Lessico

sf. [sec. XIV; dal latino nobilítas-ātis].

1) La condizione sociale dei nobili; in concreto, i nobili considerati nel loro insieme: vantare la nobiltà del proprio casato; appartenere all'alta nobiltà romana; quindi, signorilità implicita nella condizione del nobile: nobiltà di modi.

2) Per estensione, pregio indiscusso, superiorità qualitativa, eccellenza: la nobiltà del pensiero greco; un vino di rara nobiltà.

3) Fig., elevatezza morale, generosità di sentimenti: nobiltà d'animo, di pensieri, di propositi; anche raffinatezza estetica, decoro e dignità formale nelle opere d'arte: una squisita nobiltà di stile.

Araldica: dalle origini alla Rivoluzione francese

Secondo la classica definizione di Bloch si può chiamare nobiltà una classe dominante quando abbia due requisiti: “uno statuto giuridico suo proprio, il quale confermi e materializzi la superiorità cui ella pretende; in secondo luogo, che tale statuto si perpetui per via ereditaria: salvo ad ammettere, a favore di alcune famiglie nuove, la possibilità di conquistarne l'accesso, ma in numero ristretto e secondo norme regolarmente stabilite”. Queste due caratteristiche differenziano, nella storia delle civiltà occidentali, la nobiltà da altri tipi di ceti o classi dominanti quali aristocrazia, oligarchia, patriziato, ecc. La nobiltà così definita comparve per la prima volta a Roma nel sec. IV a. C. quando, raggiunta la teorica parità tra patrizi e plebei e formatasi tra i secondi un'aristocrazia legata prevalentemente al censo e alle funzioni personali, patriziato e aristocrazia plebea si fusero in una classe chiusa le cui prerogative erano evidentemente connesse con l'ereditarietà: il diritto ad assumere cognomi familiari ereditari, diritto a esporre immagini degli antenati, presunzione di precedenza nell'eleggibilità alle magistrature cittadine, ecc. La possibilità di accedere alla nobiltà era legata alla possibilità per l'homo novus (cioè privo di tradizione familiare) di adire una di quelle cariche dello Stato che un tempo erano state fondamento esclusivo del potere patrizio. La fine della nobiltà romana ebbe inizio con Augusto, quando l'appartenenza alla nobiltà fu condizionata, oltre che dall'ereditarietà (di per sé non più sufficiente), anche dal possesso di un determinato censo: i correttivi (ammissione alla nobiltà di cittadini non nobili ma possessori del censo richiesto e, viceversa, conferma della nobiltà per nobili privi di censo) furono lasciati a esclusiva discrezione dell'imperatore. Il dissolvimento della nobiltà romana antica si compì quando le riforme di Costantino delegarono i poteri dello Stato a magistrati o funzionari scelti dall'imperatore indipendentemente dalle loro origini. A quel momento si possono ricondurre le prime origini della nobiltà medievale; non a caso i termini come conte, o dux, duca, indicano nell'impero costantiniano funzionari a cui l'imperatore ha demandato compiti civili o militari nell'amministrazione dello Stato. Ma solo impropriamente o quanto meno genericamente si può parlare per quell'età, e poi per l'alto Medioevo e la prima età feudale, di nobiltà come è stata definita all'inizio: anche dove esistevano poteri o privilegi trasmissibili per eredità (aristocrazie di sangue) questa non era condizione sufficiente né giuridicamente istituzionalizzata. Si ebbe in sostanza nella prima età feudale quella che è stata chiamata “nobiltà di fatto”, legata alle funzioni di amministrazione del potere comunque delegato dal sovrano e i cui privilegi consistettero, in origine soprattutto, nella concessione di terre. Una nobiltà di diritto si formò e si costituì tra i sec. XI e XIII: anche in questo caso la nobiltà fu legata a una funzione preminente e caratterizzante, quella militare, e a privilegi legati a modi di possesso di terre e territori; ma i modi di accesso a questo tipo di nobiltà furono regolati non solo da tradizioni consolidate bensì anche da statuti giuridici quali, per esempio, le norme contenute nella Constitutio de feudis (1037). Il sistema giuridico-politico che così si venne organicamente componendo