La reazione Antiromantica, il Verismo e la stagione decadente

La reazione antiromantica

La conclusione del Risorgimento, con l'unificazione del Regno d'Italia (1861), nonostante gli eventi esaltanti a cui molti letterati avevano preso parte, lasciò emergere un grave disagio intellettuale, frutto delle molte speranze andate deluse e di un'emarginazione sociale a cui l'artista sembrava votato. Questo senso di delusione si concretizzò in una radicale critica al romanticismo attraverso sia il disimpegno della Scapigliatura, sia il classicismo critico di Carducci.

La scapigliatura

Il diffuso atteggiamento di insofferenza nei confronti del clima civile e sociale dell'epoca (in politica la gestione moderata del Risorgimento, nell'arte i toni moralistici e provinciali del romanticismo italiano) avviò una forte reazione alla cultura romantica da parte del gruppo della Scapigliatura, operante perlopiù a Milano negli anni '60. Il termine Scapigliatura, provocatorio e programmatico, simboleggiava il disordine della vita e dell'abbigliamento contro l'ordine curato e artificiale imperante. I temi degli scapigliati erano la lotta al conformismo borghese, dietro a cui vedevano il moderatismo romantico, il suo provincialismo e quindi il tono ormai convenzionale di una cultura incapace di stare al passo con la grande letteratura straniera, specie francese. La Scapigliatura non costituì mai, in effetti, un vero e proprio gruppo, ma solo un orientamento di rottura. Il "realismo" europeo fu il pretesto per provocare e attaccare (persino attraverso un furioso sperimentalismo formale) la sentimentale tradizione retorico-umanistica.

Ne fu araldo il milanese Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti, 1830-1906) con il romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862), che narra di un ambiente di giovani artisti milanesi, irrequieti e ribelli.

Nato nel Monferrato, Ugo Iginio Tarchetti (1839-1869) dopo gli studi superiori fu ufficiale di carriera e partecipò alla repressione del brigantaggio nel Meridione, fatto che lo indusse a lasciare la vita militare. A quegli anni risalgono le prime composizioni, le prose poetiche Canti del cuore (1865). Suggestionato dalla letteratura fantastica del tedesco E.T. Hoffmann e di E.A. Poe, descrisse casi strani e bizzarri, pervasi talora da forte gusto per il macabro. Si ricordano i racconti Le leggende del castello nero (1867); Amore nell'arte (1869); Storia di una gamba (1869). Della sua produzione narrativa sono di particolare interesse tre romanzi: Paolina (1865), storia di una povera fanciulla nella crudele realtà della città; Una nobile follia. Drammi della vita militare (1866), violenta denuncia antimilitarista delle ipocrisie sociali; ma soprattutto Fosca (1869), l'opera più riuscita, che narra l'inquietante passione di un giovane per una donna brutta e malata, che, tuttavia, lo lega a sé per fascino morboso e perverso.

 

Carlo Dossi

Carlo Dossi, pseudonimo di Carlo Aberto Pisani Dossi (1849-1910) è considerato l'esponente della Scapigliatura che più di ogni altro tentò di scardinare le tradizionali forme letterarie. Di famiglia nobile, si avvicinò agli scapigliati senza condividerne la vita trasgressiva e antiborghese. Esordì pubblicando il racconto Educazione pretina (1866); di poco posteriori sono i suoi capolavori, i romanzi L'Altrieri-nero su bianco (1868) e Vita di Alberto Pisani scritta da C. D. (1870). Nell'Altrieri sono narrati in prima persona gli episodi più significativi dell'infanzia di Guido Etelredi, alter ego dell'autore, in un'ottica deformante e deformata, tra il fantastico e il grottesco. L'infanzia è stagione sognante e felice, in cui troppo presto al sogno subentra la dura realtà, fatta di costrizione. Il procedimento narrativo ironico evita qualunque coinvolgimento emozionale; il lessico ricchissimo e vario, mescolato di toscanismi e lombardismi, termini aulici e letterari, parole comuni e gergali, crea una lingua irregolare, in una sintassi spezzata e anomala. La rievocazione autobiografica continua nella Vita di Alberto Pisani, dove l'uso della terza persona distanzia la materia rievocata in una scrittura sempre più ironica e paradossale, che richiama l'inglese L. Sterne: l'opera racconta la vicenda letteraria e sentimentale di un individuo inetto che si rifugia nell'isolamento. Una valutazione negativa del mondo emerge anche dai racconti Ritratti umani, dal calamaio di un medico (1873), vera e propria galleria di ritratti umani "negativi", da cui emerge il disamore dello scrittore per l'umanità. Anche La desinenza in A (1878) è una serie di ritratti, di donne, in cui l'universo femminile descritto si carica d'un fascino sottile e coinvolgente: la donna è colta ora come essere beatificante, ora come animale perverso e malefico. Altre prove significative sono: Goccie d'inchiostro (1880), una raccolta di racconti e bozzetti; Il Regno dei cieli (1873) e La colonia Felice-Utopia lirica (1874), che delinea un mondo utopico, retto da leggi "buone", e proprio per questo paradossale. Il volume Amori (1887) è una particolarissima autobiografia amorosa, in cui Dossi passa in rassegna le donne amate, sognate, desiderate, legami reali e immaginari, lievi e spesso evanescenti che hanno segnato la sua vita. Dossi compose anche un testo teatrale in dialetto milanese, Ona famiglia de cilapponi (1905) e Note azzurre, un diario di appunti pubblicati in parte postumi nel 1912 e integralmente nel 1964. Di Dossi sorprende l'intelligenza, la modernità, il furore espressionistico già novecentesco.

 

Emilio Praga e Arrigo Boito

Il milanese Emilio Praga (1839-1875) iniziò la sua attività artistica come pittore (scapigliati furono anche vari pittori dell'epoca) e solo successivamente si volse alla letteratura. Dopo alcuni viaggi in Europa, di grande importanza per la sua formazione, si legò di profonda amicizia con A. Boito, con il quale nella Milano degli anni '60, partecipò attivamente alla definizione del movimento scapigliato. Fin dalle prime raccolte di versi, Tavolozza (1862) e Penombre (1864, il migliore della poesia scapigliata), egli prese posizione contro le poetiche romantiche e in particolare contro Manzoni: al sentimentalismo del tardo romanticismo e alle idealità della letteratura risorgimentale contrappose un'adesione al "vero", assumendo temi e linguaggio legati alla vita quotidiana, riprodotti nella sua lirica con sfumature di colore. La sua ribellione lo condusse ad atteggiamenti di forte anticlericalismo. Nel 1867 pubblicò la terza raccolta di versi Fiabe e leggende, di minor rilievo poetico.

Il musicista e scrittore veneziano Arrigo Boito (1842-1918) conobbe a Parigi musicisti famosi, tra i quali G. Verdi, e dal 1862 frequentò a Milano gli ambienti intellettuali più avanzati. Con il Libro dei versi (1873) e l'opera musicale Mefistofele (1868), propose la sua scelta scapigliata, di un grottesco macabro e crudo. A metà degli anni '70 la sua sperimentazione radicale si fece più prudente: il Mefistofele (in una nuova redazione del 1875) ottenne grande successo. Rilevante la sua attività di librettista (soprattutto per Verdi, per cui scrisse i libretti del Falstaff e dell'Otello), mentre del suo Nerone pubblicò nel 1901 il libretto ma mai la partitura.

 

La Scapigliatura piemontese

All'ambiente piemontese appartengono autori della seconda generazione della Scapigliatura.
Giovanni Camerana (1845-1905), di Casale Monferrato, è poeta quasi protosimbolista, i cui Versi fatti di evanescenze luminose furono pubblicati postumi nel 1907.
Il vercellese Giovanni Faldella (1846-1928), fondatore del periodico "Il Velocipede" (1869), attuò uno sperimentalismo linguistico gustoso, carico di scatti umoristici e ironici. Fra le sue opere narrative si ricordano Figurine (1875) e Madonna di fuoco e Madonna di neve (1888), che riflettono la lacerazione tra mondo rurale e cittadino.

