Lessico

sm. [sec. XVII; da sviluppare].

1) Atto ed effetto dello sviluppare o dello svilupparsi; quindi svolgimento, trattazione a fondo di un argomento: lo sviluppo di un tema; incremento, potenziamento: lo sviluppo di un'attività, del commercio, della scuola; l'industria è in pieno sviluppo. Di organismi viventi, l'insieme dei processi attraverso i quali si passa da uno stadio più semplice a uno più complesso: lo sviluppo dell'embrione; lo sviluppo di una pianta; lo sviluppo fisico e psichico del bambino; l'età dello sviluppo, la pubertà (detto anche accrescimento). Per estensione, andamento, evoluzione in genere: lo sviluppo della situazione; la malattia può avere degli sviluppi imprevedibili; il sorgere, il manifestarsi e diffondersi di qualche cosa: lo sviluppo di un'infezione; in particolare, formazione ed emissione: la reazione chimica avviene con sviluppo di gas e calore. Con accezioni specifiche: A) in filosofia, processo mediante il quale ciò che implicitamente era contenuto in uno stadio iniziale si dispiega progressivamente in manifestazioni sempre più complesse, legate tuttavia da una fondamentale unità con il suo momento iniziale. La prima espressione del concetto si trova già nella dottrina aristotelica della potenza e dell'atto. In campo scientifico, importante fu nel sec. XVIII la dottrina biologica dell'epigenesi. Essenziale è il concetto di sviluppo per la filosofia della natura schellinghiana e per la dialettica hegeliana. B) Psicologia dello sviluppo, branca della psicologia che si occupa dello studio delle modificazioni del comportamento che si riscontrano nell'individuo dalla fase di crescita e maturazione (fase evolutiva) alla maturità, alla senescenza (fase involutiva).

2) In fotografia, operazione mediante la quale viene rivelata l'immagine latente e, per estensione, tutta la serie di trattamenti chimici cui viene sottoposto un materiale sensibile esposto per ottenere l'immagine finale. Anche il bagno nel quale si compie l'operazione: vedi sviluppo (fotografia).

3) In analisi matematica, sviluppo in serie di una funzione f(x), che soddisfa a determinate condizioni è una serie di funzioni della stessa variabile

la quale in un certo intervallo (a) sia convergente e abbia per somma f(x), cioè f(x)=f0(x)+f₁(x)+... f(x)+... Nella pratica, i più importanti sviluppi in serie sono gli sviluppi di Taylor e di Mac Laurin (v. serie).

