La funzione dei manager

La nozione di imprenditore, trattata nel capitolo precedente, è messa in discussione da alcuni aziendalisti perché oscura la distinzione tra soggetto economico e governo economico dell'impresa. Quest'ultimo, nelle aziende medie e grandi, è esercitato da manager, ossia dirigenti e funzionari che prendono decisioni senza conferire capitale proprio. L'insieme dei manager costituisce il management. Lo stesso termine è sinonimo di direzione, gestione, amministrazione, ossia del complesso delle direttive che devono essere assunte in qualsiasi tipo di organizzazione aziendale di una certa dimensione e indica la funzione dei manager.

Al vertice delle grandi imprese pubbliche e private, manager dotati di ampi poteri si contrappongono a figure che rivestono in maniera formale i ruoli tradizionali di potere, quali i proprietari del capitale aziendale.

Come abbiamo già osservato nel capitolo precedente, dove la proprietà azionaria è dispersa in un gran numero di azionisti per questo stesso fatto impossibilitati a esprimere una volontà unitaria e un controllo univoco, i manager del livello più alto godono di poteri quasi assoluti come avviene nelle public company. Ma, anche trascurando i casi più estremi, questo fenomeno, noto come separazione della proprietà dal controllo, è una peculiarità dell'economia dell'epoca moderna e sembra esprimere il prevalere delle risorse umane rispetto alle risorse finanziarie.

 

Eterogeneità dei fini di manager e di proprietari

Dato il diverso rapporto con il capitale di rischio conferito nell'impresa, le teorie economiche e aziendalistiche in generale postulano una sostanziale eterogeneità di interessi tra azionisti e manager. Ai manager vengono attribuiti obiettivi diversi da quelli della massimizzazione dei redditi degli azionisti: per esempio, la massimizzazione del valore delle vendite, in quanto, generalmente, le loro retribuzioni sono correlate alla dimensione dell'azienda. È questa la tesi dell'economista statunitense R. Marris. Secondo altre teorie i manager tendono a massimizzare le spese discrezionali, in particolare quelle più funzionali ad accrescere il loro prestigio e il loro potere. È appena il caso di sottolineare che tali spese costituiscono dei costi per le aziende.

 

La teoria dell'agenzia

L'analisi forse più soddisfacente della questione è stata proposta nell'ambito della cosiddetta teoria dell'agenzia (agency theory), intendendo per agenzia il contratto con il quale un principale delega un agente a compiere azioni nel suo interesse. Secondo questa teoria il problema nasce da fatto che non è possibile formulare un contratto che nello stesso tempo assicuri l'agente (manager) contro il rischio relativo al risultato da cui dipende la sua remunerazione e, dall'altro, massimizzi il profitto atteso per il principale (proprietario del capitale). Se entrambe le parti perseguono l'obiettivo della massimizzazione delle relative utilità, è improbabile che l'agente agisca effettivamente nel migliore interesse del principale. L'agente tenderà a sottrarsi almeno in parte ai propri doveri. Il principale dovrà sostenere costi di sorveglianza e costi legati a incentivi. Il rapporto tra principale e agente non può che risolversi in un contratto di scambio non massimizzante.

 

Come si incentiva la lealtà dei manager

Tra gli incentivi praticati da parte delle imprese per assicurarsi la lealtà dei manager si ricordano le forme di remunerazione variabile, legate ai risultati aziendali, e le stock option, opzioni che consentono ai manager di acquistare o di sottoscrivere azioni sociali a un prezzo di favore ed entro un certo intervallo temporale.