Giosuè Carducci

Giosue Carducci è il rappresentante più grande della nuova poesia italiana sulla fine del secolo.

 

La vita

Nato nel 1835 a Valdicastello, presso Lucca, studiò a Firenze, quindi alla Normale di Pisa (1856), iniziando la carriera di insegnante al Liceo di San Miniato. Nel 1857 perse il fratello Dante e nel 1858 anche il padre (medico condotto di idee mazziniane) e dovette perciò provvedere alla madre e al fratello minore. Nel 1860 fu chiamato dal ministro Terenzio Mamiani alla cattedra di eloquenza (divenuta più tardi di letteratura italiana) all'università di Bologna, e iniziò un intenso e scrupoloso lavoro di insegnamento e di ricerca critica e filologica. Assunse posizioni filorepubblicane e giacobine, sfociate nell'Inno a Satana (1863). Nel 1870 la sua vita familiare fu funestata dalla morte precoce del figlio Dante, di soli tre anni. Il volume Poesie (1871) gli diede la piena affermazione.

Negli anni '80, scontento della politica della Sinistra e preoccupato per il diffondersi delle idee socialiste, si avvicinò sempre più alla monarchia sabauda, che cominciò a considerare come unica garante dell'unità d'Italia. In ciò fu influenzato dalle scelte della massoneria, a cui era affiliato, e dal fascino personale esercitato su di lui dalla regina Margherita, alla quale dedicò l'ode Alla regina d'Italia (1878). Aderì alla linea politica di Crispi e divenne la voce più autorevole dell'Italia umbertina. In varie occasioni pronunciò orazioni ufficiali, molto ammirate, fra le quali: Presso la tomba di Francesco Petrarca (1874), Per la morte di Giuseppe Garibaldi (1882), Per l'inaugurazione di un monumento a Virgilio in Pietole (1884). Negli ultimi anni curò l'edizione definitiva delle proprie Opere (1889-1905). Lasciò l'insegnamento nel 1904; nel 1906 fu insignito del premio Nobel.

 

La produzione poetica

Le prime raccolte segnano un ritorno al classicismo: Juvenilia (1850-60) e Levia gravia (1861-71) vogliono essere un modello di dignità non solo letterario da contrapporre al presente. Anche Giambi ed epodi (edizione definitiva 1882), attraversati da una vena polemica contro la realtà politico-sociale contemporanea, richiamano la poesia satirica e di forte invettiva degli antichi. L'Inno a Satana del 1863 suscitò scandalo e polemiche, perché esprimeva in una forma poetica classicheggiante una tematica decisamente giacobina e anticlericale.

L'esaltazione del passato eroico contrassegnò anche le raccolte della sua maturità poetica, che coincise con la pubblicazione, nel 1877, delle Odi barbare (così da lui definite perché composte con l'intento di riprodurvi tramite gli accenti il metro classico, per cui barbare, cioè straniere, "sarebbero sembrate al giudizio dei greci e dei romani") e delle Rime nuove (1887). In tali raccolte il tema della memoria storica si definisce ulteriormente e si arricchisce con la memoria personale del poeta, in una ricerca stilistica e formale che lo avvicina ai parnassiani, cultori della bellezza classica da contrapporre alla mediocrità borghese. La nostalgia dell'eroico in queste raccolte si proietta verso età diverse: dalla Roma repubblicana (Nell'annuale della fondazione di RomaAlle fonti del ClitumnoDinanzi alle Terme di Caracalla) all'età dei comuni italiani (Il comune rusticoIl Parlamento), alla rivoluzione francese (i sonetti del Ça ira), al Risorgimento italiano (Scoglio di Quarto). Queste sono le liriche in cui Carducci assunse chiaramente il ruolo di poeta-vate, di maestro e cantore nazionale con una funzione educativa e patriottica. Soprattutto nelle Rime nuove il tema della memoria si orienta verso il mondo privato del poeta, nel recupero dei momenti più felici e spensierati dell'infanzia e dell'adolescenza vissute in Maremma, il luogo dove il poeta ha condotto una vita libera e solare, che si contrappone al grigiore del presente, alla vita cittadina del "professor Carducci". Le liriche Idillio maremmanoDavanti San GuidoTraversando la maremma toscana sono il risultato forse più alto del Carducci poeta intimo e degli affetti. Al mondo privato, alle sue tragedie più dolorose, al tema della morte si richiamano altre liriche di queste raccolte che rappresentano gli esiti migliori di Carducci: Pianto antico e Funere mersit acerbo ne sono gli esempi più compiuti. Le due poesie si caratterizzano per il venir meno dell'eroicità precedente, rivelando una nuova inquietudine del poeta, "percosso" dalla morte e dal dolore, dalla delusione e dallo sconforto, che, sempre contenuti e misurati, danno il via anche a una nuova evocazione della natura, ora più cupa, attraversata da segni di morte. Notevole è anche l'ultima raccolta, Rime e ritmi (1899).

Carducci prosatore

Gli scritti in prosa si possono suddividere in tre gruppi. Anzitutto i saggi storico-critici, frutto del lavoro di docente universitario: Carducci privilegia l'analisi del testo, con particolare attenzione alla sua storia e all'ambito linguistico, retorico e formale. Spiccano Della varia fortuna di Dante (1866-67), Dello svolgimento della letteratura nazionale (1868-71), La storia del "Giorno" di Giuseppe Parini (1892); tra le edizioni critiche, da segnalare i lavori su Poliziano (1863) e sulle Rime di Petrarca (1899). Il secondo gruppo è costituito dagli scritti di polemica (letteraria, politica, ideologica), caratterizzati da uno stile violento, con punte di vistoso autobiografismo: Polemiche sataniche (1863); Eterno femminino regale (1881), composto per difendere il suo avvicinamento alla monarchia. Il terzo gruppo è costituito essenzialmente dall'epistolario pubblicato postumo (1938-60) in 21 volumi, che offre un'immagine più intima e sofferta del poeta.

 

Il giudizio critico

Carducci fu personalità poetica di grande rilievo per le idealità patriottiche e nazionali, che gli guadagnarono il soprannome di "vate" d'Italia. Nella sua produzione spiccano anche accenti di commossa intimità sul piano poetico ed esiti di indiscussa validità sul piano critico-storiografico. Dopo il grande successo presso i suoi contemporanei e la valutazione positiva di Benedetto Croce, che vide nella sua poesia un esempio di "integra umanità", la sua opera è stata considerata poco originale, estranea al panorama europeo. La critica più recente ha individuato nelle sue liriche più intime la compresenza di due poli tematici, il sentimento della vita e quello della morte, che conferiscono alla sua poesia una tensione autentica e sofferta.

La reazione antiromantica in sintesi

Scapigliatura La Scapigliatura, sorta e sviluppatasi a Milano negli anni '70-'80, più che un vero gruppo fu un orientamento di rottura e di anticonformismo per provocare e attaccare (attraverso un furioso sperimentalismo formale) la polverosa e sentimentale tradizione retorico-umanistica.
Esponenti C. Arrighi (1830-1906); U.I. Tarchetti (1839-1869); il musicista e scrittore Arrigo Boito (1842-1918); Emilio Praga (1839-1875), poeta (Fiabe e leggende, 1867) e narratore (Memorie del presbiterio, 1877).
Carlo Dossi Carlo Dossi (1849-1910) è l'esponente più rappresentativo della Scapigliatura, autore di ritratti negativi tra ironia e paradosso (L'Altrieri-nero su bianco, 1868, e Vita di Alberto Pisani scritta da C.D., 1870).
Carducci Carducci (1835-1907), attivo nell'insegnamento universitario e nella vita politica, vate del Regno d'Italia, riuscì a rimettere in gioco sia le estenuate istanze del nostro migliore classicismo, sia le nuove necessità realistiche europee. Produzione giovanile: Juvenilia (1850-60), Levia gravia (1861-71), Giambi ed epodi (edizione definitiva 1882). Produzione della maturità: Odi barbare (1877) e Rime nuove (1887); Rime e ritmi (1899). Notevole la sua sperimentazione metrico-linguistica.

