sm. [sec. XX; da statale]. Tendenza a rendere lo stato il protagonista prevalente, o addirittura esclusivo di un sistema economico, tanto fornendo ai suoi organi amministrativi ampi poteri di controllo e di guida delle iniziative imprenditoriali, quanto eliminando le industrie private per sostituirvi un apparato produttivo a capitale pubblico.

Scienze politiche

Il termine statalismo ammette due prevalenti attribuzioni di significato: in senso letterale, indica il coinvolgimento dello stato e delle istituzioni pubbliche in genere nelle attività economiche di un Paese. Sul piano delle esperienze storiche, ciò implica l'assegnazione agli organi amministrativi di ampi poteri di controllo e indirizzo – talvolta di vera e propria gestione – delle iniziative imprenditoriali. Nel caso di alcuni contesti socio-politici, come nei Paesi del socialismo reale, la pratica dello statalismo si è identificata con la completa o parziale soppressione delle imprese private (specialmente se operanti nel settore industriale e in quello dei cosiddetti servizi strategici) e con lo sviluppo di un apparato produttivo di proprietà pubblica. In chiave di retorica politica, la nozione di statalismo è stata sempre più frequentemente associata alla polemica, di ispirazione neoliberistica, contro l'invadenza dello stato in ambito economico, ma anche, più estensivamente, nella sfera delle relazioni sociali e dei criteri di governo della cosa pubblica. In nome della lotta allo statalismo sono così state patrocinate, un po' in tutti i Paesi occidentali e, più tardi, in quelli usciti dall'esperienza comunista, campagne d'opinione contro l'egemonia della scuola pubblica, la crescita del prelievo fiscale, la gestione da parte dello stato della sanità, dei trasporti e di altri servizi di utilità collettiva. Principalmente alla logica e alla pratica dello statalismo sono stati di conseguenza attribuiti i costi esorbitanti e l'inefficienza del welfare e persino la tendenza alla violazione dei diritti dei cittadini attraverso la centralizzazione delle informazioni sulla vita privata, i consumi e i patrimoni, resa – sin dalla fine degli anni Settanta – potenzialmente più efficace dall'introduzione delle tecnologie informatiche. Al di là della curvatura polemica e delle implicazioni strettamente politiche presenti nell'offensiva antistatalistica che si sviluppa a partire dagli anni Settanta-Ottanta, prima nell'area anglosassone (nelle forme ideologiche del thatcherismo in Gran Bretagna e del reaganismo negli USA), e poi un po' in tutte le democrazie industrialmente progredite, lo statalismo connota una fase storica di interventismo pubblico le cui ragioni sociali e la cui legittimazione culturale appaiono largamente obsolete anche a molta parte delle forze politiche e culturali orientate alla difesa dello stato sociale. Una riflessione non preconcetta sulle radici e sulle prospettive dello statalismo come filosofia istituzionale richiede un breve richiamo al contesto in cui matura l'espansione dell'intervento pubblico nell'economia e nella più complessiva rete delle relazioni sociali.

Scienze politiche: Cenni storici

I compiti onerosissimi imposti a numerose comunità nazionali da due drammatici e ravvicinati impegni bellici (appena vent'anni separano la fine della prima guerra mondiale dall'inizio del successivo conflitto, nel 1939), dalla seconda ondata dell'industrializzazione e dagli sconvolgimenti finanziari innescati dalla mondializzazione dei mercati (crisi di Wall Street del 1929, inflazione galoppante e disoccupazione di massa sperimentate da importanti Paesi industriali fra le due guerre) rappresentarono il più poderoso impulso all'intervento pubblico anche in economie propriamente capitalistiche. Lo sviluppo di un tessuto di previdenza, assistenza e tutela pubblica – invocato soprattutto dai sindacati operai, dai partiti popolari e dalla borghesia illuminata – costituì anche, per le democrazie liberali, uno strumento di potenziale prevenzione dal contagio rivoluzionario minacciato dalla Rivoluzione d' ottobre e dalle suggestioni del dirigismo autoritario dei fascismi europei. Saranno, del resto, i governi di ispirazione progressista (laburisti, socialdemocratici o coalizioni di forze democratiche) insediatisi a partire dalla fine della grande guerra in Francia (Fronte popolare guidato da L. Blum), in Gran Bretagna (con la prima maggioranza laburista, sostenuta dalle potenti Trade Union), nei Paesi scandinavi a maggioranza socialdemocratica, a promuovere con più determinazione politiche di massiccia