Definizione

sf. [dal latino planēta, pianeta+genesi]. Insieme di teorie sulla formazione dei pianeti storicamente riferito al sistema solare ma, in seguito alle nuove acquisizioni sperimentali, estendibile anche ai possibili sistemi extrasolari, che potrebbero fornire, nei prossimi anni, indizi per una migliore comprensione delle modalità di formazione di un sistema planetario. Il termine sostituisce quello, un po' antiquato, di cosmogonia (cui si rimanda per l'esposizione delle teorie fiorite dall'antichità agli inizi del sec. XX).

Astronomia: teorie nebulari e teorie catastrofiche

Si distinguono due filoni essenziali: teorie nebulari, o endogene, tendenti a descrivere la formazione dei pianeti in termini di una naturale evoluzione dinamica e chimico-fisica della materia nebulare che dette origine al Sole; teorie catastrofiche, nelle quali viene presa in considerazione la possibilità di formazione dei pianeti a partire da una perturbazione profondamente traumatica subita dalla massa del Sole a causa dell'incontro ravvicinato con una qualche stella della Galassia. Particolare risonanza, tra le teorie di questo tipo, ebbe a godere fino alla prima metà del sec. XX l'ipotesi avanzata da J. James ed H. Jeffreys, secondo la quale un gruppo di pianeti si sarebbe generato per frammentazione e condensazione di una lingua di plasma gassoso strappata al Sole e a una stella incognita trovatasi a transitare, senza collidere, nello spazio circumsolare. Nondimeno, l'aspetto di estrema eccezionalità che queste teorie venivano a conferire al sistema solare, insieme alle considerazioni sulla sostanziale omogeneità fisica e temporale mostrata dai corpi che lo compongono, rappresentarono sempre elementi di prova tanto validi per i fautori delle teorie nebulari, da riuscire infine a scalzare in via definitiva ogni ipotesi alternativa a queste. C. F. von Weizsächer nel 1944 rispolverò l'antica teoria dei vortici arricchendola di considerazioni circa gli effetti generati dalla turbolenza e dalla viscosità del fluido protoplanetario. Si deve, in ogni caso, a H. C. Urey se, all'inizio degli anni Cinquanta, le teorie planetogeniche sono venute ad assumere l'indirizzo odierno. Dall'esame dei meteoriti, Urey ammise che una nube interstellare, perturbata dal Sole, fosse divenuta gravitazionalmente instabile finendo con il dare luogo a condensazioni parziali primitive dalle quali, per riunione reciproca, le masse planetarie sarebbero venute a formarsi. Con le considerazioni avanzate da H. P. Berlage e da H. Alfvén, anche i campi magnetici ed elettrici posseduti dal Sole – o dalla nebulosa presolare – cominciarono a trovare un ruolo; ma si dovette attendere il 1960 perché F. Hoyle riesaminasse l'antica teoria nebulare di Kant e di Laplace superandone la limitazione più grave con il ricorso all'accoppiamento magnetico che sarebbe verosimilmente intercorso fra la nube circumsolare e il corpo centrale protosolare. Nella sostanza, le linee di forza avrebbero mantenuto dinamicamente associate le due parti, alla stregua di un collegamento elastico capace di assorbire, deformandosi, una parte dell'incremento di energia di rotazione dovuto alla contrazione del protosole, per trasferirla – sotto forma di momento angolare meccanico – al toroide gassoso dal quale i pianeti avrebbero poi tratto origine.