Economia

Secondo la nota definizione di S. Kuznets, un Paese si sviluppa allorché produce maggiori quantità di beni sempre più diversificati. La definizione di bene va intesa in senso ampio e quindi, oltre ai beni materiali, essa comprende anche servizi essenziali quali l'istruzione, l'amministrazione della giustizia, la pubblica sicurezza, la salvaguardia dell'ambiente naturale ecc. Si distingue lo sviluppo dalla crescita, riferendo il primo termine ai Paesi non ancora industrializzati e il secondo ai Paesi già industrializzati. Inoltre mentre sviluppo è l'accezione più generale che investe tutti gli ambiti sociali, il termine crescita è riferito più specialmente all'ambito del benessere materiale. Un dibattito tradizionale che ha coinvolto economisti, statisti e demografi è quello relativo alla misurazione dello sviluppo; il più ovvio indicatore dello sviluppo di un Paese è il tasso di crescita del reddito pro capite. Tuttavia, questo indicatore non coglie alcunché della distribuzione del reddito; per ovviare a questo problema, si usa accompagnare al reddito pro capite altri indicatori, quali, per esempio, la vita media attesa della popolazione. La teoria dello sviluppo economico, sin dall'epoca classica, si pone il problema di individuare le principali determinanti e i meccanismi di sviluppo delle economie. A. Smith giudicava il progresso economico un fenomeno naturale ma non riuscì, al di là dell'accumulazione e della divisione del lavoro, a individuarne le precise cause. Ipotizzò comunque una tendenza del sistema verso lo stato stazionario per effetto della progressiva contrazione del saggio di profitto, determinata dall'aumento della concorrenza fra capitalisti. Anche D. Ricardo teorizzò la tendenza verso lo stato stazionario, servendosi però di un apparato analitico molto più preciso e articolato. Riferendosi a un tipo di economia esclusivamente agricola (ma il ragionamento può essere esteso anche agli altri settori) e partendo da una situazione iniziale in cui la produzione, al netto delle rendite, viene ripartita fra capitalisti (profitto) e lavoratori (salario al livello di sussistenza) egli dimostrò che all'estendersi dell'accumulazione aumenta la domanda di lavoro e il salario supera il livello di sussistenza. Tale fenomeno provoca da una parte la contrazione dei profitti e, dall'altra, l'aumento della popolazione: i salari si abbassano di nuovo al livello di sussistenza per effetto dell'aumentata offerta di lavoro e ricompare il profitto. Il processo si ripete ma, per effetto del principio dei rendimenti decrescenti e per la messa a coltura di terre sempre meno fertili, mentre la quota spettante alla rendita aumenta progressivamente a ogni stadio del processo, quella spettante al profitto si riduce fino ad annullarsi quando tutto il prodotto viene ripartito fra rendite e salari al livello di sussistenza. L'avvento dello stato stazionario poteva però essere ritardato dal progresso tecnico e dal conseguente aumento della produttività del lavoro. Le argomentazioni di Ricardo furono sostanzialmente riprese da J. Stuart Mill, il quale però ridusse a fattore occasionale il progresso tecnico teorizzando l'inevitabilità dello stato stazionario nel lungo periodo. K. Marx, come i classici, individuò nell'accumulazione di capitale e in un elevato saggio di profitto i fattori di sviluppo del sistema capitalistico, ma riconobbe al processo d'introduzione delle macchine un ruolo fondamentale ai fini del crollo del sistema. Questo perché, secondo Marx, il progresso tecnologico non solo permette il dilatarsi della disoccupazione e, quindi, il mantenimento dei salari al livello di sussistenza creando così le premesse per la ribellione della classe operaia, ma è altresì causa della progressiva diminuzione del saggio di profitto e, quindi, dell'arresto dell'accumulazione (per Marx il saggio di profitto diminuisce all'ammontare della composizione organica del capitale). Con i marginalisti il problema dello sviluppo economico viene accantonato in favore di quello relativo alla distribuzione ottimale di risorse scarse fra usi alternativi. L'economia teorizzata dai neoclassici è un'economia in equilibrio statico, così che “mentre nel modello classico la stagnazione costituiva un limite cui tendeva un'economia in sviluppo, nel modello neoclassico essa deriva dalle premesse in base alle quali si definisce l'utilizzazione ottimale delle risorse” (C. Furtado). L'unico economista dell'epoca che si preoccupò di porre al centro della sua analisi il processo di sviluppo fu J. A. Schumpeter, il quale considerò essenziali fattori dinamici dell'economia capitalista il progresso tecnico e l'imprenditore-innovatore. È nondimeno sull'apparato analitico keynesiano che si fonda il primo importante modello di sviluppo: quello che prende il nome dagli economisti R. F. Harrod e E. D. Domar. I due autori