Approfondimenti

  • Le nuove teorie dell'impresa

Le nuove teorie dell'impresa

Nella teoria neoclassica dell'impresa questa è vista di solito come un'unità produttiva che massimizzava il profitto in un ambiente (per lo più) perfettamente concorrenziale, e l'analisi del comportamento dell'impresa (cioè l'analisi di come questa reagisce a certi prezzi di mercato, in concorrenza perfetta; o a certe condizioni di domanda, in regime monopolistico: vedi capitolo seguente) costituisce un ingrediente essenziale dell'analisi più generale della funzione allocativa del meccanismo dei prezzi.

Quella teoria si basa su tre ipotesi implicite, tra loro interdipendenti: l'impresa è caratterizzata da una sua tecnologia, rappresentata a livello astratto dall'insieme dei processi produttivi o tecniche fattibili; il numero delle imprese presenti nell'economia è dato; e la struttura interna dell'impresa è quella di una gerarchia perfetta: l'impresa massimizza il profitto perché questa è la direttiva che i suoi proprietari impartiscono ai manager e che questi eseguono.

Il quadro è fortemente semplificato e si presta a una formalizzazione efficace, ma ciò a costo di una certa mancanza di realismo. Dalla messa in discussione e dall'abbandono delle ipotesi implicite sopra enunciate sono nati gli sviluppi più recenti e tuttora in pieno svolgimento della teoria dell'impresa.

Le teorie manageriali dell'impresa

Sotto la denominazione di teoria manageriale dell'impresa sono raccolti una pluralità di contributi teorici (di W. Baumol, O. Williamson, R. Marris ecc.) che focalizzano l'attenzione sul fenomeno della separazione tra proprietà e controllo dell'impresa. La proprietà delle grandi imprese moderne è, infatti, spesso distribuita tra una vasta pluralità di azionisti e questi, in quanto semplici investitori, tendono a disinteressarsi della gestione diretta dell'impresa, affidata a manager professionisti. Le funzioni imprenditoriali di gestione e di assunzione del rischio d'impresa sono, in questo caso, svolte da distinti agenti economici con interessi diversi e contrapposti. I proprietari sono interessati al valore di mercato dell'impresa, alla redditività e sicurezza dei loro investimenti e, quindi, alla massimizzazione dei profitti. I manager sono invece interessati agli stipendi, alla posizione sociale, al prestigio, al potere e alla sicurezza del posto di lavoro.

Questa differenza nelle funzioni obiettivo è causa di inefficienze perché gli azionisti non dispongono delle informazioni e delle capacità tecniche necessarie per controllare perfettamente il comportamento dei manager che tendono, quindi, a perseguire i propri interessi in modo discrezionale.

Le teorie manageriali prendono in esplicita considerazione il problema del controllo, da parte degli azionisti, dell'operato dei manager e mettono in discussione l'assunzione, propria della teoria neoclassica, dell'obiettivo di massimizzazione del profitto. I diversi contributi teorici si distinguono tra loro per le diverse ipotesi circa la funzione obiettivo che viene massimizzata dai manager nel perseguimento dei loro interessi. Per Baumol, i manager hanno interesse ad accrescere il più possibile la dimensione dell'organizzazione al fine di consolidare la loro posizione e il loro prestigio. Williamson suppone che i manager siano interessati ad accrescere il loro potere attraverso l'accumulazione di fondi utilizzabili in modo discrezionale mentre secondo Marris viene massimizzato il tasso di crescita bilanciato della dimensione di impresa e del capitale produttivo. In tutti questi modelli, l'ottenimento di un livello minimo di profitto non viene considerato dai manager come obiettivo ma come vincolo che deve essere rispettato per potere garantire una remunerazione sufficiente ai proprietari. I manager rischiano, infatti, di essere sostituiti dagli azionisti se non garantiscono una remunerazione soddisfacente del capitale investito nelle azioni della società. Dividendi troppo bassi (dovuti alla mancata massimizzazione dei profitti) peggiorano, poi, la valutazione delle azioni ed espongono l'impresa al rischio di scalate azionarie (take over) che, con il cambiamento della struttura proprietaria, portano in genere alla sostituzione del gruppo dirigenziale.