presenza del settore pubblico nell'economia e nei servizi. In un'accezione rigorosa e restrittiva della nozione di statalismo è peraltro fuori discussione che le esperienze di più invasiva presenza dello stato nella produzione, nella formazione e nell'istruzione, nella gestione delle risorse collettive e nel controllo dell'informazione siano da rintracciare nei regimi dittatoriali e totalitari fra le due guerre. Per molti aspetti, risulta anzi difficile – prescindendo dai contenuti ideologici e limitandosi a considerare le politiche pubbliche concretamente attuate – differenziare lo statalismo di destra (fascismo italiano, nazionalsocialismo tedesco e tutte le loro varianti, dal salazarismo portoghese al franchismo spagnolo ai più effimeri regimi nazionalisti dell'Europa orientale prebellica) da quello di sinistra (prima nella Russia sovietica, poi nelle altre “democrazie popolari” dell'est europeo). A variare sono, caso mai, l'intensità e la ramificazione sociale dello statalismo nei diversi regimi che hanno consentito la costruzione di articolate tipologie di presenza pubblica nella società, nelle istituzioni e nella cultura. Più interessante, ai nostri fini, è riandare alle origini dello stato sociale (Welfare State) nei contesti democratici, dove la costruzione di un regime di garanzie e di provvidenze finanziate dallo stato ha comportato una più o meno radicale trasformazione del patto sociale e un'altrettanto netta modificazione delle funzioni e della natura stessa delle istituzioni pubbliche. I processi di negoziazione e, più tardi, di vera e propria concertazione fra le parti sociali – ispirati alla filosofia economica di J. M. Keynes e alla prima, organica sperimentazione politica del welfare da parte di W. H. Beveridge (la sua Dichiarazione sullo stato sociale risale al 1944) – hanno prodotto infatti una delle più grandi innovazioni della storia politica dell'umanità. Innovazione che, provocando una completa riorganizzazione del rapporto fra stato e società, contiene in sé una sorta di contraddizione in termini. Infatti, combinandosi nel paradigma del welfare la logica dello stato e quella della società, si dà vita a un prodotto politico-istituzionale inedito. Affermando il principio di alcuni diritti collettivi inalienabili (alla salute, all'istruzione, alla casa, al lavoro), lo stato invade effettivamente competenze e funzioni della società civile. Nello stesso tempo, però, si fa carico di nuovi diritti di cittadinanza che i vecchi regimi di democrazia censitaria avevano ignorato o declinato in chiave meramente assistenzialistica e filantropica. Lo stato sociale nasce perciò, fra gli anni Trenta e i Sessanta, come risposta di adattamento a nuove domande collettive e come rivendicazione di standard minimi di dignità e qualità della vita, riconosciuti senza distinzioni a tutti i cittadini. In questa prospettiva è implicita una filosofia risarcitoria che tende a compensare gruppi e soggetti individuali sfavoriti (disabili, anziani, popolazione marginale) delle minori opportunità di competizione sociale loro offerte. Il Welfare State – che i francesi negli anni del Fronte popolare ribattezzeranno significativamente état providence – rappresenta quindi un passaggio storico per molti versi obbligato, che produce dinamiche nuove di consenso, di mobilitazione sociale e di gestione della sfera pubblica. I percorsi storici che hanno condotto alla costruzione dello stato sociale nei Paesi occidentali, e conseguentemente gli esiti concreti di tale processo, appaiono peraltro molto differenziati. Uno studioso come G. Esping-Andersen (The Three Worlds of Welfare Capitalism, 1990) nega che l'attuazione di programmi sistematici di intervento pubblico sia sufficiente ad accreditare l'esistenza dello stato sociale (per esempio in una realtà come quella degli USA). E un altro importante studioso dei problemi dello stato contemporaneo, come R. Titmuss (Saggi sul Welfare State, 1986), distingue fra modello istituzionale, residuale e meritocratico-corporativo di welfare. Il primo, più radicale, prevede la tendenziale sostituzione dell'intervento pubblico al mercato nella fornitura di servizi collettivi giudicati intrinseci allo status di cittadino, aderendo a una concezione estensiva del concetto di bisogno sociale. Il secondo limita l'intervento statale alle sfere insufficientemente garantite dalle agenzie primarie, come la famiglia, o dal mercato. Il terzo modello affida la definizione dei bisogni e delle conseguenti provvidenze alla valutazione delle strutture sociali e lavorative di