si pongono indipendentemente il problema di caratterizzare il sentiero di sviluppo e le proprietà di stabilità di tale sentiero. Essi suppongono, seguendo Keynes, che il consumo sia principalmente determinato dal livello aggregato di produzione e l'investimento risenta, secondo la teoria dell'accelerazione, delle variazioni della domanda aggregata. In ciascun periodo si realizza equilibrio sul mercato dei beni solo se la domanda aggregata è uguale all'offerta globale. Vale altresì il principio della domanda effettiva e quindi i prezzi vengono considerati fissi. In equilibrio inoltre deve accadere che l'ammontare di capitale effettivo coincida con quello atteso e con quello desiderato; in caso contrario, qualche operatore deciderebbe di mutare il suo comportamento, determinando a livello macroeconomico variazioni non trascurabili. Un'altra ipotesi essenziale del modello è che la tecnologia produttiva sia a coefficienti fissi; capitale e lavoro, vale a dire, devono essere utilizzati secondo una proporzione fissa e non modificabile per produrre una unità di output. I due fattori produttivi non sono quindi sostituibili ma complementari. Sotto queste condizioni, si può calcolare che il saggio garantito di crescita dell'economia (Gw), – vale a dire il saggio di crescita che porta in equilibrio il mercato dei beni –, è uguale al rapporto tra la propensione media al risparmio (s) e il rapporto capitale-prodotto (v). Essendo sia s sia v stabiliti in via parametrica, anche Gw risulta un parametro. Per quanto riguarda la forza lavoro, essa viene occupata interamente solo se il tasso di crescita dell'offerta, – noto come tasso naturale (G) e uguale alla somma del tasso di crescita della forza lavoro e della produttività media – è uguale al tasso garantito di crescita. Dato che, come Gw, anche G si determina in via parametrica, solo per caso si può realizzare la condizione aurea secondo cui Gw=G; non esiste alcun meccanismo endogeno che riporta l'economia sul sentiero di sviluppo di piena occupazione. L'economia è dunque caratterizzata da alta instabilità: se Gw>G, si realizza disoccupazione di beni capitali, che porterà le imprese a ridurre gli investimenti, e dunque condurrà l'economia alla depressione; se Gw<G, si realizza disoccupazione di lavoratori; l'eccesso di domanda sulla capacità produttiva porta all'inflazione. Questo modello conduce a una posizione pessimistica sulle capacità dell'economia di svilupparsi in piena occupazione e ha creato, nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta del XX sec., un interessante e ampio dibattito sullo sviluppo economico; da questo sono scaturiti due altri importanti filoni teorici sullo sviluppo: quello neo-keynesiano con i lavori di N. Kaldor e L. Pasinetti, in cui si è studiato il ruolo di variabili distributive sulla propensione media al risparmio: dato che i percettori di profitto risparmiano di più dei percettori di salario, è possibile mediante variazioni della distribuzione del reddito a loro favore accrescere le capacità di sviluppo dell'economia; quello neoclassico, con i lavori di R. Solow e J. E. Meade che notano come le tecnologie produttive siano caratterizzate non da complementarità tra capitale e lavoro, bensì da imperfetta sostituibilità; questo implica che se il costo del lavoro relativamente a quello del capitale aumenta, le imprese sono portate a sostituire lavoro con capitale per ottenere lo stesso prodotto; sul piano analitico, ciò comporta che v risulti non più un parametro bensì una variabile endogena. In entrambi i casi, quindi, si individuano meccanismi endogeni volti a riportare l'economia, almeno nel lungo periodo, sul sentiero di piena occupazione. Esistono inoltre teorie più generali, non formalizzate dal punto di vista matematico, che cercano di cogliere l'interazione tra fattori economici, politici e sociali relativamente allo sviluppo. La più interessante e discussa di tali teorie è quella degli stadi formulata da W. Rostow. Per l'economista e sociologo americano lo sviluppo economico di un sistema passa attraverso cinque stadi. Nel primo, quello della società tradizionale, l'attività dominante è l'agricoltura, le tecniche produttive sono immutabili, la popolazione è stabile di tipo malthusiano. Lo stadio successivo, delle precondizioni, è caratterizzato da una trasformazione, anche se lenta, nelle idee e nelle tecniche produttive, da un certo intensificarsi degli scambi commerciali, da una certa mobilità sociale e occupazionale. A questo succede lo stadio del decollo, a carattere rivoluzionario. Gli ostacoli allo sviluppo vengono rimossi e la struttura del sistema subisce trasformazioni radicali. Nella fase della maturità tutti i settori sono interessati da un elevato e regolare tasso di crescita e si manifesta una complessa diversificazione delle attività economiche. Nell'ultimo stadio, del consumo