane) che si propongono di sortire effetti obiettivi (per esempio la pioggia). Sempre convenzionalmente, ai fini di una tipologia, si può distinguere, adoperando certi termini ormai in uso nella storia delle religioni, una magia simpatica, mediante la quale si agisce facendo soffrire a un oggetto ciò che si vuole far soffrire a una determinata persona; una magia omeopatica, rispondente all'idea che il simile agisce sul simile; una magia contagiosa, che agirebbe su una persona manipolando certe cose a lei appartenenti, ecc. Una distinzione più funzionale è tra magia bianca, comprendente le pratiche benefiche, e magia nera, svolta a scopi malefici. Questa distinzione pressoché universale è legata al concetto di stregoneria.

Etnologia: generalità

Nell'ambito delle culture di interesse etnologico il ricorso alla magia è molto frequente e può essere determinato da motivi diversi: per necessità economiche e sociali, per ottenere scopi distruttivi o avere effetti protettivi, curativi e produttivi. I rituali magici presentano un'ampia casistica, secondo le varie culture e la varietà degli scopi che si vogliono perseguire. Le tecniche magiche sono rivolte a uno scopo concreto e immediato e si pensa che abbiano un'efficacia automatica. La magia permette non solo di allontanare il male, ma anche di evitarlo, di scoprirne le cause e di dominarlo. I mezzi sono costituiti da amuleti, formule determinate, osservanza del silenzio, della castità, astensione da certi cibi o lavori. Gli individui che esercitano la magia (maghi, stregoni, sciamani) posseggono qualità personali o hanno seguito un lungo e severo tirocinio. I cosiddetti maghi neri, cioè quelli che agiscono attraverso pratiche di magia nera, come per esempio nella società segreta degli uomini-leopardo del Congo, sono temuti e odiati, spesso puniti o allontanati.

Etnologia: interpretazioni

E. Tylor nella Cultura dei primitivi del 1871 arrivò alla conclusione che la magia fosse una “scienza sbagliata” perchè non in grado di distinguere i rapporti causa-effetto da quelli propriamente temporali. J. G. Frazer pur considerando la magia un primo stadio nello sviluppo della civiltà, ebbe il merito di fornire una prima classificazione della magia. L'etnologo francese L. Lévy-Bruhl considerò le culture cosiddette primitive come guidate esclusivamente da una visione magico-mistica del mondo, quindi prescientifica, nella quale ogni cosa si può trasformare in qualsiasi momento in un'altra. All'inizio del secolo XX H. Hubert e M. Mauss studiarono i rapporti della magia con la scienza e la religione, e affermarono che queste hanno delle analogie con la magia in quanto hanno basi comuni di intervento: la natura (scienza e magia) e il sacro (religione e magia). L'attenzione degli studi antropologici sul fenomeno magico si è basato essenzialmente su due costanti interagenti: sistema di simboli e comunicazione sociale. Un notevole contributo in questa direzione è stato fornito da C. Lévi-Strauss. In Anthropologie structurale (1958; Antropologia strutturale ) dedicò un saggio dal titolo Lo stregone e la sua magia all'universo simbolico della magia. Secondo l'antropologo ogni atto magico presuppone l'esistenza di un rituale basato su segni, che abbiano un significato per la collettività partecipe dell'esperimento magico. Ad A. R. Radcliffe-Brown si deve la prima analisi seria del concetto di mana. Questa forza non individualizzata insita in tutte le cose permea l'atto magico (il rituale), chi lo compie (lo sciamano), quanti vi assistono (la società) e l'ambiente in cui viene svolta l'azione (la natura). L'accento posto da Brown sul valore rituale e sociale della magia, contrapposto al presupposto legame magia-scienza condizionò il successivo dibattito sull'argomento. Notevole risonanza ebbe l'opera Witchcraft, Oracles and Magic Among the Azande (1937; Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande) di E. E. Evans-Pritchard. In questo resoconto della ricerca da lui effettuata nel Sudan sudoccidentale teorizzò la centralità del contesto sociale nel quale la magia si esplica e l'assenza di un legame tra scienza e magia, in quanto l'obiettivo finale del rituale magico non consisterebbe nel modificare la natura, ma nel contrastare i poteri di streghe o maghi. Per B. Malinowski l'atto magico è l'espressione simbolica di un desiderio, completamente slegato dal rapporto causa-effetto, che è comunque tenuto ben presente. Sulla scia di Malinowski, gli antropologi successivi hanno sottolineato che il ricorso alla magia si ha solitamente in presenza di fenomeni inesplicabili, davanti ai quali le pratiche empiriche sono considerate impotenti. Nel secolo XXI l'analisi della nozione di magia si basa sia sui presupposti interpretativi propri delle culture incontrate, sia sui modelli e metodi elaborati nella storia dell'antropologia.

Bibliografia

E. De Martino, Il mondo magico, Torino, 1948; B. Malinowski, Magic, Science and Religion, Londra, 1948; E. De Martino (a cura di), Magia e civiltà, Milano, 1962; M. Buisson, Storia della magia, Milano, 1972; P. Carpi, Storia della magia, Padova, 1988.

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