La fine degli Aztechi

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Immediatamente dopo la scoperta del continente americano da parte di Cristoforo Colombo nel 1492, la Spagna organizzò una serie di spedizioni alla scoperta di nuove terre, di oro e di popolazioni pagane da convertire. La principale base per procedere alle conquiste era l’Isola di Cuba dove giunse nel 1504 un giovane capitano dal carattere rude e battagliero, Hernán Cortés. Il governatore di Cuba affidò a Cortés una spedizione sulle coste del Messico – allora creduto un’isola – dopo i tentativi falliti dei capitani Francisco de Córdoba e Juan de Grijalva. Nel 1519 Cortés approdò sull’isola di Cozumel, davanti alla penisola dello Yucatán, dove recuperò un naufrago spagnolo, Jerónimo de Aguilar, e riscattò una schiava indigena di nobili origini, la Malinche (chiamata poi Doña Marina) che diventerà sua preziosa interprete e compagna. Cortés proseguí il viaggio lungo la costa del Golfo fino a Zempoala, capitale dei Totonachi che lo accolsero amichevolmente e gli offrirono il loro aiuto nella guerra contro gli oppressori Aztechi che avevano invaso le loro terre. Accompagnato da guerrieri indigeni sempre piú numerosi, Cortés marciò contro la capitale di un Impero del quale non aveva mai sentito parlare e che egli sperava di trovare piena di tesori per giustificare l’avventurosa missione.

Moctezuma II era stato informato sui movimenti di truppe straniere che muovevano dalla costa e inviò i suoi ambasciatori con ricchi doni nel tentativo di persuadere gli Spagnoli a desistere nel loro cammino. Fu tutto inutile: Cortés si trovò già a Cholula, a pochi giorni di marcia da Tenochtitlán, dove, nel timore di essere tradito, commise una terribile strage della popolazione indigena, e l’8 novembre del 1519 giunse davanti alle porte della grande capitale che gli appariva come una splendida gemma in mezzo alla laguna. Nonostante fosse stato ricevuto con tutti gli onori da Moctezuma, Cortés diffidava del sovrano e lo fece quindi segregare nel suo palazzo: Moctezuma, il grande oratore, ormai tace. Il Conquistador era indeciso sulla strategia da seguire, quando si vide costretto ad abbandonare frettolosamente Tenochtitlán per affrontare delle truppe spagnole che lo avevano seguito da Cuba per togliergli il comando della spedizione. In sua assenza gli eventi precipitarono: durante le celebrazioni solenni nel Grande Teocalli, il suo luogotenente Pedro de Alvarado invase il centro cerimoniale e ordinò di uccidere tutta la nobiltà azteca, un atto che verrà ricordato nelle cronache come la Mattanza del Templo Mayor.

Al ritorno di Cortés nell’estate del 1520 la città era nel caos. Dopo l’uccisione di Moctezuma II durante una sommossa e aspri combattimenti nei quali trovarono la morte la maggior parte dei soldati, nella notte del 30 giugno – che verrà ricordata come la noche triste – gli Spagnoli furono costretti a fuggire davanti a una folla inferocita. Pazientemente Cortés riorganizzò le sue truppe e marciò nuovamente contro Tenochtitlán e questa volta, dopo un assedio durato tre mesi, riuscí a infliggere il colpo mortale all’Impero azteco: il 13 agosto 1521 la città fu data alle fiamme. I palazzi e i templi vennero distrutti e saccheggiati, gli idoli abbattuti, la popolazione massacrata e ridotta in schiavitú e l’ultimo sovrano azteco Cuauhtémoc, che era succeduto a Moctezuma, fu torturato e giustiziato.

Tenochtitlán venne rifondata con il nome di Città del Messico e divenne capitale della Nuova Spagna, mentre i Conquistadores proseguirono la loro marcia trionfale attraverso l’immenso territorio che aveva fatto parte dell’Impero azteco. Molti cronisti dell’epoca si sono cimentati nella descrizione delle imprese dei Conquistadores e non mancano le espressioni di sdegno per le crudeltà e l’avidità degli Spagnoli. Bernal Díaz del Castillo, che accompagnò Cortés in tutti i suoi viaggi, scrisse: «Ho letto il racconto della distruzione di Gerusalemme, ma credo che non vi siano stati tanti morti come qui a Messico… la città era come un campo arato e per le strade c’era un tale fetore che non lo potevamo sopportare». Bernardino de Sahagún, il grande studioso spagnolo che per primo raccolse i codici sulle tradizioni religiose e sociali degli Aztechi, racconta che durante il massacro del Templo Mayor «...il sangue scorreva come l’acqua quando piove, tutto il cortile era disseminato di teste, di braccia, di viscere e di corpi trucidati. In ogni angolo gli Spagnoli frugavano tra i corpi per ammazzare chi era ancora vivo… poi cominciarono a togliere l’oro dalle piume, dagli scudi e dagli addobbi cerimoniali... e fusero l’oro dei gioielli per farne dei lingotti».

E infine il frate Bartolomé de Las Casas, conosciuto come il “difensore degli Indios” e autore di un polemico memoriale nel quale chiama i suoi compatrioti «aguzzini agitati da cieca ambizione e diabolica brama», affermava che «furono enormi e abominevoli le tirannie perpetrate in Messico dove infinite popolazioni perirono… e il racconto degli scempi, degli assassinii e delle crudeltà commesse sono insopportabili da udirsi». L’urto tra le due civiltà – quella del Vecchio e quella del Nuovo Mondo – fu un evento tremendo ed è ancora una pagina nera sul libro della storia dell’intera umanità.