Definizione

(meno comune urbanismo), sm. [sec. XX; da urbano]. Attrazione esercitata dalle città sulle popolazioni di zone non urbane, le quali affluiscono continuamente alle città stesse, determinandone il sempre maggiore sviluppo demografico. Il fenomeno si configura, dal punto di vista territoriale e funzionale, come la tendenza a una crescita monocentrica degli insediamenti urbani (agglomerazione), innescata dalla presenza di grandi mercati o centri del potere politico-religioso (fase preindustriale) e, successivamente alla “rivoluzione industriale”, di materie prime o nodi di comunicazione (dapprima su porti o lungo linee ferroviarie) tali da attrarre la localizzazione degli impianti manifatturieri, con i conseguenti flussi di immigrazione della manodopera. Ben diverso – e in certo senso contrapposto – è il fenomeno dell'urbanizzazione, che investe il genere di vita degli abitanti con il forte aumento di domanda per i servizi pubblici e privati, segnandone la tendenza alla diffusione nelle aree periurbane e nell'intero bacino di influenza della città (conurbazione o regione urbanizzata) e legandosi in particolare allo sviluppo della motorizzazione (fase neoindustriale). Ciò nonostante, il valore percentuale della popolazione residente nelle città sulla popolazione totale di una regione o di uno Stato viene spesso definito “tasso di urbanizzazione” e, poiché la discriminazione fra città e non-città si basa generalmente su una soglia demografica assai variabile tra le convenzioni statistiche dei diversi Paesi (in numerosi casi, per esempio, si parte da centri di soli 2-3000 ab., pur se ricadenti nelle aree di gravitazione su centri maggiori), andranno valutate le singole situazioni riguardanti l'andamento delle correnti migratorie e le componenti del movimento demografico naturale al fine di distinguere correttamente l'urbanesimo dalle situazioni distributive della popolazione in cui i nuclei urbani centrali tendono addirittura a perderne quote crescenti (v. città, controurbanizzazione).

Storia: generalità

Se è vero che i primi fenomeni di urbanesimo risalgono alla più remota antichità (città mesopotamiche, egiziane, cinesi; ovviamente, Roma), le grandi migrazioni dalle aree rurali alle città, come luoghi di residenza e di lavoro, hanno preso rilievo solo nel sec. XIX, all'inizio del quale si stima che la popolazione urbana mondiale non superasse il 2-3% della totale. E ancora nei primi anni del sec. XX solo la Gran Bretagna contava oltre il 50% di abitanti nelle città, mentre il valore mondiale si aggirava intorno al 10% e le città “milionarie” risultavano poco più di una decina: Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Mosca, Pietroburgo, New York, Chicago, Filadelfia, Tōkyō, Calcutta. Intorno al 1950 il “tasso di urbanizzazione” raggiungeva il 25-28% e due città (Londra e New York) superavano addirittura gli 8 milioni di ab. ciascuna. Il ventennio successivo vedeva un'ulteriore impennata della quota di popolazione urbana (36%): si prospettava, peraltro, una netta diversificazione tra Paesi sviluppati, dove l'urbanesimo aveva raggiunto un'incidenza del 65% ma entrava in fase di transizione, e Paesi sottosviluppati, il cui tasso si aggirava intorno al 25%. Da allora, infatti, i primi hanno visto stabilizzarsi tale quota, mentre nei secondi l'urbanesimo prosegue con ritmi estremamente intensi. Si può dire che i Paesi economicamente più sviluppati mostrano un sostanziale arresto del processo di urbanesimo: le grandi città europee (nella Gran Bretagna, nella Germania, nei Paesi Bassi, nella stessa Italia) cessano di avere un saldo migratorio positivo e perdono quantità consistenti di popolazione non più soltanto a favore delle fasce suburbane adiacenti ma anche di zone agricole, dove, perduti i caratteri della ruralità, il genere di vita urbano si diffonde con le piccole industrie e i servizi. Viceversa, nei Paesi sottosviluppati l'urbanesimo tende ad assumere evidenti caratteri di ipertrofia, in quanto, mancando il sostegno delle localizzazioni produttive, le motivazioni del fenomeno sono dovute in massima parte a fattori di ordine diverso, come un'eccessiva pressione demografica nelle campagne o lo sviluppo incontrollato del settore terziario, in particolare di quello commerciale e della pubblica amministrazione, nonché la percezione distorta dei possibili vantaggi dell'inserimento nei circuiti dell'economia “monetaria” da parte delle popolazioni rurali.

