La teoria della crescita nella storia del pensiero economico

Adam Smith, il padre della moderna scienza economica, nella sua opera La ricchezza delle nazioni sostiene che la crescita economica di un paese è il risultato di una migliore organizzazione del processo produttivo, che determina, a parità di risorse impiegate, l'aumento del livello di reddito. In particolare, egli descrive come l'incremento della produzione e il conseguente allargamento dei mercati, permetta una maggior specializzazione dei lavoratori, che aumenta la loro produttività. Al crescere della produzione, quindi, la scarsità crescente delle risorse naturali è più che bilanciata dall'aumento dell'efficienza nello sfruttamento delle stesse, il che permette una crescita continua dell'economia.

David Ricardo, altro importante economista classico, sottovalutando il ruolo del progresso tecnico, non crede che questo possa sovrastare i limiti imposti alla produzione dalla scarsità delle risorse fisiche. Egli considera la società divisa in due classi: la prima, dei capitalisti, che risparmia e investe quanto guadagnato e la seconda, dei proprietari terrieri, che consuma tutto il proprio reddito. L'aumento della produzione determina una sempre maggior scarsità della terra e questo fa sì che una quota sempre maggiore del reddito prodotto venga assegnata ai proprietari terrieri. Poiché questi ultimi consumano tutto quanto ricevono, l'accumulazione mostrerà una tendenza continua alla diminuzione.

Un altro illustre economista, contemporaneo di Ricardo, è Thomas Malthus, il quale focalizza la propria attenzione sul fattore demografico. Egli sostiene che l'economia sia destinata a una stagnazione di lungo periodo perché gli eventuali periodi di prosperità, aumentando il tasso di natalità, determinano un aumento delle risorse destinate al sostentamento della maggiore popolazione e quindi una diminuzione di quelle destinate all'accumulazione. L'economia sperimenta continui aumenti e diminuzioni del prodotto, con una tendenza di lungo periodo alla stagnazione (è grazie a questo autore che la scienza economica si è meritata l'appellativo di “scienza triste”). La visione di Malthus sembra ben adattarsi alle economie di alcuni paesi in via di sviluppo, in cui il fattore demografico sembra essere il freno principale alla crescita.

Karl Marx attribuisce sempre al fattore tecnologico il ruolo centrale nel processo di crescita economica di un paese; egli sostiene, tuttavia, che un'economia di tipo capitalistico nel lungo periodo, conducendo inevitabilmente alla formazione di grandi monopoli e quindi al venire meno degli incentivi per migliorare le tecniche di produzione, è destinata a sperimentare crisi sempre più profonde. La crescita è quindi vista come un fenomeno momentaneo, destinato a sfociare in una grande crisi del sistema di produzione capitalistico.

La teoria della crescita schumpeteriana

Joseph Schumpeter riaccende, dopo più di un secolo, l'interesse della teoria economica per il processo di crescita. Egli considera, allo stesso modo degli economisti classici, il progresso tecnologico come il fulcro della crescita di un paese, distinguendo tuttavia le scoperte scientifiche, non guidate da motivi economici, dalle innovazioni, ossia le applicazioni di queste scoperte al mondo produttivo. La figura dell'imprenditore che cerca, mediante l'attività innovativa, di sconfiggere i concorrenti è l'aspetto cruciale della teoria schumpeteriana della crescita. L'imprenditore innovatore gode, nel lasso di tempo che intercorre tra la propria innovazione e quella successiva, dei profitti derivanti dalla sua posizione monopolistica sul mercato; tuttavia questi profitti rappresentano anche lo stimolo per altri imprenditori a innovare e a distruggere quindi il suo potere di monopolio. La crescita economica è il risultato della continua introduzione di innovazioni, da cui l'espressione “distruzione creatrice” per descrivere questo tipo di processo. La formulazione rigorosa di questo modello si avrà solo dopo la metà degli anni Ottanta del Novecento all'interno del filone di letteratura che prende il nome di teoria della crescita endogena.

