Fridays For Future: Martina, Filippo e Luigi in coro per tornare al futuro

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Intervista a Luigi Ferrieri Caputi, Martina Comparelli e Filippo Sotgiu, i ragazzi del direttivo italiano del movimento Fridays For Future.

Ispirato dalle proteste di Greta Thunberg, il movimento globale per la giustizia climatica e ambientale Fridays For Future coinvolge ormai giovani di tutto il mondo. Italia compresa. E proprio nel nostro Paese, nell’ambito della campagna “Ritorno al Futuro”, FFF ha indetto per il 9 ottobre 2020 uno sciopero nazionale, invitando «tutte e tutti a scioperare da una giornata di scuola o di lavoro e ad unirsi alla mobilitazione della propria città, o organizzandone una da zero». Abbiamo parlato di questo sciopero, del futuro del nostro pianeta e di correlazione tra inquinamento e pandemia con il direttivo italiano del movimento, composto dai giovani Luigi Ferrieri Caputi, Martina Comparelli e Filippo Sotgiu.

Come vi siete conosciuti?

«Grazie a Fridays For Future. In tempi e luoghi diversi abbiamo sviluppato la necessità di fare qualcosa per contrastare la crisi climatica. Nel momento in cui il movimento si è formato e abbiamo iniziato a popolare le piazze italiane con le nostre proteste, si è inevitabilmente creata una comunità, prima a livello cittadino e poi a livello nazionale. Ci siamo conosciuti proprio così: cercando di costruire e portare avanti FFF in Italia insieme a tanti altri attivisti».

E come siete entrati a far parte del movimento?

Martina: «Ho sempre partecipato alle manifestazioni di Fridays per mia personale sensibilità, ma la voglia di mettermi in gioco attivamente è nata mentre ero a Londra per finire il mio master in Sviluppo Internazionale. Nell’estate del 2019 uscivo da un’esperienza politica che mi aveva lasciata insoddisfatta e ho trovato nell’attivismo la mia vera dimensione».

Filippo: «A marzo dell’anno scorso Anna, una ragazza di Olbia, dove studiavo alle superiori, ha contattato i rappresentanti d’istituto delle varie scuole della città chiedendo aiuto per organizzare in città la manifestazione per il primo Sciopero Globale per il Clima, che si sarebbe tenuto il 15 del mese. Io ero uno dei rappresentanti e così, insieme ad altri ragazzi, abbiamo organizzato lo sciopero, dando inizio a Fridays For Future a Olbia».

Luigi: «Anche io ero alle superiori. Il 2019 per la nostra scuola di Livorno è stato un anno di grandi manifestazioni, quindi c’era già una situazione favorevole alla partecipazione politica. Dopo che un nostro compagno, Giacomo, ci ha raccontato degli scioperi di Greta, abbiamo deciso tra rappresentanti di istituto, di classe e alcuni amici di aderire a Fridays For Future, scendendo il piazza il 15 marzo 2019».

quando è nato il vostro interesse per la questione ambientalista?

Martina: «In realtà c’è sempre stato, semplicemente si è evoluto nel tempo. Tendo a percepire le ingiustizie in modo molto intenso: la crisi climatica è sia sintomo che origine di disuguaglianze, sfruttamenti e violazioni sia verso la natura che nei confronti degli esseri umani più vulnerabili. Nel momento in cui, grazie a un ambiente scolastico particolarmente sensibile e a miei vissuti personali, ho sviluppato una vocazione per i temi sociali e progressisti, è stato automatico includere l’ecologia e la questione climatica».

Filippo: «Sono sempre stato sensibile a questi temi, ma una vera consapevolezza è arrivata di fatto proprio grazie all’attivismo. Per convincere altre persone hai bisogno di informarti, e più ci si informa, più ci si rende conto della reale portata della crisi climatica».