riferimento, promuovendo, per esempio, la compartecipazione dei sindacati nella gestione degli interventi. Queste casistiche, utili a definire tipi ideali e modalità teoriche di estensione della presenza statale nel tessuto sociale, non rendono però conto dell'ampia articolazione e varietà delle concrete esperienze storiche, prodotto di peculiari vicende politiche e di differenti culture sociali. Il profilo che emerge da una comparazione critica dei diversi casi nazionali è, infatti, quello di una quantità di combinazioni tipologiche differentemente modulate. La stessa offensiva neoliberista contro lo statalismo e la presunta dilatazione delle incombenze e dei costi dello stato sociale si è, d'altronde, quasi ovunque arenata in una diatriba ideologica che ha sortito effetti tangibili – ancorché parziali e bisognosi di verifica empirica – solo quando ha accettato di misurarsi con progetti concreti di riordino dei singoli regimi. Riordino e riorientamento dei sistemi nazionali di welfare che sono peraltro sollecitati da processi crescenti di integrazione sovranazionale (si pensi alla costruzione politica dell'Europa), con i loro corollari economici e sociali: circolazione del capitale e della forza lavoro, vincoli di bilancio ai regimi di spesa dei singoli governi, definizione di standard di prestazione universalmente riconosciuti. Lo stesso tradizionale rapporto fra organizzazioni di volontariato, operanti nella sfera dei servizi collettivi e riconducibili alla categoria dell'economia sociale e del cosiddetto Terzo settore, con i sistemi di welfare e la cultura dello statalismo, appare intrinsecamente contraddittorio. Infatti, da una parte la filosofia sociale del mutualismo e del self help sembra in netto contrasto di valori con la penetrazione dello stato nei gangli nevralgici della produzione, del consumo e dei servizi autogestiti. Dall'altra, però, non c'è dubbio che dal sistema dell'azione volontaria inteso in senso lato sia venuto storicamente un impulso poderoso all'edificazione e alla strutturazione dello stato sociale, inteso come garanzia di equità minima, di politiche redistributive socialmente orientate, di tutela della corretta competizione fra i poteri dominanti dell'economia di mercato e altri attori operanti nell'area dell'imprenditorialità sociale. È l'idea di istituzioni rette dal principio dell'altruismo impersonale, suggerita ancora da Titmuss, che in larga parte converge con la concreta pratica sociale del volontariato e del cooperativismo. Nello stesso tempo, è implicita nell'idea di sussidiarietà – fortemente caratterizzante il modello del welfare residuale – la possibilità di attribuire a soggetti collettivi competenze rilevanti nella gestione di servizi di pubblica utilità (previdenza, assicurazioni, credito agevolato). Il sostegno a un sistema di istituzioni che, nel rispetto della libera impresa, si impegnino a ridurre al minimo l'area dell'insicurezza sociale costituisce anche un elemento non secondario della filosofia mutualistica e cooperativa, ribadita solennemente nella Dichiarazione di Manchester (1994). In quanto sistema di identità e di interessi, la galassia del volontariato sociale costituisce l'esempio di quelle encompassing organizations che possono a pieno titolo negoziare con lo stato e con il mercato il proprio ruolo nei programmi pubblici orientati all'integrazione sociale, combattendo tanto la tentazione alla liquidazione del welfare (il backlash neoliberista) quanto i rischi di uno statalismo ipertrofico e inefficiente. Un altro aspetto nevralgico della critica allo statalismo riguarda, invece, la questione della governabilità di un sistema istituzionale basato sull'egemonia dello stato-nazione, su un'estesa burocrazia pubblica e sull'esigenza di una pressione fiscale sui cittadini tendenzialmente crescente perché orientata a sostenere i costi del soddisfacimento di domande sociali sempre più larghe e differenziate. La questione ha, come è facile comprendere, carattere universale: in tutte le società e in tutte le epoche storiche si sono posti problemi di governabilità e di controllo istituzionale. A questo proposito tutti i sistemi politici e istituzionali hanno dovuto produrre strategie e pratiche di gestione che consentissero di preservare per quanto possibile l'ordine interno e, allo stesso tempo, di perseguire determinate finalità indicate da postulati ideologici o da valori condivisi. Lo statalismo ha perciò storicamente rappresentato anche uno strumento ritenuto capace – nelle sue diverse forme di espletamento – di affrontare