La teoria della crescita neoclassica

Robert Solow presenta intorno ai primi anni Cinquanta quello che si rivelerà il modello dominante nella teoria economica della crescita fino alla metà degli anni Ottanta, il modello di crescita neoclassico. Come negli autori classici il progresso tecnico è guidato da forze esogene al sistema economico ma, eliminata la divisione in classi degli individui componenti un'economia, si assume che ognuno destini una parte costante del proprio reddito al risparmio e quindi all'accumulazione. Il rapporto fra la quantità di risparmio e reddito prende il nome di saggio di risparmio. Un importante risultato di questo filone, che contrasta con quanto sostenuto dagli economisti classici, è che il tasso di crescita dell'economia è stabilito dal progresso tecnico e il saggio di risparmio determina esclusivamente il livello di reddito ma non il tasso di crescita. Questa conclusione implica però una convergenza nei tassi di crescita dei diversi paesi e contrasta quindi fortemente con l'evidenza empirica. Da qui nasce la ricerca di un più soddisfacente modello di crescita, in cui il progresso tecnico non sia più assunto come esogeno, ma possa essere spiegato all'interno del modello stesso (crescita endogena).

La teoria della crescita keynesiana e postkeynesiana

Intorno agli anni Quaranta del Novecento Roy F. Harrod presenta un modello di crescita, successivamente ripreso da Evsey D. Domar, che risponde alle logiche di un'economia keynesiana. L'investimento, creando esso stesso la domanda, determina il livello del reddito, per cui, a maggiori investimenti generati da aspettative positive sulla crescita dell'economia, corrisponde un aumento effettivo del reddito; questo dà il via a un processo di crescita autoalimentantesi. Poiché il meccanismo funziona in entrambe le direzioni (anche in caso di aspettative negative sul reddito futuro, che portano ad una continua contrazione dell'attività economica), caratteristica peculiare di questo tipo di modello è l'intrinseca instabilità dell'economia, soggetta, se non adeguatamente regolata, a forti oscillazioni nella produzione. Il progresso tecnico viene messo in secondo ordine e grande risalto assumono i fattori che influenzano il comportamento degli investitori (animal spirits, aspettative, investimento, acceleratore) e la funzione regolatrice dell'intervento pubblico.

Nicholas Kaldor e Luigi Pasinetti sono gli studiosi più rappresentativi di un importante filone di letteratura sulla crescita degli anni Sessanta, che va sotto il nome di teoria della crescita postkeynesiana. Alla base di tale filone di studi è l'ipotesi classica di divisione dell'economia in due classi, la prima di salariati che consumano interamente il proprio reddito e la seconda di percettori di profitti sul capitale che consumano solo una parte del proprio reddito e investono il rimanente a fini di accumulazione. La divisione del reddito fra le due classi, che generalmente si considera avvenga sulla base dei rapporti di forza, determina il tasso di crescita dell'economia. Tra i maggiori meriti di questo tipo di modelli è proprio l'aver posto una maggiore attenzione sul fattore istituzionale, rappresentato dalla regola di divisione del prodotto.

La teoria della crescita endogena

Come già accennato, tra i contributi più recenti particolare importanza rivestono i modelli in cui il progresso tecnico, che determina il tasso di crescita dell'economia, non viene più considerato una variabile esogena, ma una variabile da determinare e spiegare a partire da altre variabili economiche: la crescita è endogena. Nicholas Kaldor e Kenneth Arrow già negli anni Sessanta tentarono di spiegare in termini economici il progresso tecnico. Arrow sosteneva che quest'ultimo si genera essenzialmente nell'apprendimento che si ricava nell'atto stesso di produrre (learning by doing). All'inizio degli anni Ottanta Paul Romer presenta un modello di chiara ispirazione schumpeteriana, in cui l'attività innovativa è guidata dai profitti di monopolio che l'innovatore ottiene grazie alla sua attività inventiva. Un aspetto fondamentale è la cumulatività delle innovazioni, ossia la proprietà secondo cui ogni innovazione rende meno costosa la successiva. Negli anni Sessanta Gary Becker evidenzia come il capitale umano sia una risorsa decisiva nello stabilire la crescita di un paese. È tuttavia solo con Robert Lucas (1988) che si esplicita un modello in cui è l'accumulazione di capitale umano a guidare la crescita di un paese. Alcuni dei più recenti modelli riguardo l'accumulazione di capitale umano analizzano l'importanza della struttura istituzionale dei mercati come l'imperfezione del mercato dei capitali. Nel caso di crescita guidata dall'accumulazione di capitale umano, il razionamento del credito agli individui più poveri può impedire loro di investire nella propria istruzione e questo si traduce in una minor crescita complessiva dell'economia. In tal modo i paesi più poveri possono essere quelli che crescono di meno: è la cosiddetta trappola della povertà.