fu fondato, sia pure in modi e misure diverse da Stato a Stato, sulla struttura gerarchica dei rapporti e dei vincoli feudali: il carattere gerarchico della nobiltà feudale fu connaturato con il suo ruolo e le sue funzioni nello Stato. Accanto alla nobiltà militare e a quella feudale, il fenomeno dei Comuni diede vita, in Italia, a una classe nobiliare cittadina (in parte anch'essa originariamente militare o feudale) legata sia al censo sia all'esercizio del potere nelle città. Almeno teoricamente, al suo primo apparire, questo tipo di nobiltà poteva essere considerato aperto a tutti i cittadini che godessero dei pieni diritti e che fossero soggetti al fondamentale obbligo delle armi; ma con il rapido, progressivo definirsi dei suoi caratteri andò riducendosi il numero delle famiglie che ereditariamente si trasmettevano il potere; uno dei più caratteristici privilegi della nobiltà cittadina (e in linea di diritto anche degli altri tipi di nobiltà) fu l'ammissione dei soli nobili ai più prestigiosi collegi professionali, per esempio dei giureconsulti, dei fisici (medici), ecc. Ma i privilegi più comuni della nobiltà, oltre a quelli più difficilmente definibili, collegati con l'esercizio del potere e la sua ereditarietà, furono normalmente d'ordine fiscale, cioè esenzioni totali o parziali da vari tipi di imposte (in particolare riguardo alle campagne), e d'ordine giudiziario: comunemente il nobile poteva essere giudicato solo da nobili, da suoi pari, molto spesso costituiti in tribunale speciale. Situazione assolutamente atipica fu quella verificatasi a Firenze dopo il 1293 quando gli ordinamenti di Giano della Bella (estesi successivamente ad altre città toscane) imposero alla nobiltà una serie di gravami fiscali e di limitazioni dei diritti civili dai quali erano esenti i non-nobili. Anche col declinare della società feudale e con l'estendersi di una nobiltà dai titoli formalmente simili ma privi di reali contenuti feudali o militari, quei privilegi permasero praticamente inalterati, generalmente confermati dalle legislazioni nobiliari, in qualche caso fino a pochi decenni prima della Rivoluzione francese; piuttosto, tali legislazioni furono intese a regolare l'accesso alla nobiltà di famiglie prive di nobiltà ereditaria. Per converso, il diritto nobiliare contemplò sempre anche i casi per i quali si perdeva la nobiltà: dovunque e ab antiquo, comportava perdita della nobiltà (e dei relativi privilegi) una condanna per crimini contro il sovrano o contro il proprio Paese, in molti casi anche una condanna per delitti comuni di particolare gravità; era anche generalmente considerata motivo di perdita della nobiltà qualsiasi attività retribuita, in particolare se considerata “servile”. Ma a questa regola ogni Paese consentì eccezioni anche vistose, così da permettere alla nobiltà locale di praticare senza pregiudizio attività particolarmente lucrose purché non legate a lavoro manuale. Eccezione tipicamente italiana fu quella che consentì in molte città l'esercizio di alcune professioni, riservando anzi a loro soli, come sopra s'è detto, l'ammissione ai relativi collegi professionali; diversa da luogo a luogo fu anche la considerazione di talune cariche pubbliche o alti uffici dello Stato, quali l'esercizio delle funzioni senatorie che dal sec. XVII furono in molti Paesi considerate sufficienti per l'ammissione automatica alla nobiltà. Le legislazioni più permissive giunsero a concedere la nobiltà a chi potesse dimostrare che nessuno degli ascendenti diretti per un determinato numero di generazioni aveva praticato attività indegne. Dopo la Rivoluzione francese, anche nei Paesi da essa non toccati ma nei quali si erano ormai affermati alcuni dei principi ideali da cui la Rivoluzione era nata, andò mutando la concezione dello Stato e definendosi una nuova idea di nazione: la nobiltà, persi ormai i privilegi di tipo feudale, vide ridursi ovunque e nella maggior parte dei casi rapidamente sparire anche gli altri privilegi tradizionali che nei confronti dello Stato la ponevano in rapporto diverso da quello dei non-nobili.

