Moneta e inflazione

L'inflazione si può definire l'aumento del livello generale dei prezzi protratto nel tempo. Detto in altri termini, ma il significato è lo stesso, l'inflazione è la graduale perdita di potere d'acquisto dell'unità monetaria.

L'ISTAT, l'istituto centrale di statistica, pubblica un'interessante tavola che presenta il valore della lira dal 1861 a oggi. Quella che è stata la moneta prima del Regno d'Italia e poi della Repubblica italiana per 140 anni circa, la lira, oggi sostituita dall'euro, all'inizio del periodo valeva quasi 7.000 volte la lira attuale. Se consideriamo un periodo più breve, poniamo circa un quarto di secolo, constatiamo che la lira del 1999 valeva meno di un decimo di quella del 1973.

Per avere inflazione occorre che un indice generale dei prezzi, che è una media di tutti i prezzi, registri una crescita.

in cui il flusso di transazioni in termini nominali risulta uguale al flusso dei pagamenti corrispondente: il primo (TP) è il prodotto tra un indice complessivo delle transazioni e un indice di prezzo medio in cui queste hanno luogo; il secondo (MV) è dato dal prodotto tra la data quantità di moneta e la sua velocità di circolazione, ossia il numero medio di volte in cui tale quantità viene impiegata nell'unità di tempo per finanziare uno scambio.

Secondo la teoria quantitativa della moneta, ed ipotizzando una velocità di circolazione della moneta costante, si può collegare un aumento del livello dei prezzi a una crescita dell'offerta di moneta maggiore della crescita del prodotto reale: un eccesso di offerta di moneta conduce quindi da un lato a un incremento della domanda di beni, dall'altro a un incremento della domanda di attività finanziarie, che tende ad abbassare i tassi di interesse e stimolare gli investimenti; ne deriva pertanto un incremento della domanda aggregata che, se l'economia non presenta capacità produttiva inutilizzata ed è quindi vicina alla piena occupazione, si sfoga sul livello dei prezzi. Il tasso di inflazione risulta pari alla differenza tra tasso di espansione della offerta di moneta e tasso di crescita del prodotto reale.

Dicotomia classica

Ad analoghe conclusioni si giunge seguendo l'impostazione nota come dicotomia classica, consistente nella separazione delle determinanti della variabili reali dalle determinanti delle variabili nominali. Si definiscono variabili reali quelle che rappresentano quantità fisiche, come il prodotto interno lordo, lo stock di capitale, il volume delle importazioni e delle esportazioni, ecc. o che indicano prezzi relativi, come il salario reale (che rappresenta il prezzo del tempo libero rispetto al consumo), il tasso di interesse (che esprime il prezzo di un bene futuro in termini di quantità dello stesso bene oggi), o la ragione di scambio tra due beni. Le variabili nominali sono invece espresse in termini di moneta: i prezzi, i salari monetari, il tasso di cambio espresso in moneta. La dicotomia classica caratterizza la teoria macroeconomica classica (quella elaborata dai primi economisti, tra i quali è compreso il filosofo inglese David Hume), e consente di ignorare l'andamento delle variabili nominali nello studio delle variabili reali.

Secondo la dicotomia classica, la quantità di moneta offerta non incide sul livello della produzione (neutralità della moneta). La dicotomia classica è ritenuta da molti economisti approssimativamente corretta nell'analisi del lungo periodo; al contrario, nel breve periodo, se i prezzi e i salari nominali si modificano lentamente (vischiosità di prezzi e salari) a seguito di variazioni dell'offerta di moneta, allora quest'ultima ha degli effetti reali. La stessa distinzione tra breve e lungo periodo è del resto spesso legata al comportamento dei prezzi: rigidi nel breve e flessibili nel lungo periodo.

La teoria keynesiana nega la dicotomia classica, in quanto fa dipendere il tasso di interesse dal comportamento della domanda e dell'offerta di moneta, e stabilisce quindi un legame importante tra mercato della moneta e variabili reali, come tasso di interesse, investimenti, livello del prodotto.

L'iperinflazione e le sue cause

Secondo l'economista americano P. Cagan si deve parlare di iperinflazione quando il tasso di crescita dei prezzi supera il 50 per cento su base mensile. Gli episodi di iperinflazione sono necessariamente collegati a un'ampia espansione dell'offerta di moneta.

In generale, l'emergere dell'iperinflazione è legato a eventi straordinari, quali guerre, rivoluzioni o mutamenti di regime, che impongono ai paesi di finanziare con l'emissione di moneta ingenti disavanzi di bilancio.

Questo è quanto avvenuto, per esempio, nei primi anni Venti, nella Germania di Weimar, in Austria e in Ungheria paesi in cui l'onere delle riparazioni di guerra dopo il primo conflitto mondiale e la necessità di sussidiare ampi strati della popolazione generarono enormi deficit di bilancio, inevitabilmente monetizzati. Per avere un'idea del caos monetario generato dall'iperinflazione, basti pensare che in Germania l'incremento dei prezzi raggiunse in quell'epoca tassi del 30.000 per cento mensile.

Quando lo stato finanzia la sua spesa stampando moneta, in pratica preleva una imposta inflazionistica. L'aumento della moneta (spostamento verso destra della curva di offerta della fig. 18.1) fa salire il livello dei prezzi e riduce il valore del denaro nelle tasche degli individui. Ha lo stesso effetto di un'imposta su chi detiene denaro.