La pedagogia a Roma

I primi secoli di vita della città di Roma e delle province a lei collegate per influssi culturali o commerciali vede uno sviluppo dell'educazione paragonabile a quello della Grecia all'epoca della civiltà ionica, ed è quindi intesa come una progressiva iniziazione ai modi di vita tradizionali collegati al mondo agricolo e pastorale. Già i giochi dei bambini sono imitazioni di lavori in atteggiamenti degli adulti. Poi, crescendo il giovane abbandona i passatempi con i coetanei e si introduce poco a poco nella cerchia dei “grandi”, dove inizia la sua formazione vera e propria ascoltando in silenzio i discorsi e i commenti sul lavoro. Gli vengono poi affidati compiti progressivamente più impegnativi che lo portano ad appropriarsi, anno dopo anno, di un patrimonio di conoscenze imperniate di tradizioni e consuetudini.

L'educazione nella Roma arcaica

Questo resta infatti il punto fermo di questa civiltà che potremmo definire contadina: l'importanza delle tradizioni che restando immutate nel tempo garantivano certezza e continuità. Accanto alla forza delle consuetudini l'altro pilastro di riferimento della giovane civiltà romana è la centralità della famiglia come punto di riferimento educativo ma anche, in un certo senso, legislativo di quanto vi gravitano intorno. Il pater familias ha infatti potere di vita e di morte su domestici, schiavi e anche sui parenti, così come segue l'educazione dei figli maschi a partire dai sette anni di età. L'educazione dell'infanzia è invece appannaggio delle donne di casa, che non hanno altro compito fatto salvo quello di curare la casa, e di completare l'educazione domestica delle figlie anche dopo la soglia dei sette anni.

I maschi, invece, passano sotto l'ala protettrice del pater familias che iniziava a condurli con sé al lavoro, sui campi o al mercato, oppure al Senato o al Foro se le famiglie erano di condizioni più agiate. Nel caso delle famiglie nobili, a sedici anni il giovane vestiva la toga purpurea che indicava la condizione di giovane che si preparava a diventare uomo a pieno titolo, condizione raggiunta l'anno dopo quando indossava per la prima volta la toga virile. Per essere considerato cittadino a pieno titolo, però, il giovane doveva ancora compiere un tirocinio di un anno nel quale veniva messo a confronto, a livello pratico, con i vari compiti implicati nella vita pubblica, e poi espletare il servizio militare. Il giovane, anche se di famiglia nobile, tornava quindi alle sue attività collegate per lo più alla produzione agricola, dove completava la sua formazione “sul campo” con nozioni di agraria ma anche di veterinaria e medicina, utili queste ultime a vantaggio degli animali e degli schiavi impiegati nelle proprietà agricole.

L'educazione civica dei giovani era, diversamente da quanto accadeva in Grecia, piuttosto trascurata, in quanto consisteva per lo più nello studio mnemonico delle XII tavole delle leggi fondamentali di Roma e a quanto si poteva ricavare dalla frequentazione delle sedute del Senato e dalle diverse cerimonie pubbliche.

La figura dei maestri

Per i motivi sopra esposti i maestri furono a lungo una categoria sconosciuta a Roma e nelle aree circostanti. In realtà, qualche raro esempio di insegnante è conosciuto già intorno al 400 a.C.: si tratta di ludimagistri, literatores o gramatici che per lo più limitavano la loro opera all'insegnamento della lettura e scrittura di semplici testi. Tali figure erano tuttavia estremamente rare e si trattava nella maggioranza dei casi di greci italioti o greci immigrati che – di conseguenza – traevano la loro didattica dall'esempio della madrepatria. Non di rado essi insegnavano addirittura in greco.

Bisognerà aspettare la fine delle guerre puniche (intorno alla fine del III secolo a.C.) per avere notizie del primo maestro – che non a caso è un greco (Cratere Malatta) – del quale sappiamo solo che uno studium grammaticae. Più o meno nello stesso periodo si assiste alla nascita della letteratura latina e cominciano a diffondersi anche i maestri romani, il cui insegnamento era tuttavia sempre basato sull'influenza greca.