le inevitabili fasi di turbolenza cui andava incontro un sistema politico-sociale in trasformazione. Questo ha costituito uno dei più tradizionali argomenti a difesa persino di regimi apertamente dittatoriali. Lo statalismo si sarebbe, cioè, storicamente caratterizzato come una risposta quasi inevitabile ai traumi e alle insidie della modernizzazione accelerata. Dato che l'industrializzazione in tempi rapidi richiedeva una massiccia concentrazione di risorse pubbliche – in assenza di un'economia di mercato sufficientemente sviluppata – e dato che gli sconvolgimenti sociali indotti dall'industrializzazione e dai suoi corollari (urbanizzazione di massa, migrazioni interne, esplosione di tensioni sociali di vario genere) imponevano un rigido controllo politico-sociale, lo statalismo si sarebbe sviluppato come risposta spontanea di adattamento delle istituzioni a sfide altrimenti incontrollabili. Di qui la convergenza cui si è accennato, paradossale sotto il profilo delle ideologie e delle mete dichiarate, fra esperienze di statalismo progressista e di statalismo conservatore o reazionario. Le une come le altre accomunate dallo sviluppo ipertrofico di apparati di controllo (spesso di natura propriamente poliziesca), da un'ideologia comunitaria basata su valori identitari (in riferimento alla classe o alla nazione) e da un ruolo dominante della leadership politica sull'intera società. In questo modo, si sarebbe determinato una sorta di paradigma universale dello statalismo autoritario, trasversale rispetto alle ideologie conclamate ma caratterizzato da una relativa omogeneità interna. A questo modello si contrapporrebbe una versione meno centralistica, più rispettosa delle regole democratiche e della dialettica sociale, riconducibile allo statalismo del welfare, storicamente sviluppatosi in contemporanea con le dittature militaristiche fra le due guerre. Il confronto fra queste due forme di statalismo e l'analisi delle loro caratteristiche interne – analisi che sola può confermare o smentire una interpretazione giustificazionistica dello statalismo nella sua estensione semantica – rinvia a un nodo politico e culturale ineludibile sia per i detrattori sia per i critici più indulgenti dello statalismo. È, in altre parole, la questione del nesso fra istituzioni politiche, rette da imperativi funzionali (efficienza, garanzia dell'ordine, distribuzione delle risorse) e democrazia. Questa, in quanto regime flessibile che richiede il concorso dei cittadini alle decisioni di interesse collettivo, si fonda sulla libertà e l'autonomia degli individui. È, perciò, intrinsecamente esposta al variare dell'opinione pubblica ed è condizionata da pressioni ispirate a domande sociali che si rivolgono alle istituzioni. I conflitti d'interesse, le lotte di fazione, la competizione per assicurarsi risorse scarse determinano l'esigenza di un ruolo regolatore dello stato e delle istituzioni politiche che deve convivere con il rispetto di regole del gioco fondate, appunto, sul riconoscimento di una estesa gamma di diritti civili, sociali e politici di cui i cittadini sono titolari. Questo problema di governabilità, già presente nella polis greca e nelle autonomie comunali del Medioevo, si è fatto arduo – e talvolta drammatico – nelle più complesse società industriali contemporanee. Lo statalismo democratico, caratterizzato anch'esso – come la sua versione autoritaria – da robusti apparati burocratici e da una spesa pubblica che assorbe imponenti risorse finanziarie della collettività, non può rinunciare (a differenza qui dei regimi dittatoriali) al consenso, ma la sua azione è quasi sempre lenta e laboriosa. Essa, inoltre, dovendo farsi carico di domande sociali molto estese e di aspettative crescenti, produce vaste sacche di malcontento e persino resistenze che ne minacciano la stabilità. Il fenomeno del sovraccarico (overloading) dello stato sociale contemporaneo è un esempio di crisi del modello statalistico, ma costituisce anche un tratto ricorrente di tutte le pratiche di governo ispirate a criteri di giustizia distributiva, declinata dalla retorica politica della modernità in termini di giustizia sociale. In presenza di andamenti del ciclo economico che alternavano fasi espansive anche molto sostenute e periodi di acuta depressione della produzione, degli investimenti e dei redditi, la democrazia rappresentativa ha cercato di integrare politicamente le masse, attingendo soprattutto alle risorse statali. I sudditi sono stati così trasformati in cittadini dello stato di diritto, si sono contenuti