di massa, la grande maggioranza della popolazione è in grado di soddisfare i propri bisogni essenziali, si diffondono l'utilizzazione di beni di consumo durevole e le attività terziarie. Come si è visto, non esiste in realtà una teoria dello sviluppo economico, bensì una pluralità di teorie in relazione alla molteplicità dei fattori che determinano il complesso fenomeno dello sviluppo, fattori riconducibili non solo alle risorse disponibili ma anche al comportamento degli uomini. Osserva W. Lewis che se la scarsità di risorse naturali pone limiti precisi all'accrescimento del prodotto pro capite, esistono tuttavia grandi differenze nello sviluppo fra Paesi che dispongono di risorse più o meno uguali. Se è vero quindi che lo sviluppo dipende in via primaria dallo “sforzo ad agire economicamente”, dall'accrescersi delle conoscenze e delle loro applicazioni, dall'incremento pro capite del capitale e delle altre risorse, è altrettanto vero che esso è anche condizionato dalle caratteristiche istituzionali dell'ambiente in cui le forze produttrici si trovano ad agire. Ciò premesso, vanno analizzati i fattori “materiali”, che generalmente vengono riconosciuti alla base del processo di sviluppo. Sull'importanza delle risorse naturali le opinioni sono discordanti, sostenendo taluni che esse sono un fattore “fisso” (la loro quantità non può cioè variare sensibilmente nel corso del tempo), dimostrando viceversa altri che la loro disponibilità può essere modificata sia dal capitale, sia dal progresso tecnologico sia infine dalle stesse istituzioni culturali. P. Bairoch, sulla base di una puntuale analisi storica, sostiene che l'agricoltura, o meglio l'incremento della produttività agricola, è il fattore determinante di avvio dello sviluppo. È d'altra parte indubbio che per molti Paesi del mondo il processo di sviluppo ebbe inizio con il reperimento e lo sfruttamento di risorse naturali. Un fattore centrale e strategico per il processo di sviluppo è considerato invece a larga maggioranza il capitale. Scrive C. Kindleberger: “Il processo di accumulazione del capitale è interagente e cumulativo: la formazione di capitale aumenta il reddito e ciò rende possibile una maggiore accumulazione di capitale. Ai primi stadi di sviluppo, la povertà impedisce la formazione di risparmio necessario per accumulare il capitale. Tuttavia, una volta che il processo è iniziato esso si alimenta da solo”. L'incremento demografico gioca ruoli diversi nel processo di sviluppo, nel senso che può favorirlo o può costituirne un ostacolo a seconda di come, dove e quando si verifica. L'aumento della popolazione può in effetti favorire l'aumento della produzione sia fornendo quell'essenziale fattore produttivo che è il lavoro, sia alimentando la domanda del risultato produttivo. Se si esamina però il problema in termini di prodotto pro capite va rilevato che un aumento di popolazione può, sì, favorire un aumento della produzione globale, ma si traduce anche in un aumento del numero di individui tra cui il prodotto deve essere ripartito. Inoltre, se in una popolazione la fertilità è elevata, vi sarà un numero crescente di bambini in rapporto a quello degli adulti e, quindi, un'elevata proporzione di consumatori rispetto ai produttori: l'effetto dell'incremento demografico sarà pertanto negativo riducendo la capacità del sistema a risparmiare e ad accumulare capitale. Si è detto che il fattore lavoro è indubbiamente essenziale al processo di crescita, ma va precisato che il suo apporto è stimabile non tanto in termini di quantità quanto in termini di qualità, cioè di livello di istruzione e qualificazione. Anche il progresso tecnologico viene generalmente considerato un fattore determinante dello sviluppo e Schumpeter lo eleva addirittura a manifestazione essenziale del processo di crescita: “lo sviluppo consiste, in primo luogo, nell'occupare le esistenti risorse produttive in un modo differente, nell'ideare nuovi prodotti, indipendentemente dal fatto se queste risorse produttive aumentino o meno”. Bairoch ne limita viceversa così l'importanza: “L'esame dei fatti dimostra abbastanza chiaramente che sono stati i fattori economici, e soprattutto l'incentivo di un incremento sensibile della produzione, a consentire l'utilizzazione, se non l'invenzione, di macchine e di nuovi procedimenti di lavoro. Evidentemente, queste invenzioni hanno a loro volta contribuito alla continuazione dei progressi, svolgendo un ruolo che si potrebbe definire risolutore di strozzature, cioè sopprimendo gli ostacoli che si opponevano a una rapida progressione del settore”. Va infine considerato un altro fattore-base del processo di sviluppo, ovvero la dimensione del mercato: un mercato più ampio permette di aumentare le dimensioni produttive e, quindi, attraverso la creazione di economie interne ed esterne, la stessa efficienza produttiva.