Luigi: «Mi è sempre stata a cuore, come penso in realtà a tutti. A chi non starebbe a cuore la propria casa? A chi non sta a cuore la natura? Il grande cambiamento, però, è stato capire quanto la crisi climatica non fosse per niente una “questione ambientalista”, quanto politica ed economico-sociale. Iniziando a fare attivismo è arrivata anche la necessità di approfondire i vari temi, e con l’approfondimento anche una grande consapevolezza: il nostro futuro, e quello delle prossime generazioni, è minacciato in una maniera che, prima, avrei ritenuto possibile solo nei film di fantascienza!»

Che cosa vorreste fare in futuro?

Martina: «Quello per cui ho studiato: lavorare nel campo umanitario e dello sviluppo. In realtà sono settori della cooperazione estremamente diversi: mi piacerebbe inserirmi nel mezzo, con progetti di peace-building e state-building successivi a conflitti riguardanti soprattutto le risorse naturali. Nello specifico, vorrei pianificare la ricostruzione delle comunità con progetti provenienti dal basso, dagli abitanti del posto. In alternativa, mi piacerebbe occuparmi di migrazioni e accoglienza, specialmente per quanto concerne i migranti climatici. In poche parole, punto a fare un lavoro che, nelle mie migliori speranze, un giorno non servirà più».

Luigi: «Vivere sarebbe già un bel passo avanti, considerate le attuali politiche climatiche dei nostri governi. Un po’ come nel diritto, no? Tutte le libertà sono uguali… ma senza il diritto alla vita difficilmente il resto può aver senso. Tutti i sogni sono uguali, certo, ma quello di avere un futuro vivibile è senz’altro essenziale. Avendo un futuro garantito, sarebbe davvero bello entrare nel mondo diplomatico e delle relazioni internazionali, che sto studiando a Firenze. La cooperazione internazionale è senz’altro essenziale sia per affrontare un problema enorme come la crisi climatica, e lo sarà ancora di più in futuro quando, gli effetti che comunque non potremmo evitare, ci obbligheranno a confrontarci con nuove sfide, dalle dimensioni mai viste prima».

Filippo: «Difficile fare previsioni, considerando che forse fra 10 anni la nostra casa non sarà più un luogo sicuro in cui vivere, o che tra 20 dovremo lottare per avere da mangiare e da bere. In uno scenario in cui possiamo essere sicuri che la crisi climatica viene affrontata, il futuro si prospetta roseo. Potrei insegnare, cercare la soluzione a problemi matematici, scrivere racconti, suonare il piano, coltivare i campi, lottare perché tutti abbiano accesso alle stesse possibilità che ho avuto. Ma in un mondo a +3 o +4 gradi, che senso hanno tutte queste fantasticherie?»

Fridays for future è più di un movimento ambientalista?

«Assolutamente sì. In effetti, noi non ci consideriamo proprio un movimento ambientalista, semmai ecologista. In altre parole, non lottiamo per il bene dell’ambiente, ma anche e soprattutto per quello dell’umanità: abbiamo una visione globale e politica della crisi climatica e ambientale e delle sue potenziali soluzioni. Inoltre, FFF è un movimento davvero globale: nel giro di pochi mesi siamo riusciti a connetterci ad attiviste e attivisti da tutto il mondo, organizzandoci per scioperare insieme e portare gli stessi messaggi ovunque possiamo. Naturalmente, Fridays For Future è anche una comunità: non è solo protesta, è anche gioia di spendersi per una causa comune e voglia di ritrovarsi nei vari contesti in cui agiamo».

Cosa vedete nel futuro del nostro pianeta se non facciamo niente?

«Quello che forse dovremmo chiederci è cosa vediamo nel futuro dell’umanità. La Terra sopravviverà alla crisi climatica, noi e moltissime altre specie probabilmente no. Vediamo, comunque, quello che ci spiega la scienza: una Terra sempre meno vivibile, risorse sempre più limitate e concentrate nelle mani di pochi privilegiati, l’aumento dei deserti e del livello del mare… Basta leggere anche solo il sommario per i governi estrapolato dallo Special Report 1.5 dell’IPCC (gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, ndr) per farsi un’idea. I documenti scientifici a disposizione dipingono scenari distopici e un mondo inabitabile. Ma basta fare una rapida ricerca su Internet per scoprire che alcuni di questi scenari sono già reali».

