califfo
sm. [sec. XIII; dall'arabo khalīfa, successore, vicario]. Successore del profeta Maometto e capo supremo della comunità islamica. Dopo la conquista araba il califfo divenne uno dei maggiori sovrani del mondo. La sua funzione religiosa si andò attenuando a vantaggio della funzione politica man mano che l'Islam da religione si faceva impero. Sotto gli Omayyadi, la cui capitale era Damasco, il campo propriamente religioso venne delegato al centro culturale di Medina; il califfo più che capo religioso era capo di Stato. Con gli Abbasidi il califfo rivendicò le sue funzioni spirituali di guida dell'Islam: la sua capitale, Baghdad, divenne il principale centro dell'attività teologica islamica e la persona stessa del califfo fu sacralmente qualificata e difesa dal mondo profano con un complesso rituale adeguato. Dal sec. IX la funzione laica del califfo andò sempre più diminuendo: le azioni di governo furono lasciate ai visir (vicari del “vicario”), mentre l'affermazione di entità politiche locali esautorò il potere centrale. Per contro si continuò – e forse anche in misura maggiore – a riconoscere nel califfo l'imam, il capo religioso, il difensore della fede e il persecutore degli eretici. Su questa via si giunse alla sua completa esautorazione politica. Con l'Impero ottomano il sovrano era il sultano; il califfato era soltanto una carica religiosa. Poco dopo l'abolizione del sultanato (1922), fu abolito dai Turchi anche il califfato (1924). Nel 1926 l'Egitto tentò di restaurare la carica e si tenne per questo una conferenza degli Stati islamici; ma il tentativo si concluse con un nulla di fatto.