Il Verismo

Il Verismo è il movimento letterario italiano più interessante della seconda parte del secolo che, sulle premesse filosofiche del positivismo, trae origine dalle teorie del naturalismo francese e dalle condizioni proprie del momento storico italiano, come la grave crisi delle regioni meridionali, l'esistenza di una consuetudine linguistica e dialettale di carattere regionale e la mancanza di una consolidata tradizione di narrativa romantica di tipo realistico e di contenuto sociale. Maestro indiscusso del movimento è Giovanni Verga. Una posizione più appartata, ma più inquieta, è quella di Antonio Fogazzaro.

La poetica verista

Il primo ispiratore e teorico del movimento verista fu indirettamente De Sanctis, che nei saggi Il principio del realismo (1872) e Studio sopra E. Zola (1878) auspicò una letteratura fondata sul vero. Le teorie di De Sanctis furono riprese e sviluppate da Capuana, che intese l'opera d'arte come "forma" vivente, come organismo dotato di una propria vita, né modificata né condizionata da chi scrive. Il testo narrativo in cui queste posizioni vengono più esplicitamente evidenziate è la novella di Verga L'amante di Gramigna, raccolta in Vita dei campi (1880), nella cui prefazione l'autore espone la sua interpretazione della teoria dell'impersonalità (nell'opera d'arte "la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile"). Verga, però, a differenza di Zola, ritiene che lo scrittore non potrà mai agire con il rigore dello scienziato, perché "il processo di creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane": il verismo si propone, coerentemente con le concezioni naturalistiche, di offrire al lettore la fotografia della realtà senza che l'autore interferisca con essa: il massimo risultato che uno scrittore possa ottenere è quello dunque di fare in modo che lo scritto "sembri essersi fatto da sé"). Stabilito il "frammento di vita" di cui occuparsi, il narratore lascia che gli avvenimenti siano osservati e giudicati attraverso la scala di valori propri dell'ambiente preso in esame. Il punto di vista di chi scrive è soggetto a una "regressione", che si riflette non solo nell'area del contenuto, ma addirittura sulle scelte linguistiche, come nel caso dei Malavoglia (1881) di Verga, in cui prevalgono la struttura sintattica del dialetto tipico del mondo contadino e le forme del discorso indiretto libero, come se la prosa fosse lo specchio di un intervento collettivo indeterminato.

Giovanni Verga

È il massimo esponente del verismo, di cui fu anche uno dei teorici.

 

La vita e le opere

La famiglia, di sentimenti liberali, apparteneva alla piccola nobiltà di campagna. Nato a Catania nel 1840, Giovanni Verga trascorse la giovinezza nella proprietà di Vizzini, vicino al capoluogo etneo. Nel 1858 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza; all'arrivo di Garibaldi (1860) si arruolò nella Guardia nazionale e rimase in servizio fino al 1864. In quegli anni scrisse e pubblicò alcuni romanzi di contenuto patriottico (I carbonari della montagna, 1861-62; Sulle lagune, 1863) e collaborò con numerose riviste politiche e letterarie. Nel 1865 compì il primo viaggio a Firenze, allora capitale d'Italia, restando affascinato dal mondo intellettuale della città. Vi tornò più stabilmente nel 1869, dopo aver pubblicato il romanzo Una peccatrice (1866) e averne preparato un secondo, Storia di una capinera (1871).

Dal 1872 si trasferì a Milano. L'incontro più significativo fu quello con il siciliano Capuana, che gli fece conoscere il naturalismo degli scrittori francesi Flaubert e Zola. Pubblicato un terzo romanzo, Eva (1873), Verga continuò una produzione connotata da due tendenze antitetiche: scrisse un bozzetto di forte impronta naturalista e di ambientazione siciliana (Nedda, 1874) e contemporaneamente approntò due romanzi dai toni tardoromantici, con tematiche proprie del mondo elegante dei salotti aristocratici e borghesiTigre reale (1875) ed Eros (1875). Il suo interesse si era ormai orientato verso la poetica del vero, mutuata dagli scrittori francesi: dall'intensa riflessione teorica e dal recupero nella memoria di temi siciliani nacquero le raccolte di novelle Vita dei campi (1880), Novelle rusticane (1883) e il romanzo I Malavoglia (1881), il primo del ciclo intitolato I vinti. Queste grandi opere sia per la novità dell'argomento, accentuata dalla sostanziale marginalità dell'ambiente rappresentato, sia per l'originalità dell'impostazione linguistica, molto distante dalla tradizione manzoniana, non ottennero il successo che avrebbero meritato. Per questo motivo, oltre che per sopravvenute difficoltà economiche, lo scrittore non trascurò del tutto la narrativa di ambiente non siciliano e pubblicò il romanzo Il marito di Elena (1882) e le novelle milanesi Per le vie (1883). Nel 1884 ottenne un grande successo con la versione teatrale della novella Cavalleria rusticana, andata in scena a Torino per interessamento di Giacosa. Ritrovato l'entusiasmo, egli tornò a dedicarsi alle novelle di ambiente siciliano (Vagabondaggio, 1887) e soprattutto alla stesura di un romanzo già iniziato verso il 1883 e mai compiuto, il Mastro-don Gesualdo (1889), che fu ben accolto dai lettori. Seguirono altre due raccolte di novelle, I ricordi del capitano d'Arce (1891) e Don Candeloro e C.i (1894). Nel frattempo aveva ottenuto un trionfo la versione musicale della Cavalleria rusticana, opera di Mascagni (la prima è del 1890): Verga, di nuovo in ristrettezze economiche, fece causa al compositore e all'editore Sonzogno, ottenendo (1893) un sostanzioso risarcimento, che gli consentì di vivere agiatamente per il resto dei suoi giorni.

Nel 1893 tornò in Sicilia e si occupò con continuità soprattutto di teatro, per cui compose tra l'altro i drammi La lupa (1896), La caccia al lupo (1901), La caccia alla volpe (1901) e soprattutto Dal tuo al mio (1903), in cui viene presentata una tematica sociale di notevole intensità e modernità. Per circa vent'anni, fino alla morte avvenuta a Catania nel 1922, scomparve dalla ribalta letteraria.

 

La teoria dell'impersonalità

La posizione di Verga nell'ambito delle poetiche del vero è il metodo dell'"impersonalità", lasciare che sia il "fatto nudo e schietto", e non le valutazioni dell'autore, il centro della narrazione, come scrive nella premessa alla novella L'amante di Gramigna. Su questa impostazione Verga sviluppò in particolare la parte più alta della sua produzione novellistica. La Vita dei campi è caratterizzata dalla presenza di indimenticabili personaggi dominati da una tragica condizione di violenza, in cui si frantumano i diversi aspetti della vita: essa diviene brutalità nei rapporti umani (Rosso Malpelo), crudeltà nella vita sociale (Jeli il pastore), disperazione nel conflitto dei sentimenti (Cavalleria rusticana), tragica oppressione delle pulsioni naturali del sesso e della psiche (La lupa e L'amante di Gramigna).