Sul sito di Fridays For Future si può leggere: «Abbiamo raccolto nella campagna “Ritorno al Futuro”, insieme a esperti e associazioni, molte proposte concrete per il governo italiano». Quali sono queste proposte?

«Ne abbiamo davvero tante! Si parte con la transizione energetica ed ecologica: dobbiamo tassativamente abbandonare tutte le fonti energetiche fossili per azzerare le emissioni entro il 2030 e rispettare l’Accordo di Parigi. Per far sì che questa transizione non lasci indietro nessuno e non svantaggi chi è già in difficoltà, avremo bisogno di massicci investimenti pubblici: quale modo migliore per investire il Recovery Fund se non questo? Ma non basta. Va ripensata la filiera agroalimentare e cambiato il modo di pensare al turismo per tutelare il territorio. Bisogna efficientare gli edifici, migliorare le reti di trasporto pubblico e disincentivare quello su gomma. Per fare tutto ciò, la ricerca e l’educazione saranno fondamentali. A livello europeo, bisogna superare il paradigma dell’austerity e rendere l’Unione uno strumento di solidarietà e collaborazione per attuare al più presto la riconversione ecologica. E, non ci stancheremo mai di dirlo, tutte queste riforme devono puntare a un cambio di paradigma e un nuovo sistema basato sulla giustizia climatica e sociale».

Quali sarebbero le misure più urgenti da adottare per la salvaguardia del nostro/vostro futuro?

«Sempre nell’ottica di un cambiamento davvero sistemico e profondo del nostro modo di vivere e di convivere con la natura, tutti i punti di Ritorno al Futuro sono davvero indispensabili. L’azzeramento delle emissioni di gas serra, e quindi l’uscita dal fossile, è imprescindibile: tutte le misure ad esso collegate devono essere considerate prioritarie, con lo stesso senso di urgenza che abbiamo imparato a conoscere per le misure anti-Covid».

Immaginate di prendere la macchina del tempo di "Doc" e di trovarvi di colpo catapultati nel 2090: qual è il futuro che vi aspettate di trovare qualora nulla cambiasse?

«Onestamente, nessuno può sapere con esattezza cosa accadrà da qui al 2090. Le nostre paure sono basate sulle previsioni degli esperti e, nel caso nulla cambiasse, sappiamo che ci stiamo muovendo verso un mondo a +3/+4 gradi centigradi. A queste temperature non solo si avvereranno tutte le previsioni più nefaste degli scienziati per i prossimi 30 anni, ma siamo praticamente certi di innescare tutti i feedback loop, ovvero le reazioni a catena che, scatenate dal cambiamento climatico, portano ad un ulteriore peggioramento del cambiamento climatico stesso. La temperatura potrebbe salire molto più di quanto è attualmente previsto, fino a livelli incompatibili con la vita umana. Sarebbe verosimile trovare l’Amazzonia completamente sostituita da un deserto, le isole del Pacifico scomparse, un terzo del Veneto sott’acqua, una pandemia ogni due o tre anni, l’Asia secca e arida, l’intera popolazione mondiale concentrata nelle aree ora più fredde. Ma sono tutte fantasie: la cosa più spaventosa della crisi climatica è che non abbiamo davvero un’idea di che cosa ci accadrà fra 70 anni. La situazione, comunque, è già abbastanza drammatica considerando le previsioni al 2050».

Ovviamente la campagna si rivolge ai potenti del pianeta. Ma che cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, nella vita di tutti i giorni, per salvaguardare la Terra?