i rischi di involuzioni antidemocratiche e si sono garantiti livelli di decorosa sussistenza alla maggior parte della popolazione. Lo statalismo democratico non ha però potuto evitare di trasferire il conflitto e l'instabilità dentro le stesse istituzioni della rappresentanza politica e sociale. La “guerra fiscale” che ha caratterizzato molte società sviluppate, appartenenti all'area forte dell'economia mondiale, è divenuta così una perfetta esemplificazione della critica allo statalismo, inteso come filosofia distributiva orientata dall'alto e perciò per definizione dirigistica. Il problema di come conciliare democrazia, stabilità delle istituzioni e oneri finanziari derivanti dal ruolo stesso dello stato è stato al centro di riflessioni di storici, economisti, sociologi e politologi. Già nell'Ottocento A. de Tocqueville, seguito più tardi – ai primi del Novecento – da É. Durkheim, individuava un antidoto ai rischi degenerativi dello statalismo europeo nello sviluppo di corpi intermedi, capaci di mediare fra le “masse” e le istituzioni. Le sue osservazioni sul ruolo sociale dell'associazionismo nella costruzione della democrazia nordamericana hanno aperto la strada a una ricerca molto ricca e politicamente vivace sulla cultura civica come fattore di contenimento e di “addomesticamento” delle spinte al centralismo statale burocratico, sempre presenti negli ordinamenti politici dell'età industriale. M. Weber si è spinto a teorizzare la funzione innovativa del carisma del “leader”, che con la forza della sua personalità e la capacità di trascinare le masse in un progetto di mutamento riesce a spezzare le sbarre di quella terrificante macchina burocratica (impropriamente denominata la “gabbia d'acciaio”, espressione in realtà estranea a Weber) che identificherebbe lo statalismo dell'età contemporanea. La teoria weberiana del carisma ha indotto, peraltro, alcune pericolose deformazioni ottiche e numerose false interpretazioni del pensiero del sociologo tedesco. La sua critica anticipatrice degli orrori e delle miserie dello statalismo dittatoriale non ha, infatti, nulla a che spartire con la delegittimazione delle istituzioni democratiche perseguita con alterna fortuna dai movimenti estremistici sviluppatisi nell'Europa continentale all'indomani della prima guerra mondiale. Weber, nella sua critica liberaldemocratica allo statalismo, si limita a captare l'incipiente crisi di governabilità che affliggerà dalla fine degli anni Venti tutte le maggiori società industriali. Lo sviluppo abnorme delle burocrazie politiche e amministrative – che rappresenta, a ben vedere, il fondamentale tratto distintivo dello statalismo – sarà infatti il corollario dello stato interventista, impegnato nella gestione diretta di settori consistenti dell'economia. Questa proliferazione burocratica sarà ulteriormente incrementata, nel secondo dopoguerra, dalla dilatazione dei compiti assegnati allo stato sociale. Fino alla fine degli anni Sessanta, il modello dello “stato del benessere” si è imposto in maniera tendenzialmente pacifica a un numero crescente di contesti nazionali, comprese realtà che non erano state compiutamente investite da dinamiche di modernizzazione e/o di industrializzazione. La sovrapposizione di fenomeni di modernizzazione spuria (avvenuta in assenza di industrializzazione diffusa) e di espansione burocratica del controllo pubblico ha però prodotto, soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo, non pochi effetti “perversi”. Fra questi, diffuse tendenze alla corruzione e al clientelismo degli apparati amministrativi, esasperata politicizzazione del personale burocratico e scarso rendimento delle istituzioni: tutte caratteristiche che hanno contribuito a identificare lo stato come causa prima del degrado sociale e lo statalismo come una sorta di sua legittimazione impropria. Fra gli anni Sessanta e Settanta, il ciclo di protesta che ha investito numerosi Paesi dell'Occidente sviluppato ha contribuito a generalizzare la critica allo statalismo in una versione ideologicamente inedita. Al centro della contestazione non si collocavano più, infatti, le inefficienze operative, i costi o le tendenze degenerative dello statalismo contemporaneo, bensì il suo intrinseco autoritarismo. Così, a partire dal decennio successivo, la tradizionale critica liberista al “troppo Stato” (in nome del mercato) cominciò a saldarsi sotterraneamente alla contestazione libertaria e antiautoritaria nei confronti dell'invadenza delle istituzioni nella sfera della società civile. Studi condotti