Astronomia: teorie del XX secolo

Le teorie planetogenetiche formatesi nella seconda metà del sec. XX (teoria dei flocculi di W. H. Mc Crea, 1960; teoria accrescitiva di R. A. Lyttleton, 1961; teoria della cattura di M. M. Woolfson, 1965; teoria di sedimentazione di T. Nakano, 1970) prendono in considerazione una struttura a due componenti del materiale primordiale contenuto in seno alla nebulosa presolare: una componente gassosa e una corpuscolare, entrambe generate nella medesima formazione che, per contrazione gravitazionale, ha generato il Sole. Si reputa che la fase di concentrazione del corpo solare fino ai livelli di densità sufficienti per l'innesco delle prime reazioni di nucleosintesi dell'idrogeno (a ~10 milioni di K) che ne stabilizzarono la massa, si sia prolungata per 30 milioni d'anni. Nel frattempo, la formazione nebulare circostante – posta in lenta rotazione assiale – andava assumendo una struttura caratteristica, modellata dalla risultante fra le forze gravitazionali, centripete, e le forze inerziali, centrifughe. Si verificò allora la separazione fra le due componenti, giacché le polveri finirono con il distribuirsi sul piano generale di rotazione, nel mentre che la componente gassosa, sottoposta alla contropressione interna, si dimostrava meno suscettibile al processo di appiattimento. Il primo risultato fu la nascita di una tozza formazione lenticolare di 10 miliardi di km di raggio e 100 milioni di km di spessore, avvolgente la massa del protosole, e all'interno della quale le polveri occupavano un sottile disco equatoriale. Con l'ingresso del Sole in sequenza stellare, l'accresciuto flusso di energia radiante ebbe la virtù di spazzare il materiale circostante, e con maggior efficienza lungo la direzione assiale della nebulosa lenticolare. Un secondo risultato fu che quest'ultima finì con l'assumere una conformazione toroidale, a ciambella, essendo la regione centrale – occupata dal Sole – relativamente priva di materiale diffuso. Mentre le attuali cognizioni indicano concordemente che la composizione chimica media del materiale planetario non differisce da quella del Sole sì da attestarne la comune origine – forse chimicamente arricchita dal contributo di qualche supernova che ne innescò al contempo la condensazione – la palese diversità strutturale mostrata dai corpi planetari sta a indicare che un innegabile processo di differenziazione di natura termica deve aver potentemente agito nel successivo corso della loro formazione. La componente metallica dovrebbe aver in qualche modo aiutato la condensazione iniziale, stando a quanto emerge dalle osservazioni dei sistemi planetari extrasolari. In effetti, si ritiene che la componente corpuscolare consistesse di particelle di silicati, carbonati, metalli vari, cristalli d'ammoniaca, di ossidi, di ghiaccio d'acqua, ecc., non più pesanti di qualche miliardesimo di grammo; la componente gassosa consisteva per la maggior parte d'idrogeno, di elio e di tracce di gas nobili e di anidridi. Ciascuna di tali particelle orbitava intorno alla massa centrale secondo le leggi kepleriane, ma l'intervento della pressione radiante, del vento solare, del cosiddetto effetto Poynting e Robertson– insieme all'attestarsi del regime termico su livelli elevati – vennero a costituire altrettante cause concomitanti nel favorire la migrazione dei gas leggeri verso le regioni periferiche del sistema, la dissoluzione dei cristalli compositi nei loro elementi semplici, l'evaporazione delle particelle solide in funzione della loro distanza eliocentrica. In definitiva, la composizione chimica della nube si andò ripartendo in modo da lasciare nelle regioni circumsolari le particelle a più alta temperatura di vaporizzazione (silicati, metalli, carbonati), e, nelle regioni più esterne, l'idrogeno, l'elio, e tutte le molecole più volatili provenienti dalla dissociazione delle particelle complesse. Le sporadiche inomogeneità contenute nel fluido nebulare cominciarono, con il tempo, ad agire da embrioni di concentrazione gravitazionale: si accrebbero raccogliendo materiale circostante e si dissolsero innumerevoli volte sotto l'alterno gioco delle reciproche perturbazioni. Dettero infine origine a una moltitudine innumerevole di corpi, di diametro fino a qualche km, i planetesimi, corpi planetari elementari. Per i successivi 100 milioni d'anni, questi embrioni andarono accrescendosi, distruggendosi e riunendosi reciprocamente, richiamando – con efficienza proporzionale alla propria massa – i planetesimi minori circolanti nelle orbite adiacenti. Questo processo di accrezione si mantenne attivo fino a che un numero limitato di corpi maggiori, i protopianeti, riuscì a prevalere in modo stabile insieme a qualche corpo rimasto intrappolato nel suo raggio d'azione (i futuri satelliti); finì con l'arrestarsi quando protopianeti e relativi satelliti ebbero finito di raccogliere tutto il materiale circostante disponibile. Il materiale che andò a costituire i protopianeti interni del sistema fu in grado di conferire loro consistenza sufficientemente alta da produrre una crosta superficiale solida che la successiva epoca degli impatti con le condensazioni minori residue modellò e rimodellò più volte. Tale periodo catastrofico si protrasse fino a 3,5-4 miliardi di anni or sono, e le formazioni crateriche che devastano le superfici della Luna e degli altri satelliti, e che si notano anche su quelle dei pianeti interni – detti tellurici, o rocciosi – ne costituiscono la testimonianza più evidente (planetologia). Infine, si ritiene che il residuo corpuscolare a più basso punto di fusione presente nell'antica nebulosa sia finito confinato dalla pressione radiativa ai limiti del campo gravitazionale del Sole ove, a distanze comprese fra le 30 e le 100 mila UA, darebbe corpo a quella nube popolata di innumerevoli sciami di corpi minori – miscugli poco coerenti di ghiaccio e di composti carboniosi – che J. H. Oort già negli anni Cinquanta aveva additato come il serbatoio delle comete "Per approfondire Vedi Gedea Astronomia vol. 1 pp 61-67" "Per approfondire Vedi Gedea Astronomia vol. 1 pp 61-67" .

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