I costi dell'inflazione

Poiché la moneta circolante ha un rendimento nominale nullo, l'inflazione riduce il rendimento reale della detenzione di moneta. Gli operatori economici tendono quindi a detenere meno moneta e meno attività non indicizzate al livello dell'inflazione all'aumentare di quest'ultima.

L'effetto negativo più ovvio ed evidente di un alto tasso di inflazione è pertanto quello di rendere meno efficienti gli scambi, a causa delle più frequenti conversioni delle attività finanziarie in moneta. Tale costo, denominato shoe-leather cost (il costo associato al consumo della suola delle scarpe, per i frequenti passaggi in banca) è però tutto sommato trascurabile, fatta eccezione per i casi di iperinflazione.

Contenuto è anche l'effetto economico dei costi associati al continuo aggiornamento dei prezzi di listino (menu costs), sebbene si possa dimostrare che, in teoria, anche costi di listino molto limitati possono generare rilevanti inefficienze a livello aggregato

Effetti economici più rilevanti sono da attribuire alle conseguenze dell'inflazione sul sistema tributario. Vi sono innanzitutto effetti distorsivi sugli incentivi degli operatori privati; come rilevato da Martin Feldstein (1983), l'inflazione può ridurre gli incentivi a investire: essendo i capital gains e gli interessi grandezze nominali, l'inflazione aumenta la pressione tributaria sul reddito da capitale.

Inoltre, se il calcolo dell'ammortamento è basato sul costo storico dell'investimento, anziché sul suo costo di rimpiazzo, il valore reale dell'ammortamento è eroso dall'inflazione (si ha quindi una disincentivazione degli investimenti fissi).

In secondo luogo, l'inflazione può portare a un aumento della pressione fiscale in presenza di imposizione progressiva: se gli scaglioni di reddito su cui si praticano le diverse aliquote fiscali non sono opportunamente indicizzati, l'inflazione rende apparentemente maggiori redditi in realtà immutati in termini reali (fiscal drag).

Un effetto ulteriore dell'inflazione sulla tassazione ha luogo sul valore reale del gettito fiscale: come evidenziato da Julio Olivera e Vito Tanzi, poiché la raccolta del gettito presenta un ritardo temporale rispetto al momento della produzione della base imponibile, l'inflazione può avere effetti destabilizzanti sul bilancio pubblico: politiche fiscali espansive realizzate in disavanzo possono causare un incremento dei prezzi, il quale a sua volta riduce il valore reale delle entrate pubbliche, portando ad un ulteriore aggravamento del deficit di bilancio. Per esempio, la forte inflazione che caratterizzò la Bolivia nella prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso ridusse il gettito fiscale, in termini reali, a un ammontare inferiore all'1,3% del PIL, quasi azzerando le risorse disponibili per il funzionamento dello Stato.

Altri effetti negativi dell'inflazione sono riconducibili a inefficienze allocative, dovute al fatto che i diversi prezzi non vengono adeguati all'unisono, e pertanto si generano temporanee modifiche dei prezzi relativi, oppure originate dalla scarsa capacità degli operatori di prevedere esattamente i tassi di inflazione futuri, e quindi di pianificare al meglio i propri impegni a lungo termine. A questo proposito, occorre sottolineare come una alta inflazione significhi in genere anche una inflazione molto variabile, e quindi meno prevedibile. Si ha in sostanza un effetto della media sulla varianza; si tenta pertanto di ridurre il tasso di inflazione per fare in modo che sia anche più facilmente controllabile e prevedibile.

Non da ultimi, occorre ricordare gli effetti distributivi dell'inflazione, che realizza una redistribuzione delle risorse dai creditori ai debitori, riducendo il valore reale dei debiti contratti in passato, e decurtando il rendimento reale delle attività finanziarie a tasso non indicizzato. Se si tiene inoltre conto del fatto che spesso sono proprio i più poveri a detenere quote rilevanti della propria ricchezza o del proprio reddito in forma liquida, allora l'inflazione sembra avere effetti distributivi particolarmente indesiderabili.

L'indicizzazione dei contratti

L'indicizzazione di tutti i contratti (dai contratti di lavoro, a quelli di compra-vendita e di affitto, ai contratti di debito), se da un lato sembra ridurre alcuni costi dell'inflazione, dall'altro ha effetti negativi sia sulle decisioni di produzione (si aumenta l'incertezza sul livello dei costi da sopportare, in primo luogo i costi del lavoro), sia sugli incentivi dei policy-makers a ridurre l'inflazione: rendere l'economia a prova di inflazione può ridurre il costo di un dato livello di inflazione, ma aumentare il tasso di inflazione medio. L'esperienza della Germania tra il 1922 e il 1923 è a tale proposito illuminante: l'indicizzazione dei prezzi e dei salari divenne via via più frequente, fino a richiedere la fissazione dei prezzi sulla base di un “indice giornaliero dei prezzi attesi”. La sola indicizzazione inoltre non sembra in grado di limitare le rivendicazioni di reddito da parte dei diversi operatori, e diffonde a tutta l'economia incrementi di prezzo altrimenti circoscritti; essa rende pertanto meno flessibili i prezzi relativi, in primo luogo il salario reale, e può essere in tal modo causa di gravi inefficienze allocative.

Una stima dei costi dell'inflazione

I costi dell'inflazione sono molteplici e fastidiosi ma solo quando essa raggiunge le dimensioni dell'iperinflazione i suoi costi diventano veramente gravi. In generale, in condizioni di inflazione moderata, quella che resta al di sotto del 10 per cento, la stima dei costi relativi è controversa e per alcuni economisti la loro entità non è particolarmente preoccupante. Se la politica monetaria è neutrale sul lungo periodo, essa può avere conseguenze sensibili sul breve periodo. In particolare, una drastica riduzione del tasso di inflazione potrebbe avere conseguenze negative sulla produzione e sull'occupazione. Le politiche di breve periodo sono discusse più avanti.