Le Novelle rusticane invece prediligono quadri d'assieme, segnati da un immutabile destino di sconfitta sia nel confronto con la natura (Malaria), sia in quello con la storia (Libertà; Cos'è il re). Dominano la morte e il fattore economico, che in questo contesto acquista un aspetto particolare, di mezzo per la sopravvivenza e di idolo del possesso (Pane neroLa roba), assumendo in un caso e nell'altro un significato più importante della vita stessa.

 

Il ciclo dei vinti

Da Zola Verga ricavò, oltre ai principi generali del romanzo sperimentale, la concezione di origine darwiniana del "ciclo", inteso come susseguirsi di romanzi che, riguardando gli stessi personaggi o i loro discendenti, permettono di cogliere le costanti e le modificazioni di comportamento in relazione al mutare dell'ambiente sociale. Nella prefazione ai Malavoglia Verga definisce la tesi generale e le articolazioni del "ciclo dei vinti", che egli definisce "una specie di fantasmagoria della lotta per la vita". Secondo il progetto, il ciclo avrebbe dovuto essere composto da cinque romanzi (I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso), attraverso cui l'autore avrebbe descritto la lotta per l'affermazione in tutte le classi sociali, dalle più umili alle più elevate. L'idea base era che i protagonisti pagassero il loro tentativo di modificare la propria condizione sociale con una sconfitta irreparabile. Con un corollario: il mutamento, e non solo della struttura sociale, ma anche dei rapporti interpersonali, risulta impossibile; la delusione che ne deriva è una vera e propria vendetta della colpa.

I Malavoglia narrano le vicende di una famiglia di pescatori di Aci Trezza, guidata con polso fermo da padron 'Ntoni, il nonno, che, sullo sfondo di un'Italia appena unificata, affronta il drammatico passaggio dai valori di un mondo arcaico alla sfuggente realtà del presente. Il romanzo si costruisce attorno al fondamentale concetto dell'"ideale dell'ostrica", cioè la necessità per chi appartiene alla fascia dei deboli di rimanere abbarbicato ai valori della famiglia, al lavoro, alle tradizioni ataviche, per evitare allora che il mondo, il "pesce vorace", lo divori. I Malavoglia si fondano sulla coralità dell'oggetto della narrazione e delle modalità attraverso cui essa avviene. La voce narrante diventa collettiva, fa largo uso dei proverbi e dei modi di dire, avvalendosi spesso dello "stile indiretto libero", attraverso cui la voce di un personaggio si fonde senza difficoltà né resistenze sintattiche con quella di altri, secondo una totale continuità comunicativa. La scelta linguistica evidenzia lo scontro ideologico campagna-città, civiltà contadina-civiltà borghese, aggravato dallo scontro tra le generazioni (la paziente ed epica lotta del vecchio padron 'Ntoni con l'insofferenza e la spregiudicatezza del giovane 'Ntoni).

Il secondo romanzo, Mastro-don Gesualdo, celebra invece il mito della "roba" e al tempo stesso l'impossibilità di trasformare la ricchezza accumulata in una completa promozione sociale. Mastro-don Gesualdo è il romanzo dell'uomo solo, che tenta di emergere nonostante le resistenze sorde o esplicite della società contadina da cui proviene, che lo rifiuta per il suo modo di vivere così diverso dalla tradizionale rassegnazione, e di quella nobiliare, che non gli permette di introdursi in un mondo in cui ha valore la nascita e non l'agire. Un tentativo troppo grande per non fallire. Così come il protagonista è solo nella sua lotta, la lingua della narrazione perde il colore della coralità e assume un carattere teso, a volte contratto, in cui l'apporto dialettale assume spesso una valenza gergale e amara, per esprimere un quadro in cui domina il cupo pessimismo dell'immobilità.

Il terzo romanzo, La duchessa di Leyra, avrebbe dovuto trattare delle vicende della figlia di Mastro-don Gesualdo, ma l'autore non ebbe la forza per concludere il ciclo dei vinti.

 

Il giudizio critico

Verga fece suo il naturalismo; inventò una scrittura nuda e crudele, capace di rappresentare il destino amaro di uomini falliti. I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo sono i romanzi più belli di fine secolo. Bruciò in sé l'esperienza positiva del realismo manzoniano e realizzò un'opera che del risentimento e della disperazione fece il proprio suggello filosofico e la più radicale e straordinaria bellezza. Accostato da Riccardo Bacchelli a Manzoni e Leopardi come il terzo grande scrittore dell'Ottocento italiano, Verga venne facilmente contrapposto da Luigi Pirandello a D'Annunzio e al suo estenuato decadentismo.

La scuola verista

La produzione verista, in quanto produzione specificatamente di scuola, non è stata molto ampia e quasi sempre ha fatto riferimento a realtà regionali molto diverse. La produzione di "gusto verista", cioè di prospettiva realistica e di ambiente regionale, è invece molto ampia e raccoglie una letteratura di grande interesse, capace peraltro di formare quella tradizione di "realismo moderno" su cui si svilupperà il realismo novecentesco italiano. Tra gli esponenti più interessanti sono i toscani Renato Fucini (1843-1921), che nelle sue novelle fu attento osservatore, senza però intenti sociali, della miseria dei contadini della Maremma (Le veglie di Neri, 1882; Nella campagna toscana, 1908), e Mario Pratesi (1842-1921), autore di romanzi di ambiente senese, alla ricerca di un'"arte casalinga, semplice, passionata" (L'eredità, 1889; Il mondo di Dolcetta, 1895). A Nord, il genovese Remigio Zena (pseudonimo di Gaspare Invrea, 1850-1917) rappresentò la rovina morale e materiale di tante donne del popolo (La bocca del lupo, 1890) e il torinese Edoardo Calandra (1852-1911) riprese il "romanzo storico" testimoniandone però tutta la consunzione: soprattutto La bufera (1898) e Juliette (1909) mostrano intenti psicologici già aperti a un gusto drammatico primo Novecento.

Paolo Valera (1850-1926), di Como, mosso da forti interessi democratici, scrisse Alla conquista del pane (1882) e il bellissimo La folla (1901), oltre a un ampio romanzo-inchiesta sulla plebe urbana (Il ventre di Milano: fisiologia della capitale morale, 1888).

Particolare il caso del napoletano Vittorio Imbriani (1840-1886): la sua letteratura è la prova aggressiva di un realismo insieme scapigliato e verista, sempre troppo esuberante per rientrare in un genere definito, specie con i racconti Mastr'Impicca (1874), Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876), Per questo Cristo ebbi a farmi turco (1883).

In relazione alla nascita per il teatro del "dramma borghese" è da ricordare il lavoro di Giuseppe Giacosa (1847-1906): il suo Come le foglie (1900) vuole essere un'apertura alla migliore drammaturgia europea (soprattutto Ibsen).

 

Luigi Capuana

Nato in una famiglia di ricchi possidenti terrieri presso Catania, Luigi Capuana (1839-1915) si trasferì a Firenze, allora capitale del Regno d'Italia, e fu critico teatrale sul quotidiano "La Nazione". Qui conobbe G. Verga e con lui partecipò alle discussioni intorno alla nuova letteratura. L'attenzione al naturalismo francese lo indusse ad analizzare le affinità fra l'artista e lo scienziato "positivo", a impegnarsi per una letteratura aderente al "vero". Con Verga divenne il teorico del verismo, contribuendo alla sua affermazione: nel 1879, a Milano, pubblicò il manifesto letterario del verismo, il romanzo Giacinta, seguito dai due volumi di Studi sulla letteratura contemporanea (1880-82) e Per l'arte (1885). Da allora pubblicò varie opere di narrativa e saggi: tre libri di novelle, Le appassionate (1893), Le paesane (1894) e Le nuove paesane (1898), nelle quali era attento indagatore della psicologia della borghesia di provincia; due romanzi, Profumo (1894) e Il marchese di Roccaverdina (1901), considerato il suo capolavoro.