Ecologia: lo sviluppo sostenibile

Nazioni Unite si s ecosistema globale)e abiotiche di lase, effetto serra ecc.) ch sviluppo

Concetto formulato in tempi relativamente recenti che ha avuto però una lunga gestazione. Se ravvisiamo nelle teorie di Malthus (1766-1834) la prima, compiuta riflessione critica circa i limiti dello sviluppo umano – in quel caso principalmente inteso in termini demografici – possiamo dire che esso ha accompagnato la civiltà industriale e la scienza economica moderna fin dalla loro nascita. È stato però soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento, al culmine di tre decenni di straordinaria crescita nelle economie dei Paesi occidentali, che è maturato l'interrogativo circa la necessità di ripensare un modello di sviluppo e una struttura dei consumi che si dubita possano essere sostenuti nel tempo ed estesi a chi – la maggior parte della popolazione mondiale – ne è ancora escluso. Nel 1972 il tema entrò nell'agenda delle Nazioni Unite che promossero quell'anno a Stoccolma la prima Conferenza sull'ambiente umano. Quello stesso anno vide la luce il rapporto del Club di Roma su I limiti dello sviluppo, che avvalorava una nuova preoccupazione per i limiti fisici della crescita – in termini di esauribilità delle materie prime disponibili, a partire dalle fonti di energia, e di compromissione degli equilibri ecologici che consentono la riproduzione delle risorse rinnovabili. Insieme all'evidenza del degrado ambientale prodotto dall'industrializzazione e alle preoccupazioni per una crescita demografica incontrollata, a creare questa nuova consapevolezza dell'interazione fra economia, società e ambiente, concorreva allora anche la dimensione assunta dal sottosviluppo nei Paesi del Sud del mondo e la riflessione teorica su questi temi maturata nell'ambito dell'economia dello sviluppo. È in questo contesto politico e culturale che il concetto di sviluppo sostenibile ha preso forma, trovando nel 1987, in un rapporto delle Nazioni Unite, Il futuro di noi tutti, elaborato dalla commissione mondiale su sviluppo e ambiente presieduta dal premier norvegese Bruntdland, una sua prima formulazione: «lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni». In altri termini, lo sviluppo deve consentire di derivare dall'ambiente quantità crescenti di risorse senza per questo depauperarlo e deteriorarlo fino al punto di rendere impossibile il progressivo ripristino delle sue normali condizioni di funzionamento. Contemporaneamente, lo sviluppo sostenibile deve essere in grado di aumentare la disponibilità di beni per l'umanità intera, sia incrementando la produzione sia distribuendone meglio i risultati. Infine, e soprattutto, deve consentire che il processo di crescita prosegua per un tempo tendenzialmente illimitato, evitando di esaurire definitivamente le risorse abiotiche e di lasciar estinguere specie viventi, così da consegnare alle generazioni future un ecosistema pienamente efficiente.Una definizione condivisa a livello internazionale – punto di partenza delle successive conferenze ONU su ambiente e sviluppo (Rio de Janeiro, 1992; Johannesburg, 2002) – che si sarebbe però prestata per la sua genericità negli anni seguenti a un acceso dibattito circa la reale portata dei cambiamentida intraprendere, giustificato anche da differenti valutazioni della capacità di carico effettiva degli ecosistemi. Si sarebbero così prodotte una gamma assai ampia di posizioni definibili – schematizzando – a partire dal loro grado di adesione all'idea dello sviluppo sostenibile come ripensamento integrale dei paradigmi economici dominanti. In particolare, dalla sostituzione dell'obbiettivo della crescita quantitativa con quello di uno sviluppo qualitativo che, orientato da una profonda rivoluzione culturale,dovrebbe realizzare il passaggio da un'economia prevalentemente basata sullo sfruttamento di risorse naturali non rinnovabili a una economia prevalentemente basata sullo sfruttamento – e la razionalizzazione nel processo produttivo – di quelle rinnovabili. Al centro del dibattito, si sarebbe posto il ruolo che il mercato e le innovazioni tecnologiche avrebbero potuto svolgere nel promuovere oppure nel ritardare questa evoluzione. Ne è un esempio la controversia non ancora esauritasi circa l'applicazione in campo agricolo delle biotecnologie (OGM) in cui sia i suoi sostenitori sia isuoi oppositori si sono variamente richiamati ai principi dello sviluppo sostenibile. In virtù della riconosciuta interazione fra preservazione dell'ambiente,diminuzione delle disuguaglianze sociali, miglioramento delle condizioni sanitarie, abitative e del livello di istruzione, e tutela della diversità culturale della popolazione umana, gli ambiti di applicazione dei principi dello sviluppo sostenibile si sono rapidamente estesi