Descrizione generale

s. inglese (pezzetto, scaglietta, piastrina) usato in italiano come sm. Termine usato per indicare una piastrina di silicio (o altro materiale, come germanio o arseniuro di gallio) che contiene numerosi componenti elettronici sia attivi (transistori, diodi, ecc.) che passivi (capacità, resistenze, connessioni, ecc.). La piastrina tipica ha una superficie di alcune decine o centinaia di millimetri quadrati, spessore inferiore a due decimi di millimetro e contiene un microcircuito digitale; i circuiti analogici, dato il tipo di prestazioni (per esempio alti guadagni e quindi potenze crescenti verso gli ultimi stadi) e il minor grado di ripetibilità di insiemi circuitali, si sono prestati meno alla realizzazione su chip, ma sono già apparsi filtri e amplificatori operazionali di questo tipo. Il chip è l'espressione tangibile della microelettronica, tecnologia nata con la realizzazione del primo circuito integrato (insieme di transistori e resistenze, 1958) e con la messa a punto della tecnologia planare (1959). Quest'ultima è una tecnica complessa per la costruzione monolitica di circuiti con transistori e altri componenti microelettronici. Su una sottile fettina di silicio (wafer) monocristallino del diametro di 25-50 mm, tramite ripetute fasi fotolitografiche, chimico-fisiche, meccaniche e termiche si costruiscono topologie circuitali prefissate. Queste vengono realizzate sulla piastrina con un procedimento fotolitografico "Per il procedimento di fotolitografia del wafer di silicio vedi lo schema a pg. 302 del 6° volume." "Per il procedimento di fotolitografia del wafer di silicio vedi lo schema al lemma dell'Aggiornamento 1995." che impiega luce ultravioletta filtrata attraverso maschere per incidere il disegno del circuito sul piano in lavorazione: il wafer viene preossidato superficialmente con ossido di silicio e ricoperto da un materiale polimerico fotosensibile (photoresist); la fotolitografia con radiazione ultravioletta altera il photoresist; la rimozione chimica selettiva del photoresist alterato e, di conseguenza, dell'ossido nelle zone non protette dal photoresist, crea a sua volta, piano per piano, la topologia voluta. Alle fasi di fotolitografia si alternano fasi di deposizione di strati di pochi micron di silicio monocristallino, fasi di lavorazione meccanica, di trattamento chimico e di diffusione di droganti (elementi che aumentano la conduzione) per realizzare la struttura elementare voluta (per esempio un transistore del tipo a giunzione) "Per la geometria di un transistore n-p-n di tipo integrato per piccoli segnali vedi lo schema al lemma dell'Aggiornamento 1995." . Si allineano così in volumi ridottissimi zone isolanti di ossido di silicio, zone semiconduttrici (di tipo p se il drogante è il boro o simili; di tipo n se è il fosforo, ecc.) e zone di conduzione "Per la geometria di un transistore n-p-n di tipo integrato per piccoli segnali vedi lo schema a pg. 302 del 6° volume." . La complessità del processo deriva, da un lato, dal numero di transistori realizzati in un chip, che può superare il milione, e dalla contemporanea lavorazione di migliaia di chip sullo stesso wafer "Per la sequenza di fabbricazione dei microcircuiti su un wafer di silicio vedi lo schema a pg. 302 del 6° volume." "Per la sequenza di fabbricazione dei microcircuiti su un wafer di silicio vedi lo schema al lemma dell'Aggiornamento 1995." ; dall'altro dalla precisione della lavorazione che è dell'ordine del micron e che richiede, per ogni fase di mascheratura, allineamenti accuratissimi. Importanti anche le specifiche elettriche dei parametri caratteristici dei transistori, dei resistori e degli altri componenti, mentre i limiti sulle loro variazioni sono meno stringenti (dell'ordine del 20% con punte del 40%), dato che i circuiti logici dei sistemi digitali richiedono solo la discriminazione a due (tre) stadi: vero/falso (indeterminato). Per la realizzazione dei chip si sono messe a punto tecnologie che prevedono anche una "coltivazione" in laboratorio con lo stesso procedimento che in natura viene messo in atto dalla conchiglia per produrre la madreperla. Il procedimento, realizzato dall'Università del Texas di Austin, sfrutta la tendenza di proteine e cristalli ad aggregarsi in modo spontaneo e ordinato, aprendo la via ad una diversa generazione di microchip superminiaturizzati e costituendo un passo in avanti per l'integrazione di molecole organiche e inorganiche. I ricercatori hanno realizzato circuiti integrati a partire da peptidi, i precursori delle proteine, e cristalli di silicio o di arsenuro di gallio, i composti più comunemente usati nei microchip. La tecnologia utilizza la capacità dei peptidi di unirsi saldamente ai cristalli catalizzando l'allineamento di più cristalli in una struttura continua, proprio come succede nelle conchiglie dove, unendosi a un cristallo di carbonato o fosfato di calcio, le proteine inducono lo sviluppo di colonne di cristalli, visibili a occhio nudo come le striature della madreperla. Per individuare le molecole con cui lavorare, i ricercatori hanno selezionato centinaia di milioni di virus, ognuno dei quali caratterizato sulla membrana esterna da un diverso peptide che serve al microorganismo per attaccarsi alle pareti delle cellule da infettare. Messo ciascuno di questi in un ambiente ricco di cristalli di materiali semiconduttori, sono stati individuati i virus che si legano ai cristalli più saldamente. Il loro peptide è stato quindi isolato e l'esperimento è stato ripetuto, constatando che anche il peptide da solo si univa saldamente al cristallo e faceva da catalizzatore per la crescita di una struttura complessa con l'incolonnamento di altri cristalli. Sono stati in tal modo ottenuti dei materiali "biocomposti", utili come basi per la costruzione di una nuova generazione di complesse strutture elettroniche.

