prosodìa

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Definizione

sf. [sec. XVI; dal greco prosō(i)día, da prós, verso, accanto+ō(i)dḗ, canto]. Secondo la teoria dei grammatici greci, si designavano così non solo gli accenti e la quantità, ma anche gli spiriti e i segni di apostrofo, di giunzione e di separazione delle parole; il termine, però, viene più comunemente usato per indicare il complesso delle regole riguardanti l'accentazione e la quantità delle vocali e delle sillabe specialmente in funzione della versificazione, mentre in un'accezione più tecnica, particolarmente evidenziata nella linguistica moderna dalla scuola fonologica, con prosodia si tende piuttosto a designare l'insieme di quegli elementi dinamici, melodici, quantitativi, che sono detti anche soprasegmentali, in quanto si accompagnano e si sovrappongono al segmento della catena parlata. Solo in seguito la linguistica ha rivolto una particolare attenzione alle caratteristiche foniche riguardanti il rapporto e la variazione d'intensità (volume), di altezza e di tempo, tra i vocaboli e i gruppi di vocaboli costituenti una frase, e ha posto nel giusto rilievo il fatto che per ogni lingua vi sono rapporti fonici costanti fra intensità e altezza di una parola in una data accezione e che tali rapporti variano con il variare dell'accezione. Per comprendere meglio l'importanza e il rilievo che gli elementi prosodici hanno in una lingua, si ponga attenzione alla diversa intonazione della frase enunciativa (lo hai fatto), interrogativa (lo hai fatto?), esclamativa (lo hai fatto!), incidentale (– lo hai fatto –).

La prosodia latina

Nella prosodia latina è fondamentale la quantità delle vocali: essa può essere definita in base all'accento della parola (se è sulla terzultima sillaba la penultima è breve: aníma), agli esiti delle lingue romanze (e e o tonici sono brevi se diventano in italiano ie e uo: dĕcem, dieci, bŏnus, buono), ad alcune norme particolari (per esempio è breve una vocale che precede un'altra vocale: dĕus) e alla comparazione con altre lingue indeuropee. Alcune regole prosodiche aiutano poi a riconoscere la quantità delle vocali e delle sillabe finali in latino: -a è breve (tranne che nell'ablativo singolare della I declinazione, nella 2a singolare imperativo della I coniugazione e generalmente negli avverbi e nelle preposizioni), -e è breve (tranne che nell'ablativo singolare della V declinazione, nella 2a singolare imperativo della II coniugazione e in quasi tutti gli avverbi), -i è lunga (tranne poche eccezioni: nisí, quasí), -o è lunga (eccetto in egŏ, duŏ, octŏ, modŏ), -u è lunga, tutte le sillabe finali uscenti in consonante diversa da -s sono brevi (patĕr), -as -es -os sono lunghe (eccetto poche eccezioni), -is è breve (eccetto che nel dativo e ablativo plurale della I e II declinazione e nella 2a singolare del presente indicativo della IV coniugazione), -us è breve (eccetto che nel genitivo singolare e nel nominativo, accusativo, vocativo plurale della IV declinazione). Nel computo delle sillabe occorre infine tener presente che una sillaba finale in vocale o in -m si fonde con la sillaba iniziale della parola seguente che comincia con vocale o con h: monstr(um) horrendum.

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