Verso la purezza stilistica: Anton Webern

Anton von Webern (Vienna 1883 - Mittersill, Salisburgo 1945), allievo di G. Adler, si laureò a Vienna con una tesi su H. Isaac; nel 1904 iniziò gli studi di composizione con A. Schönberg e, dopo diversi lavori rimasti inediti, ma degni della massima attenzione, scrisse la Passacaglia per orchestra, che ritenne degna di figurare come op. 1 (1908). Svolse una notevole attività di direttore d'orchestra, finché, dopo l'occupazione dell'Austria da parte della Germania nazista (1938), si chiuse in un isolamento pressoché totale, ritirandosi a Mittersill, un villaggio vicino a Salisburgo. Qui fu ucciso per tragico errore da un soldato americano delle truppe di occupazione.

Il cammino artistico

La Passacaglia, lavoro in sé mirabile e ricco di elementi originali, è il congedo di Webern dal tardoromanticismo; già nei Lieder op. 3 e 4 (1908-09), su testi di S. George, egli rompe con la tonalità e nello stesso tempo individua il nucleo essenziale del proprio lirismo. I Cinque pezzi op. 5 per quartetto d'archi (1909) segnano l'avvio di una ricerca di concentrazione aforistica che, proseguita con i Quattro pezzi op. 7 per violino e piano (1910), con i mirabili Sei pezzi op. 6 (1910) e Cinque pezzi orchestrali op. 10 (1913) e con le Sei bagattelle op. 9 per quartetto d'archi (1913), giungeva all'esito più radicale nei Tre piccoli pezzi op. 11 per violoncello e pianoforte (1914).

L'esperienza aforistica perseguita con così assoluta coerenza si rivela aspetto essenziale della poetica di Webern, volta a estrarre dal suono un'immagine di massima concentrazione lirica, ricercando nell'intensità dell'attimo, carico di pregnanza espressiva, una compiuta totalità. Ogni convenzione di simmetria formale o di articolazione discorsiva è superata in questi pezzi, come pure nelle opere che seguono l'adozione del metodo dodecafonico. L'uso che Webern fa della dodecafonia come strumento per conquistare un'assoluta purezza stilistica interessò molto le avanguardie del secondo dopoguerra, che vollero definirsi postwerberniane: lo studio dei capolavori del Webern dodecafonico non dovrebbe, però, ignorare la continuità della sua poetica e il significato che in tale luce assumono i suoi procedimenti. Con essi Webern mira a una sorta di decantazione del materiale musicale da ogni residuo tradizionale, attraverso un'estrema rarefazione, ai limiti di un'astrazione metafisica, dove essenziale è il peso dei silenzi, delle pause, dei vuoti che definiscono le figurazioni. Non c'è in tutta l'opera di Webern un solo cedimento nel suo tendere verso un ideale di essenzialità: agli anni del dopoguerra risalgono i Lieder op. 14-18 per voce e strumenti (1917-24), quelli per coro op. 19 (1926) e per voce e pianoforte op. 23 e 25 (1935-35), la cantata La luce degli occhi op. 26 (1935), la Prima cantata op. 29 (1939), la Seconda cantata op. 31 (1942), tutte su testi dell'amica H. Jone; il Trio op. 20 (1927), la Sinfonia per orchestra da camera op. 21 (1928), il Concerto op. 24 (1934) e altre pagine strumentali, fra cui le Variazioni op. 27 per pianoforte (1936) e op. 30 per orchestra (1940).