Araldica: la nobiltà teologica

Nell'ambito della Chiesa la nobiltà venne a formarsi con il compromesso tra il potere civile e quello religioso consacrato fra il papato e l'imperatore Costantino: all'appoggio che la Chiesa forniva all'Impero, questo rispondeva con privilegi e titoli, che mettevano gli ecclesiastici insigniti in una casta a sé, proprio come avveniva della nobiltà di corte e di quella tradizionale. Questo fenomeno divenne più vasto dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, quando le regioni occidentali rimaste sotto l'Impero bizantino erano spesso prive dei funzionari imperiali, le cui mansioni erano svolte da ecclesiastici, che di fatto, anche se non de iure, assumevano i titoli inerenti alla carica che esercitavano. La pratica continuò nel Medioevo quando i dignitari dell'alto clero furono investiti di feudi: provenienti in genere da famiglie nobili, essi assommavano i titoli aviti con i nuovi riconosciuti alla loro carica. Questa nobiltà dovette essere numerosa se per essa fu coniato il nome di nobiltà teologica; essa si adeguò in tutto a quella dei nobili laici e divenne anche ereditaria, potendo gli investiti trasmetterla a fratelli e nipoti; in pari modo si fregiò di propri distintivi e creò regolamenti, ma soprattutto godette di ampi privilegi (tra essi importanti quello di un foro proprio e l'esenzione da molti tributi pubblici). Grande importanza ebbero al tempo delle crociate gli ordini religioso-militari: essi furono una roccaforte della nobiltà non solo perché nobili erano molti dei suoi membri, ma anche perché accumularono nel susseguirsi di anni titoli e privilegi, a cui corrisposero importanti cariche, il tutto contribuendo a fare di questi ordini talora una potenza economica e politica di prim'ordine, capace di competere anche con lo Stato: si ricordi, per esempio, la lotta implacabile condotta contro i templari da Filippo il Bello. In questo clima la Chiesa stessa divenne dispensatrice di titoli di nobiltà non solo nell'ambito dei suoi domini, ma anche nei territori concessi in feudo ad abati e vescovi-conti, per cui si ebbe una vera falange di nobili (attraverso specialmente l'infeudamento delle pievi da parte dei vescovi), che formavano una categoria di fedeli a parte. Oltre al diritto di concedere titoli nobiliari propri, la Chiesa pretese sempre di poter conferire anche quelli del Sacro Romano Impero durante la vacanza della sede imperiale. Anche dopo la Rivoluzione francese, mentre erano caduti molti diritti della nobiltà feudale laica, la Chiesa continuò a distribuire titoli nobiliari. Perduto il potere temporale, la Chiesa fu però in grado di far godere ai suoi nobili titolati i privilegi economici di prima, perché il giovane Stato italiano non procedette a espropri. Questo vantaggio rimase soprattutto alla nobiltà romana, che continuò a possedere le sue vaste tenute e a frequentare la corte pontificia con mansioni onorifiche, come era suo costume da secoli.

Diritto

Secondo la Costituzione italiana vigente i titoli nobiliari non sono riconosciuti. I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome. Nello spirito della Costituzione la legge ha trasformato la Consulta Araldica in un ufficio storico-araldico con funzioni più limitate. Se i predicati sono “parti del nome” e sono tutelati giudizialmente, il titolare può trasmetterli a tutti i suoi discendenti (legittimi e naturali) e anche al figlio adottivo. Per quanto concerne i titoli nobiliari pontifici esistono due correnti dottrinarie opposte: la prima sostiene che essi vanno riconosciuti perché essendo state costituzionalizzate le norme del Concordato con la Santa Sede (1929), che li riconosceva, anch'essi sarebbero automaticamente costituzionalizzati; la seconda corrente invece sostiene che ai titoli nobiliari pontifici va riconosciuto solo il trattamento che viene riservato ai titoli nobiliari nazionali e quindi per essi esiste esclusivamente (come per quelli nazionali) il diritto alla “cognomizzazione del predicato”.

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