Le tendenze recenti

La tendenza complessiva a un aumento della popolazione nelle aree urbane è proseguita negli Novanta del secolo scorso secondo le modalità già evidenti nei decenni 1970-80: nei soli Paesi occidentali a economia avanzata quella tendenza ha assunto una direzione profondamente diversa dal passato, e i bilanci demografici non solo delle grandi, ma anche delle medie e medio-piccole città si sono generalmente fatti negativi o tutt'al più stazionari, nonostante segnali di parziale ripresa dei centri urbani, mentre i centri di dimensioni minori continuano a crescere, talvolta a ritmi molto elevati se confrontati con i livelli di incremento demografico delle rispettive regioni. Nei Paesi meno sviluppati, invece, la concentrazione urbana e metropolitana continua senza pause. Complessivamente, circa il 45% della popolazione mondiale vive ormai in aree urbane; questo dato risente però principalmente della concentrazione urbana che si è da lungo tempo realizzata nei Paesi avanzati, dove le città assorbono generalmente da poco meno di due terzi (come in Svizzera o in Italia) a tre quarti (come in Francia, Canada, Stati Uniti, Giappone) della popolazione totale, ma dove si arriva a quote assai più consistenti, superiori all'80 e al 90% del totale (Svezia, Spagna, Germania, Gran Bretagna), fino a praticamente il 100% (Belgio). Nell'insieme dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo, invece, la popolazione urbana rappresenta appena il 34% del totale. La percentuale a livello mondiale, perciò, è mantenuta alta essenzialmente dai Paesi avanzati, nei quali la popolazione urbana continua a crescere, sia pure investendo, come si è detto, i centri minori; nei Paesi meno sviluppati, complessivamente, la crescita è analoga, anche se investe principalmente i centri maggiori. La circostanza, del resto, non può stupire, se solo si considera che il fenomeno urbano contemporaneo si è plasmato nei Paesi occidentali e di qui è stato “esportato” nelle altre parti del mondo, e che i Paesi occidentali sono e rimangono indubbiamente quelli più urbanizzati. Tutta la questione, in ogni caso, va inquadrata in base ad alcune considerazioni di fondo essenziali alla comprensione dei dati appena ricordati e dei molti altri che circolano in materia, suscitando spesso allarmismi che appaiono sempre meno giustificati. In primo luogo, la definizione statistica di popolazione urbana varia notevolmente da Paese a Paese: varia soprattutto la soglia minima al di sopra della quale un centro (o, meglio, una circoscrizione statistico-amministrativa: comune, contea, agglomerazione, area metropolitana ecc.) viene considerato di rango urbano; evidentemente, adottare soglie molto basse porta a registrare una popolazione urbana maggiore e viceversa; del resto, nei Paesi occidentali, a quantità anche relativamente modeste di popolazione accentrata, fanno riscontro condizioni strutturali che possono essere correttamente definite di tipo urbano (a differenza di molte altre regioni del mondo); ma, a ogni modo, risulta esclusa la possibilità di una comparazione stretta fra più Paesi. In secondo luogo, la distinzione fra Paesi “sviluppati” e Paesi “sottosviluppati” si è evoluta radicalmente, senza che a questa evoluzione corrispondesse una revisione degli aggregati statistici: Paesi come l'Argentina (89,9% di popolazione urbana) o la Corea del Sud (81,9%), per fare solo due esempi di Paesi cosiddetti in via di sviluppo (o anche, in questo caso, “emergenti”), ma a reddito pro capite paragonabile con quello di alcuni membri dell'Unione Europea, vengono tuttora considerati, ai fini statistici, nello stesso grande gruppo di Paesi che comprende anche, per esempio, l'India (28,4% di popolazione urbana), il Madagascar (29,6%) o l'Honduras (52,7%), che hanno redditi per persona di almeno una ventina di volte inferiori a quelli del meno ricco dei Paesi dell'Europa comunitaria. In altri termini, se i Paesi non occidentali relativamente più avanzati venissero scorporati dall'insieme di quelli in via di sviluppo, risulterebbe ancora più chiaramente che la grandissima maggioranza della popolazione urbana mondiale vive, come è di fatto, nei Paesi relativamente più ricchi, occidentali e non occidentali in cui, del resto, non è opportuno parlare di declino, ma semmai di riassetto urbano; mentre appare evidente che in molti dei Paesi considerati meno sviluppati la pressione demografica e soprattutto gli squilibri territoriali sono ancora tali da spingere all'inurbamento (o all'emigrazione all'estero) e dunque si assiste ancora alla fase crescente dell'urbanesimo, benché non sempre sostenuta da quell'industrializzazione che sostanziò l'urbanesimo europeo e nordamericano. Un caso a parte sembra essere rappresentato dalle metropoli giapponesi, che continuano a crescere rapidamente in popolazione, ma anche in infrastrutture, e che non presentano ancora fenomeni di degrado urbano; analogamente in crescita sono le altre