Cenni storici

I dispositivi su chip hanno subito una fortissima evoluzione con tappe scandite dall'ampiezza delle funzioni svolte: a) l'integrazione su piccola scala (SSI, Small Scale Integration, 1962): il chip, costituito da poche decine di transistori, realizza solo funzioni logiche elementari (AND, OR, ecc.); b) l'integrazione su media scala (MSI, Medium Scale Integration, 1966): il dispositivo, composto da centinaia di transistori, realizza unità logiche complesse come i registri e i contatori; c) l'integrazione su larga scala (LSILarge Scale Integration, anni Settanta): il dispositivo, composto da decine di migliaia di transistori, realizza unità funzionali complete come le memorie e i microprocessori (questi ultimi concepiti nella loro essenzialità; per esempio con capacità di calcolo solo in virgola fissa, mentre quella in virgola mobile viene fornita su altro chip progettato come coprocessore matematico); d) l'integrazione a grandissima scala (VLSI, Very Large Scale Integration, anni Ottanta): il dispositivo, costituito anche da più di un milione di transistori, è, da solo, un calcolatore assai potente dotato di memoria ad accesso molto rapido e di numerose funzioni prima delegate a chip ausiliari del chip principale; e) l'integrazione a scala ultra (ULSI, Ultra large Scale Integration, anni Novanta) che conta oltre 10.000.000 di transistor, collegati tra loro da fili spessi solo 0,18 micron, in grado di elaborare miliardi di operazioni al secondo. Nel 1989 è stato progettato un chip di oltre un milione di transistori della superficie di trecento millimetri quadrati circa che ha mostrato prestazioni simili a quelle dei supercalcolatori: altissima velocità (40 MHz, ottanta milioni di operazioni al secondo in virgola mobile); operazioni vettoriali; esecuzione parallela delle istruzioni; ampia memoria per dati e istruzioni; grafica tridimensionale; architettura con bus a 64 bit; corredo di software (programmi di base) che include i compilatori Fortran e C, nonché il vettorizzatore Fortran (programma che ristruttura il codice Fortran per il calcolo vettoriale). Questo potenziamento del chip è stato primariamente ottenuto con una maggiore densità di componenti; peraltro anche la dimensione del chip è aumentata nel tempo: da una dimensione caratteristica utile di 1,4 mm (lato) nel 1960 si è passati agli 8 mm del 1980, ai 30-40 del 2000. Negli anni Novanta, per aumentare la capacità di calcolo, si è agito sulle dimensioni geometriche degli elementi di base dei circuiti integrati presenti sui chip e sul silicio e le sue connessioni. Sono stati creati chip che utilizzano una particolare miscela di silicio e germanio in modo da renderli più veloci e ideali per operare nel campo delle alte frequenze e nella trasmissione di voce e dati. Inoltre, usando la SOI (Silicon On Insulator), i chip sono stati protetti con uno strato di isolante per ridurre gli effetti elettrici nocivi che diminuiscono le loro prestazioni. La scoperta di questo filtro isolante ha poi permesso anche la connessione dei chip non più attraverso fili di alluminio, ma con fili di rame, in precedenza tecnicamente difficili da integrare con il silicio. Per il chip si sono aperti campi di applicazione di varia natura. I laboratori hanno sperimentando meccanismi (accelerometri e altri sensori) e motori (del tipo a capacità variabile fra rotore e statore) della dimensione di una frazione di millimetro; le applicazioni potenziali del chip riguardano anche l'automobile (sospensioni, freni, sterzo), l'elettronica medica e il settore dei controlli di processo. § Dato il protratto successo economico del chip, che ha inciso positivamente sull'andamento delle azioni delle imprese del settore, il termine è stato adottato anche in campo finanziario con l'espressione blue chips.

T. Apelewcz, Elettronica integrale digitale, Milano, 1985; K. Benth, W. Schmusch, Elettronica, Milano, 1987; F. Bellomo, Elementi passivi, tecnologie e dispositivi, Milano, 1988.

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