Catullo

Il Liber catulliano

Della produzione poetica di Catullo sarebbero probabilmente rimasti solo pochi frammenti, come è avvenuto per gli altri "poeti nuovi", se nel Trecento non fosse stato ritrovato un manoscritto con le sue poesie. Il manoscritto, il cosiddetto "Codice Veronese", ignorato per secoli, fu copiato e poi perduto. Le liriche del manoscritto non furono quasi sicuramente pubblicate dall'autore, ma raccolte dopo la sua morte in un Catulli Veronensis Liber (Libro di Catullo di Verona) che comprende 116 carmi per un complesso di circa 2 300 versi. I compilatori della raccolta non seguirono un criterio cronologico o di affinità tematica, bensì uno metrico e stilistico: all'inizio e alla fine le poesie più brevi, al centro le più lunghe ed erudite. Si ritiene comunque che sia in parte diverso da quel lepidum novum libellum (garbato nuovo libretto) che Catullo aveva dedicato all'amico Cornelio Nepote, come si legge nel primo canto, e che doveva essere composto solo da poesie brevi.

Le tre sezioni del Liber

Il Liber catulliano viene comunemente ripartito in tre sezioni. Alla prima (carmi 1 - 60) appartengono le cosiddette nugae (bagattelle, cose da nulla), composizioni in genere brevi e in metri vari, come il trimetro giambico, lo scazonte, il saffico, il coliambo e, prevalentemente, l'endecasillabo falecio; nella raccolta vi sono ben 14 metri diversi, alcuni dei quali usati per la prima volta nella letteratura latina.

La seconda sezione (carmi 61 - 68) contiene quelli che gli studiosi hanno chiamato carmina docta ("poesie dotte"), sempre in metri diversi, ma di ampiezza e di impegno formale maggiori rispetto alle nugae.

Nel terzo gruppo (carmi 69 ­ 116), infine, si trovano i cosiddetti epigrammi, brevi liriche in distici elegiaci di argomento prevalentemente erotico.

I carmina docta

Gli scrittori antichi consideravano Catullo un doctus, come tutti i poeti nuovi, cioè un poeta che non solo aveva una perfetta conoscenza dei miti, ma anche grande finezza ed eleganza formale, e lo ritenevano grande soprattutto per i carmina docta. I carmi 61 e 62 sono epitalami, cioè inni nuziali con cui si festeggiavano gli sposi la sera del matrimonio. Nel primo epitalamio un corteo di giovani e fanciulle, al bagliore delle fiaccole e con canti propiziatori al dio Imeneo, accompagna al tramonto Vinia Aurunculeia alla casa del marito. Manlio Torquato. Nel secondo epitalamio, sulla stella Espero, la prima a sorgere dopo il tramonto, si basa un allegro contrasto tra un gioioso coro di giovani, in favore dello sposo, e un coro di lamento di vergini, che paragonano la sposa a una rosa che sfiorisce se viene colta, mentre i giovani la paragonano alla vite che prospera se si appoggia al robusto olmo. Seguono poi due epilli. Il primo (il carme 63), in galliambi, versi difficilissimi, è dedicato al mito del giovane Attis che, per odio verso Venere, si reca in Frigia e si evira nell'esaltazione orgiastica del culto di Cibele, divenendone sacerdote. Il secondo (carme 64) canta della nave Argo che solca il mare verso la Colchide per la conquista del Vello d'Oro. Le Nereidi emergono a quella vista e uno degli Argonauti, il re tessalico Peleo, si innamora della ninfa del mare Teti; durante il banchetto delle loro festose nozze le Parche inneggiano all'eroe Achille (figlio di Teti e Peleo) e piangono la sua prematura morte.

Dei rimanenti, il carme 66 è la traduzione della Chioma di Berenice del poeta Callimaco, che narra come la regina Berenice offra in voto agli dèi una ciocca dei suoi capelli per salvare il marito Tolomeo, partito per la guerra e tornato sano e salvo; il ricciolo viene quindi trasformato dagli dèi in una costellazione celeste.

Il 65 è la dedica della traduzione all'amico oratore Q. Ortensio Ortalo. Il carme 67 è un colloquio, piuttosto oscuro, tra un viandante e una porta di casa che racconta le vicende piccanti e scandalose della famiglia che abita in quella casa; il 68, di cui è contestata l'unità, associa elementi autobiografici, come l'amore per Lesbia, la gratitudine per un amico e il dolore straziante per la morte del fratello, al mito di Protesilào e Laodamìa, il cui amore finisce tristemente.