In questo periodo, del resto, Roma non poteva più essere definita come una città rurale legata alla tradizione e chiusa nel suo universo di riferimento di natura prevalentemente rurale. In primo luogo il suo ambito di dominio si stava progressivamente allargando al di là dei confini della penisola italica (si pensi a Cartagine) ed era anche sul punto di prevalere sulla Grecia del periodo ellenistico. Questi cambiamenti politici portarono mutamenti nel campo culturale: aumentando il commercio e quindi la possibilità di scambi e confronti aumentarono anche gli influssi culturali da parte della ben più culturalmente evoluta Grecia. I cambiamenti nell'educazione (da una formazione familiare a una guidata da insegnanti) e lo svilupparsi di forme letterarie possono essere considerate solo la punta di un grande sconvolgimento che andava preparandosi nel nascente impero romano. I cambiamenti culturali trovarono una forte spinta anche nei cambiamenti sociali. Sempre più spesso il pater famialias si trovava a dover passare lunghi periodi lontano dalla famiglia – per le guerre o per esigenze lavorative. Inoltre a causa del sempre più massiccio inurbamento, i giovani si trovavano spinti a intraprendere un lavoro diverso da quello proprio dei loro genitori. In entrambi i casi al padre e alla madre come formatori subentrano sempre di più, per causa di forza maggiore, delle figure formative istituzionalizzate, che possono essere l'esercito, la frequentazione della vita pubblica, ma anche, come si è visto, le scuole e gli insegnanti di professione.

Vale la pena di sottolineare come l'insegnamento cominci a diffondersi in corrispondenza della nascita della produzione letteraria latina – tanto che molti fra i primi insegnanti latini furono anche scrittori (come Livio Andronico). Presto ai maestri si affiancheranno i rhètores – che potremo definire come professori – nati sul modello degli oratori e letterati greci. Nonostante questa distinzione di grado tra maestri e professori non bisogna credere che l'insegnamento fosse programmato in alcun modo: esso era per lo più privato e la programmazione era lasciata alla libera iniziativa degli insegnanti; non di rado perciò i maestri si dedicavano all'insegnamento avanzato di materie come la retorica o l'eloquenza, in diretta competizione con i professori.

Comunque la figura del retore – che nel mondo latino comportò l'insegnare l'eloquenza nella teoria e nella pratica, l'eloquenza in senso ampio che comprendeva non solo l'abile uso della lingua ma anche un vasto bagaglio di conoscenze (entrambe indispensabili per i nuovi ricchi dell'impero che dovevano avere basi culturali generali per giustificare e difendere la loro posizione nella società, ma anche conoscenze specifiche per raggiungere e mantenere le diverse cariche pubbliche) – era una figura di grande prestigio, ricercata e stimata ancora più di quella del filosofo. Il retore riassumeva in sé tutte le caratteristiche importanti per l'epoca e rappresentava quindi l'immagine per eccellenza dell'uomo libero, colto e di un certo peso sulla scena pubblica.

L'impero e l'educazione

Con la nascita dell'impero anche l'educazione subirà un deciso cambiamento di rotta avvicinandosi più ai modelli ellenistici. La formazione sarà vista come più direttamente collegata al patrocinio dello Stato. Augusto, per esempio, sulla scia di quest'idea di promozione della cultura latina fece costruire alcune biblioteche contenenti anche opere in latino, non solo in greco come voleva l'uso corrente. Ma spesso queste iniziative volte apparentemente a promuovere e diffondere la cultura volevano in realtà essere mezzo di propaganda politica.

Fu Vespasiano a farsi promotore di una vera e propria politica pedagogica: egli fu il primo a istituire una scuola superiore dipendente direttamente dallo Stato e a inquadrare come dipendenti statali i professori.

Anche Quintiliano fu tra i professori di retorica dipendenti dallo Stato, ed egli è anche una delle più importanti fonti di conoscenze sull'educazione a Roma nel periodo imperiale. Nelle sue opere egli propone un'educazione che parta ben prima dei sette anni, considerando anche la scuola materna ed elementare come palestre per la formazione del bambino, futuro oratore. Egli raccomanda sempre e comunque la scuola pubblica a discapito della formazione privata in quanto considera la socialità data dall'educazione condivisa come occasione per imparare a vivere insieme agli altri – abilità imprescindibile per l'oratore che dovrà necessariamente partecipare alla vita pubblica – e anche come forte stimolo per lo sviluppo dell'intelligenza. Egli sottolinea molto anche la motivazione dello studente, vista come imprescindibile per il raggiungimento di buoni risultati nell'apprendimento e nell'applicazione delle tecniche retoriche.

Non va dimenticato nell'esaminare la proposta pedagogica di Quintiliano che egli si riferiva idealmente solo all'iter formativo del futuro oratore disinteressandosi degli altri percorsi.