anche alla società e alla cultura. Ne è un esempio il concetto di turismo sostenibile, dove per sostenibilità si intende non solo il rispetto dell'ambiente, ma anche delle tradizioni culturali e degli equilibri sociali locali.In questo modo, la nozione di sviluppo sostenibile ha finito sostanzialmente per integrarsi con quella più generale di sviluppo umano, per cui si potrebbe affermare che uno dei requisiti principali della sostenibilità dello sviluppo economico sia oggi rappresentato dalla sua efficacia nel promuovere un miglioramento qualitativo – non cioè solo in termini di maggiore disponibilità di beni e servizi – e durevole nel tempo delle condizioni di vita. La traduzione in realtà dei principi dello sviluppo sostenibile è di estrema difficoltà. La sua intrinseca complessità richiede infatti il concorso di una molteplicità di conoscenze e competenze. Lo dimostrano i tanti progetti di sviluppo sostenibile promossi localmente, spesso nell'ambito di iniziative di cooperazione internazionale, dove si cerca di realizzare la creazione di reddito necessaria al miglioramento delle condizioni sociali e ambientali, perseguendo il coinvolgimento delle popolazioni locali e la valorizzazione dei loro saperi tradizionali. Su una scala più ampia è soprattutto la dimensione transnazionale dei problemi coinvolti a ritardarne un'efficace attuazione. Le politiche della sostenibilità – come dimostrano gli estenuanti e spesso assai poco conclusivi negoziati in merito – si pensi alla vicenda del protocollo di Kyoto per la diminuzione delle emissioni responsabili del cambiamento climatico, sottoscritto nel 1997 ed entrato in vigore solo nel 2005 – sono infatti a livello internazionale fonti di contrasto, in virtù degli interessi divergenti e della diversa esposizione al degrado ambientale dei Paesi sviluppati, delle economie emergenti o di quelli in via di sviluppo. In particolare quest'ultimi – non diversamente per un certo periodo dagli Stati Uniti – hanno mostrato maggiore resistenza a impegnarsi in tal senso, sospettando nelle politiche della sostenibilità un tentativo di imporre un limite alla loro travolgente crescita economica. Nei Paesi avanzati si è comunque proceduto ad adottare standard ambientali rigorosi, soprattutto nel campo del rallentamento dei tassi di inquinamento atmosferico e del trattamento dei rifiuti (specie di quelli altamente tossici), sono state introdotte una nuova regolamentazione dei processi produttivi e apposite certificazioni di beni e servizi, con l'obiettivo di internalizzare i costi ambientali delle attività economiche e sono state incentivati gli investimenti nel settore della green economy. In particolare, rilevanti passi in avanti sono stati compiuti nel risparmio energetico e nella riduzione della quantità di materie prime naturali utilizzate nell'industria, mentre nuovi materiali o nuove varietà migliorate di specie commestibili hanno aumentato di fatto le risorse disponibili. Minori risultati sono stati invece raggiunti nel diffondere nei Paesi in via di sviluppo – dove si sono trasferite quelle produzioni industriali non più permesse in Occidente – quelle tecnologie avanzate che permetterebbero loro una più rapida riconversione di attività produttive caratterizzate sì da alti costi in termini di capitale ambientale e umano, ma rivelatisi efficaci nel creare occupazione, pur se in un quadro segnato ancora da forti disuguaglianze. Questi problemi sono stati  al centro della nuova conferenza mondiale ONU su ambiente e sviluppo, nel giugno 2012 a Rio de Janeiro  che ha elaborato il documento non vincolante Risoluzione A/RES/66/288, intitolata "Il futuro che vogliamo". Da questa sono derivati gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) che hanno sostituito gli Obiettivi del Millennio che avevano come orizzonte temporale il 2015. Gli OSS sono 17 obiettivi interconnessi come strategia "per ottenere un futuro migliore e più sostenibile per tutti". Sono conosciuti anche come Agenda 2030, dal nome del documento che porta per titolo "Trasformare il nostro mondo. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile", che riconosce lo stretto legame tra il benessere umano, la salute dei sistemi naturali e la presenza di sfide comuni per tutti i paesi. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile mirano ad affrontare un'ampia gamma di questioni relative allo sviluppo economico e sociale, che includono la povertà, la fame, il diritto alla salute e all'istruzione, l'accesso all'acqua e all'energia, il lavoro, la crescita economica inclusiva e sostenibile, il cambiamento climatico e la tutela dell'ambiente, l'urbanizzazione, i modelli di produzione e consumo, l'uguaglianza sociale e di genere, la giustizia e la pace. Tutti i 193 membri dell’ONU hanno ratificato l’Agenda 2030.

