Lessico

agg. (pl. -ci) [sec. XX; multi- + etnico]. Relativo a diverse etnie; composto da elementi appartenenti a varie razze o nazionalità: relazioni, tradizioni multietniche; una società, una cultura multietnica.

Sociologia: la società multietnica

L'impetuoso sviluppo di un flusso migratorio che negli anni Ottanta e Novanta del sec. XX si è diretto dai Paesi dell'Africa, dell'Estremo Oriente e dell'Est europeo verso l'Europa occidentale – coinvolgendo in misura crescente anche realtà, come quella italiana, caratterizzate da un'antica storia di emigrazione – ha posto con drammaticità il problema della definizione di una società multietnica (caratterizzata dalla compresenza di diverse comunità connotate linguisticamente e razzialmente) e multiculturale (segnata dalla convivenza di molteplici identità e appartenenze di tipo espressivo, religioso, ecc.). La questione è densa di importanti implicazioni concrete, interessando le politiche pubbliche di accoglienza, la disponibilità di servizi e risorse collettive, le possibilità di integrazione non traumatica delle minoranze. Per limitarci al contesto europeo occidentale si possono sommariamente individuare tre principali strategie di risposta alla sfida dell'immigrazione. La “via tedesca”, basata sul principio del codice della nazionalità, privilegia l'integrazione della comunità naturale, favorendo l'inclusione di cittadini di etnia e lingua tedesca separati per ragioni storico-politiche dalla madrepatria (si pensi alla riunificazione nazionale e al “ritorno” di comunità disperse nei Paesi ex socialisti). Ciò rende materialmente e legalmente difficile l'integrazione permanente nello Stato tedesco delle altre comunità, malgrado si siano nel tempo sviluppate pratiche socialmente adeguate di accoglienza dei lavoratori stranieri (Gastarbeiter), considerati però “ospiti temporanei” e vincolati a rigorose normative contrattuali. La Gran Bretagna, invece, favorisce lo sviluppo di aggregazioni comunitarie separate per gruppi etnico-linguistici o religiosi, esposte (non tutte e non in egual misura) al rischio della segregazione. A differenza che in Germania, però, l'obiettivo della cittadinanza, come inclusione in un sistema di diritti giuridici, non è negata a nessuno. Ancora differente il caso francese, se è vero che la Francia facilita la “nazionalizzazione” degli stranieri, subordinandola però alla piena accettazione delle sue “regole del gioco” (lo “spirito repubblicano”, un forte sentimento di appartenenza, ecc.). In questa prospettiva, parliamo di assimilazione, non priva di contraddizioni e tensioni, come testimoniano l'elevata percentuale di matrimoni misti da un lato e il proliferare della violenza xenofoba o delle resistenze integralistiche, dall'altro. Questi esempi internazionali sono utili a collocare correttamente la specificità del caso italiano, demograficamente riconducibile a due indicatori principali. Il primo è rappresentato dalla percentuale di stranieri sul totale della popolazione residente, che al 1992 non superava l'1,5% (contro il 3,5 della Gran Bretagna, il 6,3 della Francia e il 7,3 della Germania). Il secondo riguarda, invece, la composizione interna dell'universo degli immigrati, per cui l'Italia denunciava un 83,3% di provenienti da Paesi extracomunitari, contro l'80,2 britannico, il 74,7 tedesco e il 63,5 francese. Se a questi dati aggiungiamo che il Nordafrica e l'Europa orientale rappresentano la quota maggioritaria e crescente dell'immigrazione, il caso italiano sembra caratterizzarsi per tre aspetti: le dimensioni demografiche del fenomeno, relativamente ridotte ma non irrilevanti e già foriere di tensioni non trascurabili: la maggiore difficoltà di integrazione per cittadini provenienti da aree geograficamente vicine, ma separate da uno spesso diaframma culturale; l'assenza di una consolidata strategia dell'integrazione, fondata su conseguenti politiche pubbliche. Il profilo sociale di una comunità multietnica e multiculturale è peraltro inevitabilmente il prodotto complesso e contingente di dinamiche di lungo periodo e di concrete situazioni politico-economiche. Non è insomma riconducibile a una visione “naturalistica”, per cui l'integrazione è il prodotto spontaneo del tempo, del trascorrere delle generazioni e di un adattamento più o meno efficace e veloce. E neppure si identifica come puro passaggio dalla tradizione alla modernità, dai retaggi precivili alla razionalità dell'ordine occidentale, assecondando antichi e inconfessati pregiudizi. D'altronde, una certa semplificazione del problema, affidata all'esortazione morale e alla generica predicazione del multiculturalismo rappresenta spesso una scorciatoia ideologica non priva di rischi. Un grande etnologo come Claude Lévi-Strauss ha più volto richiamato l'attenzione sul pericolo insito in un relativismo culturale privo di un reale sforzo di comunicazione fra etnie e culture. In questa prospettiva si fa strada una posizione più realistica, che assume la diversità delle culture come valore e la comunicazione come primario imperativo sociale, ricercando però insieme una tavola di principi universalistici che costituiscano l'architrave di un nuovo patto di cittadinanza.

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