 

Federico De Roberto

Il napoletano Federico De Roberto (1861-1927), trasferitosi giovanissimo a Catania, entrò in contatto con gli scrittori veristi Capuana e Verga. Furono loro a introdurlo nell'ambiente letterario milanese. Profondamente convinto della necessità di una letteratura che fosse al tempo stesso documento storico-sociale e analisi psicologica dei caratteri, si dedicò a una sorta di anatomia della passione amorosa con L'amore. Fisiologia. Psicologia. Morale (1895). Si cimentò poi con romanzi di solida architettura storico-narrativa, come L'illusione (1891), e soprattutto con il suo capolavoro, I viceré (1894). Il romanzo, uno dei migliori dell'Ottocento italiano, è uno spaccato della storia siciliana tra il 1855 e il 1882, che lo scrittore analizza con precisi riferimenti storici, narrando le vicende di una famiglia dell'antica nobiltà catanese, gli Uzeda. De Roberto risentì fortemente degli studi sulle razze e volle rappresentare il declino di un'antica dinastia professando un forte senso nichilistico della vita. I viceré sono una denuncia netta dell'ottimismo borghese, espressa in una scrittura ricca di tensione, accurata nei dettagli, decisamente antilirica, con esiti grotteschi. La sua continuazione, L'imperio (1929, postumo) non ne ripete il buon esito narrativo.

 

Emilio De Marchi

Il milanese Emilio De Marchi (1851-1901), educato agli ideali risorgimentali, dopo la laurea in lettere si dedicò all'insegnamento. Partecipò alla vita politica milanese, come consigliere comunale, e promosse attività benefiche e culturali.

La sua produzione fu molto varia e sempre tesa a mettere a fuoco le difficoltà della borghesia formatasi con l'unità d'Italia. Si affermò in particolare con la narrativa: compose circa sessanta novelle, fra le quali si segnalano le raccolte Storielle di Natale (1880); Storie d'ogni colore (1885); Racconti (1889); Nuove storie d'ogni colore (1895). Nel 1887 apparve a puntate il romanzo Il cappello del prete. Del 1889 è il suo capolavoro Demetrio Pianelli, che racconta un intreccio di sentimenti semplici: il senso dell'onore di un povero travet sullo sfondo di un paesaggio milanese delineato con forti accenti manzoniani. Seguirono poi, tra gli altri, Arabella (1892-93) e Giacomo l'idealista (1897). Tutta la narrativa di De Marchi è improntata a un moralismo borghese venato di toni patetici; il bene e il male sono facilmente individuabili, i valori dominanti sono la bontà, la capacità di sopportazione, la rispettabilità. Anche la soluzione linguistica da lui adottata fu coerente con il suo intento: una lingua media, lontana dalla letterarietà, aperta agli influssi del parlato dei ceti medi lombardi.

 

Matilde Serao

Figlia di un esule italiano e di una greca, Matilde Serao (1856-1927) si stabilì a Napoli nell'adolescenza. Con il marito, il giornalista e scrittore Edoardo Scarfoglio fondò "Il Corriere di Napoli", divenuto poi "Il Mattino". Vicina al verismo, diede un'immagine viva della realtà sociale napoletana della fine dell'Ottocento, di cui colse il quadro più efficace nell'inchiesta giornalistica Il ventre di Napoli (1884) e nel romanzo Il paese di cuccagna (1891). Il successivo romanzo Suor Giovanna della Croce (1900) tratta il tema della guerra.

 

Grazia Deledda

Nata a Nuoro da una famiglia piccolo-borghese, Grazia Deledda (1871-1936) dopo la scuola elementare studiò da autodidatta; fu lettrice accanita di romanzi stranieri (francesi e russi). Col matrimonio si trasferì a Roma. Scrisse una cinquantina di romanzi, i più significativi dei quali sono: Elias Portolu (1903); Cenere (1904); L'edera (1906); Canne al vento (1913); La madre (1920). Quasi tutta la sua produzione ruota attorno alla sua terra, la Sardegna, di cui recuperò le antiche tradizioni pastorali e rurali, con un intento che si richiamava più al tardo romanticismo che al contemporaneo verismo. Narrò patetiche vicende d'amore e di morte, ambientate per lo più nella famiglia arcaica, con i suoi valori e i suoi tabù, dove la trasgressione precipita verso la colpa e la conseguente, necessaria, punizione. Notevole fu il successo di pubblico; nel 1926 ottenne il premio Nobel per la letteratura.

 

Edmondo De Amicis

Nato a Oneglia, Edmondo De Amicis (1846-1908) frequentò l'Accademia militare di Modena e partecipò alla terza guerra d'indipendenza. Dopo il successo ottenuto con i Bozzetti di vita militare (1868), abbandonò l'esercito e si dedicò all'attività giornalistica: di rilievo i suoi reportage sulla condizione degli emigranti raccolti nel volume Sull'Oceano (1889). Nel 1886, dopo essersi stabilito a Torino, pubblicò la sua opera più famosa, il romanzo Cuore, che conobbe un immediato e grande successo. Nel 1891 s'iscrisse al partito socialista. Libro scritto per i ragazzi delle scuole elementari, Cuore ha la forma di un diario tenuto durante l'anno scolastico 1881-82 da un allievo di terza elementare. L'intento educativo mira a valorizzare il rispetto della dignità umana che si afferma nel lavoro, nell'onestà, nell'obbedienza alle leggi, nell'amore per la famiglia e per la patria. Celeberrimi i racconti inseriti nel diario: La piccola vedetta lombardaSangue romagnoloDagli Appennini alle Ande. In un'epoca in cui l'analfabetismo era altissimo ed era molto osteggiata la legge che aveva reso obbligatoria la scuola elementare per tre anni, Cuore si proponeva di valorizzare l'istruzione e, contemporaneamente, di trasmettere i valori risorgimentali per edificare un comune terreno civile e nazionale. Il libro ebbe un'immensa fortuna fino alla metà del sec. XX. L'ultima produzione di De Amicis (che aveva aderito al socialismo) fu più attenta alle contraddizioni sociali: Il romanzo di un maestro (1890) e La maestrina degli operai (1895); Primo maggio (1980, postumo).

 

La produzione dialettale

Il napoletano Salvatore Di Giacomo (1860-1934), piuttosto che nel teatro e nella narrativa, offrì con la poesia in dialetto una prova rilevante di limpidezza musicale, che sa sempre esprimere una ricchezza cromatica, la forte e realistica curiosità per la vita quotidiana (le poesie, scritte negli anni '80, furono raccolte in Poesie, 1907, e poi nell'edizione completa del 1927).

La produzione dialettale ebbe un protagonista anche nel romano Cesare Pascarella (1858-1940): la sua poesia è arguta, divertente, capace di raccontare vivacemente storie e azioni (notevoli Er fattaccio, 1884; Villa Gloria, 1886; La scoperta dell'America, 1894).

Antonio Fogazzaro

In Daniele Cortis (1885) la vicenda individuale s'intreccia con quella storica: il contrasto fra i personaggi diviene contrasto d'idee. Il protagonista è un deputato cattolico che, di fronte alla corruzione politica, lotta per una sua ideale "democrazia cristiana"; ma è votato alla sconfitta nella lotta politica così come nel privato, per cui la passione d'amore per la cugina Elena si risolve nella lontananza e nel sacrificio. Nel 1888 uscì Il mistero del poeta appesantito, però, da un denso sentimentalismo.