Sociologia

Tale scienza ha spesso riprodotto una nozione di sviluppo derivata dalle discipline economiche, che in qualche caso ha prodotto letture fuorvianti del problema dello sviluppo sociale. Quest'ultimo, infatti, non può essere meccanicamente ricondotto a indicatori relativi alla ricchezza (o, econometricamente, al prodotto interno lordo o al reddito pro capite di una determinata comunità). Per gli studiosi di scienze sociali, l'idea di sviluppo è anzitutto di tipo relazionale, nel senso che prefigura un confronto fra due o più situazioni senza pretendere di misurare in assoluto i livelli dello sviluppo stesso. Inoltre, essa implica l'analisi delle potenzialità dell'oggetto di osservazione. Così, per esempio, un Paese sarà considerato sviluppato rispetto a un altro non solo e non tanto perché più ricco, quanto perché meglio attrezzato per l'utilizzazione di determinate risorse strategiche (anche qui, non solo materiali – come l'energia o i beni alimentari essenziali – ma anche legate al potenziale umano e scientifico, come la ricerca e la capacità tecnologica) e fornito di una completa rete di servizi civili (sanità, assistenza, istruzione ecc.) adeguati al soddisfacimento dei bisogni collettivi. Una sociologia dello sviluppo in senso proprio si è affermata soltanto negli anni Cinquanta e Sessanta del XX sec., non senza massicce influenze di tipo ideologico (terzomondismo, orientamenti rivoluzionari più o meno direttamente connessi alle diverse filosofie della modernizzazione). Un particolare interesse è stato rivolto – soprattutto in area anglosassone – al nesso sviluppo-industrializzazione e agli effetti sociali dell'urbanizzazione nelle comunità del Terzo Mondo. L'equazione che fa coincidere lo sviluppo con l'urbanizzazione e l'industrializzazione, cara alle teorie funzionalistiche, è stata però con il tempo sottoposta a severa revisione critica. Da più parti – come negli studi di G. Myrdal o di B. Moore – si sono evidenziati gli effetti distruttivi per gli equilibri socio-culturali dei processi di forzata omologazione ai modelli di sviluppo occidentali. E, più di recente, teorici e militanti ambientalisti hanno convincentemente collegato i fenomeni di distruzione e degrado delle risorse naturali locali con il declassamento della condizione civile (e perciò con lo sviluppo) in molte aree del Terzo Mondo, smentendo una visione puramente quantitativa e materiale del concetto stesso.

Bibliografia

Per l'economia

Autori Vari, Theories of Economic Growth, New York, 1960; I. Adelman, Theories of Economic Growth and Development, Londra, 1961; W. A. Lewis, Teoria dello sviluppo economico, Milano, 1963; P. Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Torino, 1967; R. T. Gill, Lo sviluppo economico, Bologna, 1968; B. Jossa, Progresso tecnico e sviluppo economico, Milano, 1969; J. Robinson, Saggi sulla teoria dello sviluppo economico, Milano, 1969; R. M. Solow, Growth Theory, An Exposition, Oxford, 1970; P. Sylos-Labini, Problemi dello sviluppo economico, Bari, 1970; G. Nardozzi, V. Valli (a cura di), Teoria dello sviluppo economico, Milano, 1971; C. Furtado, Teoria dello sviluppo economico, Bari, 1972; W. A. Eltis, Lo sviluppo economico, Bologna, 1973; G. Barbieri, G. Rosa, Terziario avanzato e sviluppo innovativo, Bologna, 1990.

Per la sociologia

B. F. Hoselitz, Sociological Aspects of Economic Growth, Glencoe, 1960; G. Gurvitch, Les pays en voie de développement, analyse sociologique et politique, Parigi, 1961; C. Geertz, Old Societies and New States, New York, 1963; J. Austruy, Le scandale du développement, Parigi, 1965; J. P. Nette, R. Robertson, International Systems and the Modernization of Societies, Londra, 1968; A. M. Hoogvelt, The Sociology of Developing Societies, Londra, 1976; G. Garofali, Modelli locali di sviluppo, Milano, 1991.

Quiz

Mettiti alla prova!

Testa la tua conoscenza e quella dei tuoi amici.

Fai il quiz ora