Le liriche brevi delle nugae e degli epigrammi

I componimenti della prima e terza sezione sono carmi brevi, schiette espressioni dei sentimenti di Catullo, che mette a nudo il propro animo. Le tematiche sono la sua passione per Lesbia, il suo piccolo universo privato e la vita mondana di tutti i giorni, con le amicizie, i pettegolezzi, le invettive, gli scherzi e le polemiche letterarie, insomma un ritratto di grande vivacità di tutta l'alta società romana che il poeta frequentava.

Le liriche per Lesbia

Le liriche per Lesbia sono in tutto 25, e costituiscono un breve, sincero diario dell'impetuosa passione amorosa che travolge il poeta fin dal loro primo incontro. È un amore sensuale, delirante per una donna la cui bellezza vive nei versi di Catullo, anche se non vi è nessun accenno ai suoi tratti fisici. È gioia di stare insieme, è desiderio di intimità; tutti devono sapere di questa loro relazione, in modo che gli invidiosi si consumino per la rabbia e i benpensanti moralisti si turbino. Ma i momenti di felicità si alternano a quelli di sconforto: Lesbia è una donna volubile, che non si sottrae ad altri uomini; così la relazione più volte si rompe e nascono la gelosia, l'odio e le invettive contro i rivali in amore; più lei si allontana, più il poeta si sente attratto. Poi più volte avviene la riconciliazione, il ritorno ai momenti appassionati. Le liriche rispecchiano l'esaltante e dolorosa varietà di stati d'animo, in cui si alternano tristezza e gioia, riso e pianto, speranza e delusione, esplosioni di giubilo e tristi pensieri sull'infedeltà della donna. Infine il distacco definitivo, la nostalgia e lo straziante rimpianto.

I carmi vari

Gli altri carmi catulliani, che sono i più numerosi, sono poesie d'occasione e presentano le stesse caratteristiche formali dei modelli alessandrini adottati da tutti i "poeti nuovi". Compare sempre lo spirito arguto, malizioso, ma anche pensieroso e malinconico di Catullo, uomo passionale e impetuoso, che mette nelle proprie liriche tutto il complesso mondo dei suoi sentimenti, dall'amore all'odio, dalla delicatezza alla denigrazione.

L'amicizia è uno dei temi principali del canzoniere catulliano, quella soprattutto per i neóteroi, un'amicizia alla quale si abbandona con fresca ingenuità e profondità: ne sono esempio le parole d'affetto per Elvio Cinna, Cornelio Nepote, Licinio Calvo; l'autoironico invito a una magnifica cena all'amico Fabullo, a cui il poeta chiede di portare tutte le vivande, perché "la borsa del tuo Catullo è piena solo di ragnatele"; la sua felicità per il ritorno di Veranio da un viaggio in terre lontane.

Ma i suoi strali pungenti colpiscono Marrucino, il fratello di Asinio Pollione che gli ha rubato un tovagliolo, prendono di mira Mamurra, arricchito da Cesare, Cesare stesso e Pompeo; scherniscono spregevolmente poeti come Suffeno e Volusio, i cui manoscritti potrebbero servire solo ad avvolgere pesci o qualcosa di peggio; beffano il vanesio Egnazio, che ride perché vuole mettere in mostra i suoi bei denti. Anche Cicerone è oggetto di una garbata ed elegante canzonatura: "O eloquentissimo fra i nipoti di Romolo, quanti ce ne sono, quanti ce ne sono stati e quanti ce ne saranno in futuro, o Marco Tullio, ti ringrazia Catullo, il peggiore tra i poeti, tanto peggiore tra i poeti, quanto tu sei ottimo avvocato".

Ci sono poi i pettegolezzi femminili, l'atmosfera delle taverne e delle orge, la villetta in Sabina ipotecata, che non è esposta ai soffi dei venti, "ma a quelli di 15000 sesterzi, un vento orribile e pestilenziale", ma anche le delicate e commosse parole della lirica scritta in memoria del fratello morto ("Ho viaggiato per molti popoli e vasti mari, ora eccomi a te, fratello mio") e altre vicende della sua vita, come l'avventura in Bitinia o i soggiorni a Sirmione.