Del 1895 (ma iniziato già nel '92) è invece il romanzo di maggior successo, Piccolo mondo antico, ambientato in Valsolda, sulle sponde del lago di Lugano, dove lo scrittore aveva trascorso parte dell'adolescenza. La vicenda si svolge nell'attesa dell'unificazione d'Italia, ha come protagonista la coppia costituita dal nobile lombardo Franco Maironi e dalla borghese Luisa Rigey. Fogazzaro ritrae la vita quotidiana della piccola provincia, che egli affresca grazie ai personaggi minori del romanzo, colti nella loro realtà sociale e culturale, con i loro pregi e i loro limiti.

In Piccolo mondo moderno (1901), continuazione del precedente, egli approfondisce quell'intreccio di sensualità e dramma spirituale che sono la sua peculiarità tematica. Il Santo (1905) e Leila (1907) sono le sue ultime prove narrative, che furono oggetto di severi giudizi da parte della critica, specialmente cattolica (la Chiesa li mise all'Indice), perché ritenuti devianti e torbidi; riscossero viceversa un grande successo di pubblico, soprattutto di estrazione piccolo-borghese, che ne apprezzò le vicende sensuali e il tentativo di descrivere il malessere della società italiana dell'inizio del secolo. Caratteristica la scrittura di Fogazzaro, ancora legata al naturalismo, ma già aperta alle suggestioni del decadentismo europeo.

Il Verismo in sintesi 

Verismo Il verismo si propone, coerentemente con le concezioni naturalistiche, di offrire al lettore la fotografia della realtà senza interferenza dell'autore. Ma per il verismo la letteratura non è una scienza: la narrazione resta l'esperienza misteriosa dell'inspiegabile destino umano. Gli ambienti veristi sono prevalentemente la campagna del meridione.
Luigi Capuana Luigi Capuana (1839-1915), siciliano, autore dei romanzi Giacinta (1879) e Il marchese di Roccaverdina (1901).
Federico De Roberto Federico De Roberto (1861-1927), napoletano: romanzi L'illusione (1891) e il capolavoro I viceré (1894).
Emilio De Marchi Emilio De Marchi (1851-1901), milanese: romanzi Il cappello del prete (1887), Demetrio Pianelli (1889), Giacomo l'idealista (1897).
Matilde Serao Matilde Serao (1856-1927), napoletana: Il ventre di Napoli (1884), Il paese di cuccagna (1891).
Grazia Deledda Grazia Deledda (1871-1936), sarda, premio Nobel (1926): romanzi Elias Portolu (1903), Cenere (1904), Canne al vento (1913), La madre (1920).
Edmondo De Amicis Edmondo De Amicis (1846-1908), ligure, autore del libro per ragazzi Cuore (1886).
Giovanni Verga Nativo di Catania (1840-1922), fu protagonista del verismo italiano. Periodo preverista: Una peccatrice (1866), Storia di una capinera (1871), Tigre reale (1875), Eros (1875). Verismo: Vita dei campi (1880), Novelle rusticane (1883), il ciclo dei vinti con I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1889). Ultimo periodo: Dal tuo al mio (1903). Nella novella L'amante di Gramigna espone la teoria dell'impersonalità: "il romanzo avrà l'impronta dell'avvenimento reale, e l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed essere sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore".
Antonio Fogazzaro La letteratura del vicentino Fogazzaro (1842-1911) è un incontro di sensualità e di ricerca religiosa. Il mistero, il dramma della malattia, si fondono in un disperato squilibrio spirituale. Romanzi: Malombra (1881), Daniele Cortis (1885), Piccolo mondo antico (1895), Piccolo mondo moderno (1901), Il Santo (1905).

Fra Ottocento e Novecento: la stagione Decadente

L'artista decadente afferma la propria orgogliosa differenza chiudendosi in un aristocratico e sofferto rifiuto della società. Il decadentismo si esercita su temi quali l'inconscio e il sogno, la memoria e l'infanzia, l'angoscia e il senso della morte. Ricorrenti sono il gusto per l'artificio e l'eleganza ricercata contro la volgarità dell'arte di massa; il fascino dell'Oriente lontano o l'attrazione per le droghe; il rifiuto della solidarietà sociale, pur nel vagheggiamento d'indistinti ideali umanitari; la sensualità provocante; l'erotismo morboso; il culto per l'esoterico e il satanico, non di rado accompagnato da slanci mistico-devozionali e da ritorni alla fede cattolica. Vengono rifiutate le tecniche letterarie fondate sul valore logico e razionale della parola; se ne cercano altre nuove, che facciano leva sugli elementi evocativi e allusivi e quindi sulle suggestioni fono-simboliche del linguaggio.

Si dà così spazio a un forte estetismo e a una letteratura simbolista, capace di far interagire tutte le differenze musicali, figurative, poetiche di un segno letterario. In Italia il vero portavoce del nostro decadentismo fu D'Annunzio, mentre Pascoli fondò, in modo originale e diverso dal contesto europeo, la poesia simbolista italiana.

Gabriele D'Annunzio

 

Gli esordi e il periodo romano

Compiuti i primi studi nella città natale di Pescara, nel 1874 fu mandato a Prato, dove rimase fino al conseguimento della licenza liceale (1881). Il suo talento trovò una prima espressione nei versi di Primo vere (1879), ispirati al modello carducciano, che lo segnalarono all'attenzione della critica. Iscrittosi alla facoltà di lettere di Roma, non portò mai a termine gli studi, trovando nei circoli letterari della capitale e nei giornali cittadini ("La Fanfulla della Domenica" e la "Cronaca bizantina") l'occasione per mettersi in vista. Nel 1882 uscirono il Canto novo, in cui affermò la propria visione panica e sensuale della vita, e i bozzetti narrativi di Terra vergine, ambientati nel natio Abruzzo, in cui è palese l'influsso di VergaIl 1886 è l'anno dei racconti di San Pantaleone, confluiti poi, insieme ad altri, nelle Novelle della Pescara (1902). Seguì un periodo di crisi e di ripensamento che lo indusse a confrontarsi e misurarsi con quanto di meglio e di più affine alla sua sensibilità era nel decadentismo europeo. Nelle letture di Nietzsche e Wagner, e in particolare nella concezione del "superuomo", trovò invece la legittimazione "filosofica" per quel "vivere inimitabile", sprezzante di ogni morale comune, che avrebbe caratterizzato gran parte della sua opera e della sua vita.

 

Il successo: i romanzi e la grande poesia

Espressione di tale travaglio furono i romanzi Il piacere (1889); Giovanni Episcopo (1891); L'innocente (1892); Il trionfo della morte (1894); Le vergini delle rocce (1895). In essi la tradizione ottocentesca viene stemperata in personaggi e atmosfere sovraccarichi di torbido e morboso psicologismo. Svolto nel frattempo il servizio militare a Roma, nel 1891 fu costretto dai creditori a trasferirsi a Napoli, dove rimase due anni, scrivendo sul "Mattino" di E. Scarfoglio e M. Serao. Sul fronte lirico, dopo La Chimera (1890) e le Elegie romane (1892), pubblicò le Odi navali e il Poema paradisiaco (1893), che segnò una tappa importante nell'evoluzione del linguaggio poetico italiano aperto a una morbida cantabilità, a ritmi e a suggestioni oniriche.

