Tra XX e XXI secolo

La polveriera Medio Oriente

Crocevia di tre continenti (Asia, Africa ed Europa), polmone vi­tale dell'economia mondiale per le sue immense risorse petroli­fere, il Medio Oriente è anche il ganglio nevralgico degli equili­bri planetari, dove convergono, s'incontrano, si scontrano le op­poste strategie di potenza del nuovo secolo. Gli snodi di questo sensibile scacchiere, connotato anche dai fragili intrecci etnici e religiosi, si sono venuti polarizzando intorno a tre nuclei critici fortemente interdipendenti: Israele, con l'irrisolta questione pa­lestinese; l'Afghanistan, turbolenta porta dell'Asia centrale e me­ridionale; e il Golfo Persico, vulnerabile arteria del petrolio.

La situazione di Israele, già densa d'incertezze sotto il governo di Benyamin Netanyahu (1996-1999), fautore di un rilancio degli insediamenti ebraici a Gaza e in Cisgiordania, si è venuta deteriorando nella seconda metà del 2000 in seguito al fallimen­to dei colloqui di pace arabo-israeliani caldeggiati dal succes­sore di Netanyahu, Ehud Barak, e a una ripresa massiccia del­la resistenza palestinese, accompagnata da attacchi suicidi. La tensione tra le due comunità s'è ulteriormente inasprita dopo la formazione, nel febbraio 2001, del governo presieduto dal­l'ex generale Ariel Sharon, che, in risposta alle azioni kamika­ze di gruppi terroristici arabi (Hezbollah, Jihad Islamica, Hamas, Martiri di al-Aqsa), ha proceduto all'occupazione militare dei Territori palestinesi, avviato la costruzione di un "muro di difesa" sulla frontiera con la Cisgiordania e subordi­nato la ripresa dei negoziati con l'Autorità Nazionale Palestine­se all'emarginazione della leadership politica di Arafat. Con la morte di quest’ultimo (2004), sostituito dal moderato Abu Mazen alla guida dell’Autorità Palestinese, e con la contemporanea elaborazione della Road map – il piano voluto da George W. Bush, Unione Europea, Russia e Nazioni Unite per attuare il principio “due popoli, due stati” – si è avuta una parziale riapertura dello spirito negoziale. Il premier israeliano Sharon, prima di essere colpito da un ictus (gennaio 2006), è riuscito a completare, nel settembre 2005, il piano di ritiro dalla Striscia di Gaza, con l’evacuazione forzata di migliaia di coloni e la distruzione di 21 villaggi ebraici e a fondare un nuovo partito (Kadima) che intende portare avanti il progetto di separazione di Israele dai territori palestinesi. La tensione si è però riacutizzata prima nel gennaio 2006 con la vittoria elettorale nei territori palestinesi del partito estremista islamico di Hamas che, assunta la guida del governo palestinese, continua a negare il diritto all’esistenza di Israele. E successivamente nel giugno 2007, quando una guerra civile tra fazioni palestinesi ha portato a un colpo di stato a Gaza organizzato da Hamas a danno del partito di Abu Mazen e della legittima autorità palestinese.

Un focolaio di crisi si è aperto nell’estate 2006 anche alla frontiera meridionale del Libano, da dove le milizie sciite Hezbollah, sostenute dal governo siriano e iraniano in funzione antisionista, attaccavano Israele con razzi a breve gittata. All’intervento in territorio libanese dell’esercito di Gerusalemme è quindi seguito l’invio di una forza di interposizione internazionale. La crisi che ha invece investito l’altro versante della regione mediorientale, l’Afghanistan, ha radici relativamente recenti. Stremato da un ventennio di incessanti conflitti, tra occupazione sovietica (1979-1989) e guerre etniche e tribali, il Paese era caduto in gran parte, nel 1996, sotto il dominio del gruppo integralista musulmano dei Talebani. Il sostegno e l’ospitalità da questi forniti all’organizzazione terroristica Al Qaeda e al suo leader, Osama Bin Laden, responsabili dell’attentato al World Trade Center di New York, hanno determinato l’intervento armato di una coalizione internazionale capeggiata dagli Stati Uniti (7 ottobre-17 dicembre 2001), che ha rovesciato il regime talebano e promosso la creazione di un governo di unità nazionale, presieduto da Hamid Karzai, senza però riuscire a debellare le residue sacche
di resistenza.

In questo clima si inscrive l’attacco all’Iraq della primavera 2003. L’aggressiva dittatura di Saddam Hussein, responsabile tra gli anni ’80 e ’90 di guerre nella zona del Golfo, rispettivamente con l’Iran e con il Kuwait, e sospettato di collusioni con il terrorismo islamico e di detenere illegalmente armi di distruzione di massa, è stata abbattuta dall’intervento armato di Stati Uniti e Gran Bretagna (operazione Iraqi Freedom). La fase del dopoguerra, che aveva per obiettivo l’affermazione di un sistema democratico, è stata ostacolata dalla guerriglia tra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita e dal terrorismo sanguinario messo in atto da Al Qaeda, che ha colpito le forze della coalizione internazionale (tra questi anche 19 militari italiani uccisi a Nassyriya nel novembre 2003) ma soprattutto la popolazione civile. Dopo le prime elezioni libere del 2005, il governo è stato affidato (maggio 2006) allo sciita Jawad al-Maliki.

In seguito al’intervento occidentale in Iraq e Afghanistan, il vicino regime iraniano si è trovato a sua volta nel mirino della potenza militare statunitense, che considera l’Iran uno dei “paesi canaglia” in quanto sostenitore del terrorismo e in grado di sviluppare programmi nucleari con possibile destinazione bellica. L’elezione alla guida del governo dell’integralista Mahmud Ahmadinejad (2005), che ha più volte minacciato di voler distruggere lo Stato di Israele, contribuisce a rendere ancor più incandescente l’area.