città estremorientali (Singapore, Seoul, Hong Kong ecc.) coinvolte nei processi di crescita economica dei rispettivi Paesi. Nella maggior parte dei Paesi asiatici, in quelli africani e in quelli dell'America Latina, considerati nel loro complesso, l'urbanesimo continua a progredire a ritmi (intorno al 5% l'anno di incrementi demografici) più intensi dei rispettivi tassi di crescita demografica complessiva: 10 delle 13 agglomerazioni urbane con oltre 10.000.000 di abitanti (1995) si trovano in Paesi appartenenti al gruppo considerato meno sviluppato; sulla base delle osservazioni fatte, occorre aggiungere che in realtà le più grandi concentrazioni urbane continueranno senza dubbio a essere quelle già ora presenti nei Paesi più avanzati, e che gran parte delle metropoli del futuro si troveranno in quei Paesi per i quali già oggi non appare più proprio parlare di “sottosviluppo”. Mentre rimane ancora aperta la questione (lungamente dibattuta, ma senza esiti definitivi) se sia l'urbanesimo a produrre crescita economica, o se sia la crescita economica a provocare l'urbanesimo, appare comunque chiaro, anche dalle considerazioni appena fatte, che esiste una correlazione stretta fra i due fenomeni. Le condizioni di vita di una gran parte degli abitanti di queste città a crescita rapida tradizionalmente sono e rimangono deplorevoli, benché meno disperate che nelle aree rurali marginali da dove gli immigrati provengono e assai più variegate di quanto si sia portati a credere sulla base delle informazioni dei mezzi di comunicazione: anche le periferie urbane dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo presentano, infatti, ampie aree ben attrezzate, tipologie edilizie elevate e via dicendo; il che non toglie, evidentemente, che i quartieri abusivi (favelas, baraccopoli ecc.) siano tuttora ben presenti e si caratterizzino per un insieme di condizioni aberranti. Molti esperti ritengono ormai che, come è accaduto (ma per altre ragioni) nei Paesi europei nel corso del sec. XIX, anche nei Paesi in via di sviluppo la forte concentrazione di popolazione in aree urbane sia la premessa indispensabile all'avvio di un processo di crescita economica. Tuttavia, mentre il grande sviluppo delle città europee era correlato con la prima fase dell'industrializzazione, gli attuali fenomeni di urbanesimo dei Paesi in via di sviluppo spesso non sono sostenuti da un'adeguata espansione della domanda di forza-lavoro: né si tratterebbe, evidentemente, in nessun caso dello stesso tipo di industrie e di industrializzazione (e quindi dello stesso modello) che caratterizzò l'Europa ottocentesca. Ma è anche vero che i tentativi di riorientare i flussi migratori verso altre destinazioni (città nuove, città minori) spesso non sono riusciti nemmeno a frenare il processo di inurbamento che, quindi, sembra presentarsi come ineluttabile in date condizioni di riorganizzazione socio-economica. Molte di queste città gigantesche e poco strutturate soffrono di problemi enormi di approvvigionamento alimentare e idrico, di infrastrutturazione (strade, fogne, energia, trasporti pubblici ecc.), di controllo igienico-sanitario, di fornitura di servizi essenziali e così via, rendendo assai difficoltoso per i rispettivi governi anche il controllo sul piano sociale delle tensioni che inevitabilmente si possono produrre in tali condizioni: il mantenimento di queste agglomerazioni disorganiche assorbe una quantità di risorse finanziarie generalmente incompatibile con i livelli di spesa consentiti agli organi di governo locali e centrali, i quali non sono in grado di esercitare quella funzione di redistribuzione delle risorse, di perequazione, che la condizione della popolazione urbana più povera richiederebbe, e che l'esistenza di gravissimi squilibri socio-economici renderebbe comunque opportuna. In anni recenti i progetti di pianificazione urbanistica si sono concentrati sulle smart city. Nella definizione dell’economista G. Seisdedos, una città si definisce tale quando gli investimenti effettuati in infrastrutture di comunicazione, tradizionali (trasporti) e moderne (TIC), riferite al capitale umano e sociale, assicurano uno sviluppo economico sostenibile e un'alta qualità della vita, una gestione sapiente delle risorse naturali attraverso l'impegno e l'azione partecipativa. È stata nel 2010 la città di Rio de Janeiro il progetto pilota e uno dei primi esempi di implementazione intelligente delle tecnologie per il miglioramento della vita dei cittadini. Tra 2010 e 2020 l’UE ha investito 12 miliardi di euro nel progetto europeo per il miglioramento degli ambienti cittadini. Intesa come più recente evoluzione del processo di urbanizzazione, la smart city è entrata nel dibattito politico globale. Ad essa si è andato sempre più associando il concetto di città sostenibile che integra la mobilità dei cittadini all’interno di un paradigma green che prevede nuove tecnologie e connessione con tutti gli spazi verdi urbani.