Nel 1897 si buttò nell'agone politico, risultando eletto deputato per la Destra; ma non comparve mai alla Camera, se non per passare, due anni dopo, con spettacolare disinvoltura sui banchi della Sinistra ("vado verso la vita"). Intanto aveva conosciuto la grande attrice Eleonora Duse (ritratta più tardi in maniera impietosa nel romanzo Il fuoco, 1900), con cui ebbe un lungo sodalizio d'arte e di vita. Si cimentò infatti nel teatro, genere per il quale, a partire dal Sogno d'un mattino di primavera (1897), scrisse numerose opere: La città morta (1898); La Gioconda (1899); La gloria (1899); Francesca da Rimini (1902); La figlia di Iorio (1904), La fiaccola sotto il moggio, (1905); La nave (1908); Fedra (1909). Il suo capolavoro è La figlia di Iorio, in cui la lingua si adegua mirabilmente alla sacralità orgiastica e primitiva della vicenda. Nella quiete della Capponcina, la villa di Settignano, presso Firenze, nacquero i primi tre libri di poesia delle LaudiMaia (1903), Elettra (1903) e Alcyone (1904). Soprattutto a quest'ultimo è giustamente affidata la sua fama. L'uomo e la natura appaiono come trasfigurati in una sembianza eterea, senza contorni, in cui la parola è una musica avvolta nelle proprie magiche eufonie e il verso è davvero tutto: mito, canto, solarità, metafora di acqua, cielo e terra, oblio segreto, ricordo e presagio, culla e destino di ogni cosa. D'Annunzio scrisse ancora in versi le patriottiche Canzoni delle gesta d'oltremare (1912), pubblicate sul "Corriere della Sera" durante la guerra di Libia, e i Canti della guerra latina, usciti sullo stesso giornale tra il 1914 e il 1918, che andarono a comporre rispettivamente Merope Asterope, il quarto e quinto libro delle Laudi (gli altri due, previsti dal progetto originario, non vennero mai scritti); ma in queste opere, pur conservando spesso un notevole magistero formale e un raro mestiere, di rado seppe evitare le secche della retorica.

 

Il periodo francese

Per i debiti accumulati dagli sperperi di un tenore di vita superiore ai pur cospicui diritti d'autore (nel 1910 aveva intanto pubblicato l'ultimo romanzo, Forse che sì forse che no), venne il sequestro della Capponcina, che lo costrinse al "volontario esilio" in Francia. Dopo alcuni mesi trascorsi come ospite d'onore della buona società parigina, si ritirò ad Arcachon, sulla costa atlantica. Qui scrisse ancora per il teatro, in una totale identità fra parola e musica, opere di cesellata maniera (alcune in un francese antico che suscitò l'ammirazione di A. France): Le martyre de Saint Sébastien (1911, musicato da C. Debussy), La Pisanelle (1912, musicata da I. Pizzetti), Parisina (1913, musicata da P. Mascagni). Nel 1911 cominciarono ad apparire sul "Corriere della Sera" le Faville del maglio, che inaugurarono una prosa di memoria "interiore" e di ripiegamento. L'anno successivo la morte di G. Pascoli e di A. Bermond, proprietario della villa di Arcachon in cui abitava, gli ispirarono Contemplazione della morte, che contiene alcune tra le sue pagine migliori. Scrisse anche il racconto La Leda senza cigno (1913, pubblicato nel 1916).

 

La guerra e gli ultimi anni

Ai primi di maggio del 1915 rientrò in Italia per schierarsi con gli interventisti, che chiedevano la partecipazione dell'Italia alla Prima guerra mondiale a fianco dell'Intesa contro Germania e Austria. Partecipò alla guerra e con valore: fu protagonista di imprese come la beffa di Buccari e il volo su Vienna, che divennero leggenda. Per la perdita dell'occhio destro e la cecità temporanea a cui fu costretto egli dettò il Notturno (1921), il "comentario delle ténebre" dallo stile levigato e scarnito. La delusione per la vittoria "mutilata" lo spinse a guidare l'occupazione di Fiume (settembre 1919) e ad assumere la Reggenza del Carnaro, provocando l'intervento dell'esercito italiano in quello che D'Annunzio chiamò "Natale di sangue" del 1920: furono questi avvenimenti l'apogeo e insieme la fine della sua parabola di uomo d'azione. Nel 1921 si ritirò nei pressi di Gardone, sul lago di Garda, in una villa che divenne il Vittoriale degli Italiani, un monumento elevato a se stesso e una dorata prigione, in cui Mussolini lo confinò ricoprendolo di onori e riconoscimenti (la nomina a Principe di Montenevoso nel 1924; l'edizione, a spese dello Stato, dell'Opera Omnia, 1926; la presidenza dell'Accademia d'Italia, 1937). Nel Vittoriale attese alle ultime opere: i due volumi delle Faville del maglio (1924 e 1928), i frammenti narrativo-memoriali del Libro segreto (1935), Le dit du sourd et du muet (1936) in francese antico.

 

Il giudizio critico

Il merito maggiore di D'Annunzio è l'idea che la letteratura possa essere un discorso infinito: la facoltà estrema non solo di riuscire a conquistare ma anche a raccontare la straordinaria vitalità dell'esistenza. D'Annunzio sperimentò e provò ogni possibilità espressiva. Toccò in qualche modo i limiti come i difetti della tradizione letterario-umanistica, stabilendo quelle "colonne d'Ercole" che tutti i poeti italiani del Novecento sapranno tanto più rispettare quanto più si sentiranno difesi da quegli stessi limiti della parola, ormai definiti e dunque invalicabili. Ciò che più conta in lui è il senso altissimo di un'esperienza letteraria che cercò di essere un modello espressivo assoluto, consapevolmente moderno, anche grazie alla tanto disprezzata retorica. Il poeta Montale non esitò ad affermare che per superare D'Annunzio era indispensabile "attraversarlo". In effetti, nonostante il molto artificio, le troppe vuote sonorità e la diffusa assenza di un solido senso morale, sacrificato per un'irraggiungibile "favola bella", ciò che è più vivo nella sua opera rappresenta un passaggio obbligato per intendere appieno quel che avvenne durante e dopo la sua vita.

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli è forse il poeta, in bilico fra Ottocento e Novecento, che più radicalmente ha contribuito allo svecchiamento della lirica italiana. La sua produzione è un vertice del simbolismo europeo. Riprese Leopardi nel punto più nevralgico: nella ferita e insieme nel mistero dolente della Natura. Con Myricae diede un nuovo senso alchemico e sognante al perché delle cose; con i Poemetti e i Canti di Castelvecchio lasciò che quel mistero si aprisse in una muta bellezza cristallina; con i Poemi conviviali poi si permise anche di più: di ripercorrere, lungo quegli stessi segreti, la continuità fra antico e moderno, fra la classicità e la modernità.

 