sui comportamenti elettorali dei cittadini statunitensi e britannici negli anni che portano ai governi conservatori di M. Thatcher e alla presidenza di R. Reagan dimostrano come l'ondata di antistatalismo conservatore, sviluppatasi fra gli anni Settanta e Ottanta nell'area anglosassone, fosse in realtà alimentata anche da un filone – minoritario ma non inconsistente – di critica radicale, maturata in ambienti ideologicamente progressisti per i quali la volontà di opporsi alla vera o presunta deriva burocratica del Welfare State era prevalsa su qualsiasi istanza solidaristica ed egualitaria. Sul terreno della concreta pratica di governo, la critica thatcheriana e reaganiana allo statalismo si tradusse in due principali linee d'azione. Da un lato, fu operata una forte riduzione dell'overloading pubblico, contraendo e ridimensionando bruscamente le incombenze amministrative della sfera statale, giudicate responsabili dell'eccessivo carico delle istituzioni. Attraverso la soppressione di molte strutture di partecipazione delegata e una robusta delegificazione relativa a norme di controllo spettanti allo stato, si attuò quella “riduzione della complessità” della macchina di governo teorizzata dai sostenitori dello “stato minimo”. Dall'altra, si operò tramite la tradizionale politica di spesa, abbattendo le voci di bilancio in uscita, destinate dalle precedenti amministrazioni a finanziare le principali prestazioni dello stato sociale. Alleggerimento della burocrazia e ridimensionamento del sistema di welfare rappresentarono, dunque, le essenziali linee direttrici dell'attacco allo statalismo da parte dei governi neoliberisti. Questa filosofia di progressivo arretramento dello stato e della sua burocrazia, condivisa – come si è detto – anche in ambienti non pregiudizialmente ostili all'intervento pubblico e non ideologicamente avversi al sistema welfare, ottenne per una stagione politica un diffuso consenso nell'opinione pubblica britannica e statunitense. Il sostegno elettorale che segnò la conferma dei governi tory nel Regno Unito, la rielezione di Reagan alla presidenza e poi l'elezione del suo “delfino” G. Bush negli USA lo dimostrano.

Scienze politiche: il dibattito recente

I successi politici delle avanguardie antistatalistiche in area anglosassone suggestionarono molti politici e studiosi della stessa Europa continentale, considerata terra d'elezione dello stato sociale e del “centralismo” pubblico. Forti movimenti d'opinione d'orientamento neoliberista, monetarista o dichiaratamente conservatore si svilupparono in Germania, in Francia e poi in Italia (innestandosi sulla crisi del sistema politico chiamato della Prima Repubblica). Queste forze si coagularono preferibilmente all'interno dei partiti e delle coalizioni moderate, come nel caso della Cdu-Csu tedesca o dell'alleanza neogollista francese, costituendo correnti e gruppi di pressione ispirati al paradigma britannico-americano anziché dar vita ad autonomi movimenti elettorali. In Italia, a causa del collasso del vecchio sistema dei partiti prodotto dagli eventi di Tangentopoli e dalla più generale crisi di legittimazione che aveva investito la sfera politica, la critica allo statalismo si configurò come uno degli assi portanti dell'emergente proposta ideologica di alcune importanti nuove formazioni politiche. La Lega Nord, già attiva negli anni Ottanta, intensificò agli inizi degli anni Novanta la polemica con lo statalismo romano, associandola a tematiche tradizionali dei movimenti di rivolta fiscale nordeuropei. Forza Italia, fondata dall'imprenditore S. Berlusconi nell'inverno del 1994 e arrivata con perentoria rapidità al governo grazie al successo elettorale della primavera dello stesso anno, è un altro esempio di partito “d'opinione di massa” in cui la contestazione dello statalismo rappresenta una parola d'ordine strategica e un ricorrente riferimento programmatico. Rivendicazione di una più ampia “libertà d'impresa” contro i “lacci e lacciuoli” imposti dallo statalismo, alleggerimento dell'imposizione fiscale e contrazione delle prestazioni “assistenzialistiche” dello stato sociale divengono così anche in Italia temi centrali dell'agenda politica. Temi che, malgrado resistenze di ordine ideologico-culturale, finiranno per permeare anche forze politiche tradizionalmente sostenitrici dell'intervento pubblico e del primato del sistema di welfare. La critica allo statalismo o, comunque, ai suoi eccessi e ai suoi effetti perversi diviene in questo modo progressivamente una sorta di senso comune diffuso tanto