Storia: l'Italia

Nel caso italiano l'urbanesimo è stato in larga misura influenzato, almeno inizialmente, dalle vicende storico-politiche. All'inizio del sec. XIX, mentre in Europa, i centri con popolazione superiore a centomila erano rari, in Italia se ne contavano ben sei: Napoli, Milano, Roma, Venezia, Palermo, Genova. Durante lo stesso secolo, tuttavia, quando negli altri Stati europei il numero delle città, anche di medio-grande ampiezza, si accresceva, in Italia tale sviluppo era relativamente più lento, in conseguenza del faticoso avviarsi del processo di industrializzazione. In sostanza continuavano a ingrandirsi, pure se in diversa misura, i grandi centri preesistenti e, in particolare, le capitali degli ex Stati in cui il Paese era diviso. Nel sec. XX la popolazione italiana ha proseguito la tendenza a concentrarsi nelle grandi città (con oltre 100.000 ab.), il cui peso demografico è passato dal 9,5% (1901) al 29% (1973). Da allora si è assistito a una progressiva inversione, in accordo con la fenomenologia, sopra descritta, che ha interessato i Paesi avanzati: al censimento del 1991, nelle 44 città che oltrepassavano quella soglia risiedeva il 26% della popolazione italiana, mentre la crescita dei centri di dimensione medio-piccola (sopra i 20.000 ab.) portava l'aggregato complessivo della popolazione urbana così valutata (ca. 450 comuni) al 55% del totale. Adottando, viceversa, un criterio funzionale, i comuni urbani sarebbero ben 860 e quelli semiurbani oltre 2800, con una incidenza complessiva pari al 75% dell'intera compagine demografica nazionale. Inoltre, già a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, è aumentata la presenza stabile di stranieri (1.270.553 al 01/01/2000) soprattutto nelle regione centrosettentrionali che ospitano l'83% degli stranieri regolarmente presenti in Italia. Al censimento del 2011 la popolazione è aumentata nell’81% dei comuni di dimensione intermedia (tra 5000 e 50.000 abitanti), nel 68,4% dei comuni tra 50.001 e 100.000 abitanti e nel 51,8% di quelli piccoli (meno di 5000 abitanti). Complessivamente, i comuni tra 5000 e 20.000 abitanti, hanno registrato un incremento di popolazione del 7,9%, quelli di medie dimensioni un incremento del 5,4%, mentre la popolazione è rimasta pressoché stazionaria nei comuni grandi (0,4%). Tuttavia, tra i comuni con oltre 100.000 abitanti, 295 hanno segnato un saldo positivo di popolazione di 249.107 abitanti rispetto al Censimento del 2001, mentre per gli altri 176 è risultato un saldo negativo di 193.526 individui. Inoltre, già a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, è aumentata la presenza stabile di stranieri (5.382.000 al gennaio 2020) soprattutto nelle regioni centrosettentrionali che ospitano l'83% degli stranieri regolarmente presenti in Italia.

 

 

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