pantomimo
sm. [sec. XVII; dal latino pantomīmus, dal greco pantómimos, da panto-, panto-+mîmos, mimo]. In senso specifico, l'attore che nella Roma imperiale si esibiva da solo sulla scena, rappresentando una storia e ogni suo personaggio, servendosi esclusivamente dei gesti, accompagnato da un'orchestra e da un coro che cantava il “libretto”. Più in genere, qualsiasi interprete di una pantomima. Per estensione, lo spettacolo rappresentato. § A differenza del mimo, il pantomimo non svolgeva temi farseschi, ma rappresentava vicende tratte dalla mitologia o dalla storia passata, comparendo in scena nell'abito dell'attore tragico (manto e tunica) e cambiando maschera a ogni personaggio. La sua arte era insieme quella del mimo e del danzatore e aveva importanza decisiva il mantenimento del ritmo. Poiché raccontava in genere storie d'amore, il suo successo dipendeva soprattutto dall'allusività e dalla lascivia dei gesti e dal fascino che riusciva in tal modo a esercitare sul pubblico femminile. I pantomimi più famosi (Pilade e Batillo all'epoca di Augusto, Paride in quella di Nerone) acquistarono così immensa popolarità e violente furono a volte le zuffe tra i fans di pantomimi rivali. Contro questo genere, che era stato importato a Roma dalla Magna Grecia sin dagli albori dell'Impero, si scatenò la polemica dei moralisti cristiani: Sant'Agostino lo giudicava più pericoloso dei giochi del circo e Zosimo, nel sec. V, gli imputava la decadenza dei valori morali.