Gianni Vattimo

Portavoce in Italia del pensiero del postmoderno è stato principalmente Gianni Vattimo (Torino 1936), allievo di L. Pareyson, interprete della critica alla metafisica intrapresa da F. Nietzsche e sviluppata da M. Heidegger, divulgatore dell’ermeneutica di H.G. Gadamer che egli stesso ha introdotto nel dibattito filosofico italiano curando la traduzione di Verità e metodo. Ha insegnato estetica e filosofia teoretica all’università di Torino. Dopo Essere storia e linguaggio in Heidegger (1963), Il soggetto e la maschera (1974), Le avventure della differenza (1980), Al di là del soggetto (1981), nella raccolta Il pensiero debole (con P.A. Rovatti, 1983) ha configurato la filosofia come “pensiero debole”, chiamandola ad abbandonare il suo ruolo fondativo e ad intendere la verità non come adeguazione del pensiero alla realtà, ma quale interpretazione. Il “pensiero debole”, la corrente filosofica che si è raccolta attorno a tale proposta – alla quale hanno aderito, a varia stregua e in vari momenti, P.A. Rovatti, A.G. Gargani, M. Ferraris e altri –, si è presentata come un tentativo di radicalizzare al massimo la “crisi della ragione” che pervade gran parte della filosofia contemporanea dopo F. Nietzsche e M. Heidegger. Con questo stile di pensiero postmoderno Vattimo ha avanzato un’”ontologia debole”, o “ontologia del declino”, per la quale l’essere va pensato sotto il segno della mortalità: la caducità è ciò che fa l’essere. In tale prospettiva il pensiero dell’essere (la filosofia) deve diventare a sua volta debole e caduco: non cercare di comprendere l’essere attraverso una spiegazione logica o metafisica, ma limitarsi a prendere atto della sua mortalità e a ripercorrere le tappe del suo declinare. Un tipo di filosofia puramente rammemorante, da indicare e praticare come pietas. Nella sua opera di maggior fortuna e influenza, da titolo programmatico: La fine della modernità (1985), Vattimo ha insistito sui tratti postmoderni del “pensiero debole”, relativi alla frammentazione e pluralità del reale, alla molteplicità dei giochi linguistici e delle forme del sapere, alle differenze e contaminazioni dei generi, invitando ad accettare remissivamente e permissivamente l’effimericità e instabilità del divenire delle cose. Per questa via ha tratteggiato la possibilità di un “nichilismo gaio”, nel senso della “gaia scienza” nietzschiana, un nichilismo che accetta consapevolmente la finitudine così com’essa è e viene, senza aspirare in modo nostalgico a improponibili unità perdute e valori ormai definitivamente entrati in crisi.