«Noi non siamo grandi sostenitori della teoria dei piccoli gesti quotidiani. Gli studi dimostrano che l’azione del singolo, anche se diffusa e radicata, avrebbe un impatto del tutto insufficiente, se non si cambiassero i meccanismi produttivi alla base della società. Però, ovviamente, questo non è un buon motivo per agire come se le nostre azioni non contribuissero al problema, e se non altro possiamo sperare di avere un effetto di traino sulle altre persone. Ridurre drasticamente il consumo di carne e derivati animali e abbattere gli sprechi alimentari: queste due azioni sono realmente efficaci per contrastare la crisi climatica, e il loro impatto è largamente sottovalutato. Per il resto certo, bisognerebbe evitare i viaggi in aereo, non comprare nuovi abiti se non strettamente necessari, passare a provider energetici da fonti rinnovabili. Ma la cosa più importante in assoluto è l’azione politica: informarsi e informare, manifestare e fare pressione sui governi affinché agiscano immediatamente! Non esiste “piccolo gesto” più importante di questo».

Sempre dal sito: «Le misure per la ripartenza sono l’occasione irripetibile per avviare la #RiconversioneEcologica, risolvendo i problemi sociali del nostro Paese». Potete parlarci di questa riconversione ecologica?

«La riconversione ecologica riguarda tutti gli aspetti fondamentali della nostra vita che, fino ad oggi, si sono basati sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse del Pianeta. Si deve declinare in diversi campi: in quello energetico, con il passaggio totale alle fonti rinnovabili; in quello economico, con l’abbandono della mentalità consumistica e dell’usa e getta e la conversione delle aziende inquinanti; in quello sociale, con un approccio davvero egualitario ai costi della transizione. In altre parole, nessuno deve essere lasciato indietro, in questo percorso difficile ma necessario. La riconversione ecologica è una grande occasione per creare posti di lavoro. Secondo un recente rapporto investire nella decarbonizzazione potrebbe aumentare dell’11% il tasso di occupazione in 10 anni».

Prima avete accennato al Covid-19. C'è un rapporto tra cambiamenti climatici e la pandemia di Coronavirus?

«Secondo diversi esperti, il Covid-19 era già presente in alcuni animali e nell’ultimo anno è passato a noi, con le conseguenze che ancora oggi vediamo. Con la distruzione ecosistemica e la perdita della biodiversità, i salti intraspecie delle patologie da alcuni animali a noi sono e saranno sempre di più. La correlazione è così chiara che David Quammen, nel 2012, sulla base dei dati scientifici allora a disposizione aveva previsto una pandemia del tutto corrispondente a quella di oggi. Gli scienziati ci indicano che il Coronavirus potrebbe essere solo la prima di una lunga serie di pandemie. Inoltre, dobbiamo considerare il collegamento tra patologie respiratorie e l’aria inquinata: il Covid-19 colpisce i nostri polmoni, che, soprattutto nel Nord-Italia, sono già indeboliti dagli alti livelli di particolato nell’aria».

Perché la crisi climatica non viene affrontata con la stessa decisione con cui è stata affrontata quella relativa al Covid-19?

«Per una questione di visibilità e tempistiche. Nel giro di pochi giorni, i contagi per Covid-19 sono schizzati alle stelle e i nostri politici si sono trovati costretti a chiudere tutto. La crisi climatica è, o meglio sembra, più lenta e meno visibile. Un’altra differenza sta nella ricerca e nei dati: l’emergenza climatica è un fenomeno estremamente complesso, con tante sfaccettature. Sta alla base di diversi disastri naturali, cambiamenti sociali e problemi a livello di salute. Noi siamo colpiti individualmente o collettivamente dai sintomi di questa crisi e, dovendoci preoccupare della nostra sopravvivenza nel qui e ora, perdiamo di vista il quadro generale. Anche la raccolta dati e la connessione causa-effetto in diversi campi accademici è ancora limitata: basti pensare alle morti dovute ai grandi uragani, più frequenti e intensi a causa del cambiamento climatico. Per questo scuola e ricerca sono importanti. A livello più generale, la preoccupazione per la crisi climatica nasce da una visione globale del mondo, che non a caso appartiene soprattutto, ma non solo, alle nuove generazioni. Questo rende la sua comunicazione estremamente complicata, ma non impossibile. E sicuramente noi non smetteremo di parlarne».