La teoria principale/agente

Le diverse teorie manageriali dell'impresa non hanno però messo a fuoco la natura del rapporto azionista/manager e le sue implicazioni per l'impresa e per i mercati. Ciò è stato possibile solo dopo che gli sviluppi dell'economia dell'informazione hanno messo a disposizione degli studiosi dell'impresa la teoria del rapporto d'agenzia.

Secondo questa teoria l'azionista è il principale e il manager è l'agente. Questi ha più informazioni del primo e quindi la sua azione risulta a quello nascosta. Nasce da ciò per il principale il problema di trovare uno schema d'incentivazione e, per lo studioso, di valutare le proprietà d'efficienza dei vari schemi. Queste dipendono in maniera cruciale dalle attitudini verso il rischio dell'agente e del principale: se il primo è neutrale al rischio e il secondo ne è avverso, allora il manager dovrebbe essere pienamente “assicurato” con un compenso fisso; ma ciò ne ridurrebbe l'incentivo a lavorare al meglio. D'altra parte per indurre il manager ad assumersi dei rischi lavorando al meglio, l'azionista dovrebbe pagarlo più di quanto non sia disposto a fare. È chiaro che una via d'uscita è di legare i compensi del manager ai profitti dell'i. o, ancor meglio, ai profitti futuri (come avviene quando i managers sono pagati con stock options, opzioni sulle azioni della società).

La teoria evolutiva della impresa

Il comportamento delle imprese è stato anche studiato ricorrendo a concetti tipici della biologia come evoluzione, selezione naturale e mutazione. Il principale contributo teorico della teoria evolutiva dell'impresa è da ricercarsi nel lavoro di R. Nelson e S. G. Winter (1982). Questa impostazione abbandona il concetto, caro alla scuola neoclassica, di impresa rappresentativa guidata da un imprenditore razionale e massimizzante, per concentrarsi sulla diversità delle singole imprese e sulla limitata razionalità degli agenti. Si suppone che ogni impresa, impossibilitata a seguire un comportamento di mera massimizzazione a causa della sostanziale incertezza che caratterizza l'ambiente circostante e delle limitate capacità di calcolo degli agenti, si prefigga un obiettivo soddisfacente. Quest'ultimo può essere un determinato livello di profitto, un certo saggio di espansione o la conquista di una determinata quota di mercato. Ogni impresa cercherà poi di individuare una routine, ovvero una serie di procedure standardizzate che regolano l'intera attività dell'impresa, che le permetta di raggiungere l'obiettivo prefissato.

Dal momento che le singole imprese differiscono tra loro per efficienza, propensione alla crescita, creatività, informazioni disponibili e capacità organizzativa, gli obiettivi e a maggior ragione le routine da esse individuate risulteranno eterogenee. Queste diversità si confrontano poi sul mercato: le imprese che ottengono performance inferiori alla media vengono inesorabilmente costrette a rivedere i propri obiettivi e le proprie routine oppure ad abbandonare il mercato stesso. La revisione delle routine può avvenire in due modi: a) modificando solo marginalmente le decisioni prese in passato e adattandosi dunque alle esigenze del mercato; b) rivoluzionando il proprio comportamento al fine di cercare nuovi spazi e rivoluzionare il settore in cui si opera. Nel primo caso gioca un ruolo fondamentale l'imitazione delle routine utilizzate dalle imprese che ottengono i migliori risultati; nel secondo ci si trova invece di fronte a una vera e propria innovazione, simile alle mutazioni biologiche. Questo continuo processo di selezione, imitazione e mutazione non assicura però che le imprese adottino un comportamento equivalente a quello massimizzante. Ciò che importa è che esse riescano a sopravvivere sul mercato.

La teoria economica delle scalate

Il manager può essere indotto a massimizzare il profitto anche da meccanismi diversi da quello di un compenso monetario incentivante, come la minaccia delle scalate (take-over). Un manager che non massimizzi i profitti deprime il valore attuale dell'impresa e ciò, nell'ipotesi, che questo valore sia riflesso nel valore di mercato delle azioni, espone l'impresa a essere acquistata da uno scalatore (raider) che, dopo aver licenziato il vecchio manager, realizza con quello nuovo una rivalutazione dell'impresa, grazie a una gestione migliore (più vicina alla massimizzazione del profitto). Le ricerche empiriche non danno indicazioni univoche sull'efficacia di questo meccanismo nel garantire la massimizzazione del profitto (o del valore di mercato), ma questo sembra l'effetto più probabile della minaccia delle scalate.