Il periodo delle origini

La poesia: i carmina

Nel periodo preletterario delle origini la poesia si limitava alla sfera del pratico e dell'occasionale, cantando i sentimenti più sentiti della vita spirituale, religiosa e civile in componimenti detti carmina (da cano: canto), che usavano il verso saturnio. In ambito letterario il termine viene utilizzato per designare componimenti poetici di notevole estensione, mentre in questa fase antica, carmen non indica solo quello che è cantato, e cioè i componimenti in poesia, ma più genericamente tutto ciò che è di particolare solennità, che sta fuori dal parlato quotidiano, e quindi anche la prosa. Si trova così applicato alle più disparate forme di comunicazione, dalle preghiere alle filastrocche infantili e alle formule magiche, dalle leggi alle profezie e agli incantesimi, dalle nenie funebri ai giuramenti. I carmina hanno un contenuto piuttosto ingenuo e mostrano una certa rozzezza stilistica, nonostante il tentativo di elevare il tono espressivo. Mezzi tecnici poveri (rima, allitterazione, assonanza, figura etimologica e simmetria) e la cadenza di cantilena monotona aiutavano l'apprendimento a memoria.

I carmina religiosi

Tra i più antichi canti della poesia religiosa, risalenti al sec. VI a.C., vi è il Carmen Saliare, legato ai riti magico-religiosi dei Salii, è uno dei primi testi romani pervenuti, di cui sono rimasti pochi e spesso incomprensibili frammenti, conservati dagli eruditi latini. Ogni anno, in marzo e in ottobre, per celebrare l'apertura e la chiusura della stagione della guerra, i Salii (da salio: salto), i dodici sacerdoti di Marte, percorrevano in processione, vestiti da antichi guerrieri, i luoghi più importanti di Roma, intonando preghiere di invocazione agli dei, danzando e battendo con il piede il suolo con colpi forti e regolari in ritmo ternario, percuotendo con bastoni gli ancilia, i dodici scudi sacri di bronzo. Secondo la tradizione il collegio dei sacerdoti Salii era stato fondato dallo stesso Numa Pompilio per custodire l'ancile caduto miracolosamente dal cielo, pegno divino per la salvezza di Roma, e gli altri undici perfettamente uguali al primo, costruiti dal fabbro Mamurio Veturio.

È invece pervenuta una versione completa e attendibile del Carmen Arvale, risalente al sec. VI, perché il testo veniva trasmesso di generazione in generazione. È un canto propiziatorio affinché gli dei invocati diano fertilità ai campi. Il carmen si trova nei numerosi frammenti di un'epigrafe del 218 d.C. degli Acta fratrum Arvalium, in cui il collegio sacerdotale registrava la propria attività. Il canto, in versi saturni, ognuno ripetuto tre volte tranne l'ultimo ripetuto cinque volte, costituiva il momento culminante della processione della festa Ambarvalia nel mese di maggio. Il carmen, di difficile interpretazione, invoca i Lari, Marte e i Semoni perché proteggano i campi (arva) dalle pestilenze. Veniva eseguito durante il rito della purificazione dei campi e in altre cerimonie dai fratres Arvales, il collegio di dodici sacerdoti, tutti patrizi, dediti al culto della divinità agricola Dia, la terra nutrice, istituito secondo la tradizione da Romolo.

I carmina profani

Legati alla sfera privata e profana sono i carmina convivalia, canti che, come riporta Cicerone, "era regola nei banchetti degli antenati che gli invitati cantassero uno dopo l'altro, accompagnati dal flauto, le gesta e le virtù degli uomini illustri". In questi banchetti (convivia) i ceti più elevati si incontravano quasi quotidianamente, ricambiando a turno cene di carattere politico, e la poesia, la musica e la danza assumevano un ruolo importante. I carmina celebravano, probabilmente in saturni, le imprese gloriose di antenati illustri. Non si conosce nulla degli eroi celebrati, perché non è pervenuto neppure un frammento.

Brevi canti in saturni sono i carmina triumphalia, che i soldati improvvisavano durante le sfilate delle cerimonie di trionfo dei generali vittoriosi; espressioni rozze e plebee che avevano poco del trionfale, in cui i soldati alternavano alle lodi al vincitore, moteggi, battute triviali e licenziose.

Del tutto diverse dai canti trionfali sono le neniae, le lamentazioni funebri in versi che venivano intonate durante le esequie in lode del defunto, prima da un parente e in epoca più tarda dalle praeficae, donne appositamente assoldate. Probabilmente erano in parte improvvisate secondo uno schema fisso. Del resto il funerale dei personaggi in vista di Roma diventava una cerimonia pubblica, con un grandioso corteo cui partecipavano tutti i parenti e gli amici e, simbolicamente, anche gli antenati, rappresentati da persone con maschere di cera. Giunti al Foro, il figlio del defunto, oppure un altro parente stretto o un amico, pronunciava un discorso commemorativo, la laudatio funebris, che celebrava le virtù e le imprese del defunto.