nell'opinione pubblica quanto nei partiti e nelle coalizioni, sia di governo sia di opposizione. Le rigide politiche di bilancio imposte dal processo di integrazione europea contribuiscono, a partire dalla metà degli anni Novanta, a evidenziare i costi – e persino gli sprechi – di regimi assistenzialistici maturati nella cultura dello statalismo. Si afferma l'idea che non tutte le domande sociali emergenti in realtà complesse possano essere soddisfatte dall'intervento pubblico e si teorizza che spetti alla crescita economica, piuttosto che all'espansione delle cosiddette politiche redistributive, garantire l'accesso a servizi sempre più dispendiosi (sanità, istruzione, previdenza). Questa conversione della filosofia pubblica impone però un forte controllo politico: la governabilità deve essere garantita da esecutivi rafforzati da nuove leggi elettorali e dall'affermazione del loro primato nei confronti dei parlamenti. Crescente appare anche il ruolo attribuito alle maggiori istituzioni finanziarie – nazionali e sovranazionali – e in particolare alle banche centrali, che divengono autentici controllori istituzionali dei flussi di spesa dello stato. La critica dello statalismo si trova così in una fase di transizione, sul filo di un paradosso politico: sviluppatasi come istanza di liberazione dal peso del centralismo e della burocrazia, rischia di legittimare processi ancora più restrittivi e vincolanti di controllo sulle dinamiche economiche e sulle politiche fiscali, in cui assumono un ruolo cruciale esecutivi forti e una tecnocrazia finanziaria ormai largamente internazionalizzata (gli eurocrati, gli esperti del Fondo monetario internazionale, gli agenti del sistema creditizio globalizzato). Insieme, se la critica allo statalismo era riuscita a far breccia persino nella cultura e negli orizzonti strategici dei partiti di matrice operaia e di cultura solidaristica, i costi sociali indotti un po' ovunque in larghi settori dell'elettorato dalle politiche di riduzione del welfare producono alla fine degli anni Novanta non poche tensioni all'interno delle forze moderate e conservatrici che avevano per quasi un ventennio cavalcato l'onda lunga della polemica neoliberista contro lo statalismo. In Francia, il neogollismo di J. Chirac assume forti coloriture garantistiche in tema di difesa dello stato sociale per contrastare il socialismo moderato di J. Delors e L. Jospin. In Germania, il cancelliere H. Kohl è costretto a negoziare un defatigante accordo di concertazione con i sindacati operai per ridurre parzialmente le prestazioni sociali dello stato. Nel 1996 la coalizione dell'Ulivo si afferma in Italia promettendo una riforma dell'intervento pubblico che non comprima il sistema di welfare oltre la soglia di accettabilità sociale. Ma anche importanti componenti del Polo delle libertà – a cominciare dalla destra di Alleanza nazionale – si proclamano garanti della preservazione dell'impianto strutturale dello stato sociale. Dinamiche analoghe si registrano nella maggior parte dei contesti nazionali esposti alla sfida congiunta dei costi incrementali del welfare e della globalizzazione economica e istituzionale. La critica puramente liberistica allo statalismo dissipatore di risorse, inefficiente e parassitario si orienta a una convivenza pragmatica con un sistema ibrido, ma poco disposto – smaltita l'ondata iconoclasta degli anni Ottanta – a rinunciare a quell'insostituibile ammortizzatore delle tensioni collettive che è lo stato sociale. Non a caso ci si volge a pratiche orientate all'adozione di strumenti concreti di governo della complessità istituzionale. In molti Paesi, ma in modo esemplare nel caso italiano, il dibattito si concentra non più sulla demolizione verbale dello statalismo, bensì sul rafforzamento di esecutivi che siano in grado di prevenirne, controllarne e limitarne le tendenze degenerative. Le politiche redistributive, ritenute legittimamente una delle cause fondamentali della crisi fiscale, vengono sottoposte a più rigidi controlli contabili e si espande il ruolo assegnato al mercato nel soddisfacimento di bisogni collettivi un tempo assicurato direttamente dalle istituzioni pubbliche. L'antistatalismo puramente ideologico prende atto che “dopo lo stato sociale c'è ancora lo stato sociale”, ma le ragioni della critica all'ipertrofia burocratica, ai suoi rendimenti decrescenti e alla sua difficile governabilità ha sicuramente prodotto un profondo riorientamento dei programmi e delle stesse culture politiche.

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