La vita

Nato a San Mauro di Romagna nel 1855, quarto di otto figli, trascorse la prima infanzia nella tenuta dei principi Torlonia, di cui il padre era amministratore. A sette anni entrò, con i fratelli Giacomo e Luigi, nel collegio degli Scolopi di Urbino, dove nel 1867 lo colse la notizia dell'assassinio del padre Ruggero in un agguato. Il drammatico evento segnò in maniera decisiva la sua vita e la sua poesia. A quella morte seguirono nel 1868 quella della madre Caterina, stroncata dal dolore, e, nel volgere di breve tempo, quelle della sorella Margherita e del fratello Luigi. Con una borsa di studio si iscrisse all'università di Bologna, dove ebbe come professore Carducci. Ma dopo il primo anno disertò le lezioni e prese a frequentare gli ambienti socialisti. Nel 1875, per aver partecipato a una manifestazione, venne privato del sussidio economico che gli permetteva di frequentare l'università; nel 1876 la morte del fratello Giacomo rese ancor più precaria la situazione della famiglia. Nel 1878, durante una dimostrazione a favore degli anarchici, fu arrestato. Uscito di prigione dopo circa tre mesi anche per l'intervento di Carducci, riprese gli studi e riuscì a laurearsi a pieni voti (1882). In quello stesso anno andò a insegnare al liceo di Matera, poi a Massa e nel 1887 passò a Livorno, dove ricostituì il nucleo familiare con le sorelle Ida e Maria. A Livorno nel 1891 pubblicò la raccolta Myricae, 22 componimenti poetici che crebbero fino ai 156 della sesta edizione del 1903. Nel 1892 si aggiudicò la prima delle tredici medaglie d'oro vinte al concorso di poesia latina di Amsterdam. Tre anni più tardi ottenne la cattedra di grammatica latina e greca all'università di Bologna. Acquistata una piccola proprietà a Castelvecchio di Barga, vi si trasferì con la sorella Maria. Nel 1897 uscirono i Poemetti (poi sdoppiati in Primi poemetti, 1904, e Nuovi poemetti, 1907) e fu trasferito all'università di Messina, dove lavorò ai tre volumi di critica dantesca: Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1902). Nel 1903 pubblicò i Canti di Castelvecchio e passò a Pisa. Ritiratosi Carducci dall'insegnamento, gli succedette nella cattedra di letteratura italiana dell'università di Bologna (1906). Nel frattempo erano apparsi i Poemi conviviali (1904), che inaugurarono la seconda fase della sua produzione. Uscirono poi le raccolte di argomento storico e civile: Odi e inni (1906); Canzoni di re Enzio (1911); Poemi italici (1911); Poemi del Risorgimento (1913, postumo). Le prose, edite nel 1903 con il titolo Miei pensieri di varia umanità, confluirono poi nel volume Pensieri e discorsi (1907). Morì a Bologna nel 1912. Da ricordare sono poi i Carmina (1914), che raccolgono la sua poesia lirica in latino; scritti fra il 1885 e il 1911 sono divisi in varie sezioni secondo l'argomento. Notevole, anche se di discontinuo valore, la restante produzione in lingua latina (da citare i poemi Veianus, 1891; Gladiatores, 1892; Fanum Apollinis, 1904; Thallusa, 1911).

 

"Myricae" e "Canti di Castelvecchio"

Fin dall'esordio, quasi senza rendersene conto, Pascoli scardinò dall'interno la lingua della poesia italiana, con esiti sorprendenti. Emblematico da questo punto di vista il sonetto Rio Salto, scritto nel 1877, quando il poeta non aveva ancora compiuto ventidue anni, e confluito poi in Myricae: Carducci, che in quello stesso anno pubblicava le Odi barbare ed era il nuovo maestro, appare già alle spalle, se non per qualche concessione vagamente oleografica che ancora aleggia nelle curve del verso. Domina nella poesia di Pascoli il mondo delle piccole cose, che farà scuola al D'Annunzio del Poema paradisiaco e a tutti i crepuscolari. Una poesia impressionistica, dunque, per certi effetti decadente, ma di un decadentismo privo di accenti morbosi o di malsane voluttà d'alcova: l'eros, o semplicemente l'amore per la donna, non esiste, se non per timidissime occhiate furtive. Siamo davvero davanti alla voce di un bambino mai diventato adulto, fermatosi a quel Dieci agosto in cui gli uccisero il padre e poi la famiglia. Accanto al mistero, che avvolge in un tutto l'infinità delle piccole cose e delle grandi e quasi precipita nel nulla, la morte, che ne è diretta emanazione, permea di sé la vita. Ma non si tratta della morte romantica, intrisa di ideali fino a diventare addirittura "bella": qui la morte è personale, chiusa nell'orto domestico degli affetti, delle care memorie personali; è la voce dei morti, eco e ricordo di cose lontane, perdute nel breve paradiso dell'infanzia. In quel paradiso senza luce e senza ombre Pascoli si rivede bambino, diventa Zvanî, Giovannino, la voce stessa di sua madre nella morbida cadenza del dialetto, il richiamo del cuore e della casa avita, del tempo che fu e non torna, ma che egli si ostina a richiamare.

Pascoli dà il meglio di sé e attinge la perfezione in queste malinconie venate di pace agreste, di spighe mature, di brume mattutine o tepidi crepuscoli che sfanno nell'azzurro nell'ora che pensa ai suoi cari. Qui, in questa straordinaria bellezza, l'evocazione non è che una struggente preghiera della sera. Senza dubbio ci vuol poco per cadere nei gorghi del facile effetto e del sentimentale, nella lacrima facile. Ma il Pascoli migliore, "l'ultimo figlio di Virgilio" come lo definì D'Annunzio (e il titolo Myricae è tratto da un verso delle Bucoliche che ricorda le "umili tamerici"), non vi cade mai: li sfiora, li vede, ma se ne tiene lontano. Sono queste la sua forza e la sua grazia, quel che fa della sua opera un esempio straordinario di poesia moderna. Gli ultimi versi de La mia sera (ancora dai Canti di Castelvecchio) sembrano contenere in essenza il "profumo" di Pascoli, lo fanno sentire in tutta la sua fragranza: ogni parola, e persino i punti di sospensione, hanno un significato o rimandano a un luogo ben preciso della sua geografia reale e onirica: "là, voci di tenebra azzurra... / Mi sembrano canti di culla, / che fanno ch'io torni com'era... / sentivo mia madre... poi nulla... / sul far della sera". Pascoli dunque non si limita a evocare la natura con un richiamo indiretto, ma misteriosamente la nasconde sotto la sua scrittura poetica, in un gioco sottile di assonanze e di riverberi onomatopeici (la trascrizione mimetica del suono di una campana o del verso di un uccello). Tutto questo è il frutto di una sapienza letteraria che ha pochi confronti. Qui gli affetti si librano in un sogno notturno, diventano il simbolo di un dolore perenne.

 

Le raccolte successive

Nei Primi poemetti, poi nei Poemi conviviali, e ancor più da Odi e inni in avanti, questa felicità espressiva fatta di inquiete vibrazioni della parola, questi toni al tempo stesso concreti e indeterminati vengono meno, si corrompono. Quegli stessi termini tecnici, arcaici e popolari che in Myricae e nei Canti di Castelvecchio danno sapore alla sensazione e anzi la svelano, qui, uniti al frequente ricorso a frasi ed espressioni tratti da altre lingue, perdono vigore, sfaldandosi nella loro stessa abbondanza. Lo sforzo di rinnovamento porta al mito, prima classico e poi storico e civile; anche se spesso la soluzione è generica e superficiale (salvo alcuni esiti felici nei Poemi conviviali, dove Ulisse, Alessandro, Socrate, Saffo, Esiodo e altri personaggi della classicità sono rivissuti nella nostalgia dell'idillio come emblemi di un passato fattosi sogno). Quanto più il poeta esce da se stesso e dal suo mondo per cercare altri approdi, tanto più diventa decadente: il virtuosismo sostituisce la virtù espressiva e la lingua si fa linguaggio "speciale", ricco di orpelli, bizantino, parnassiano, ma forse privo di quella bellezza radicale e sapienziale riconoscibile nelle opere maggiori.

 

Il giudizio critico

Pascoli resta un grandissimo poeta: l'unica risposta possibile ­ per certi versi opposta ­alla grandezza di Leopardi. Pascoli mise in atto una rivoluzione radicale, anche se lieve, sotterranea o, come disse Giacomo Debenedetti, "inconsapevole". Poeta di crisi perché privo di certezze, immise in forme antiche il soffio di una sensibilità già novecentesca, pervasa dal dubbio e non più in grado di dare risposte assolute. Artista di trapasso (se si vuole di compromesso), inaugurò e percepì le inquietudini che erano nell'aria. Grande fu la sua influenza presso i crepuscolari, giungendo fino a lambire alcuni aspetti dell'ermetismo. La sua sperimentazione, spinta al limite del balbettio e dello sgretolamento metrico e prosodico (onomatopea, uso del parlato, multilinguismo), ebbe non poca parte nell'evoluzione di poeti del Novecento come E. Montale, U. Saba, C. Betocchi, soprattutto per il modello stilistico, il timbro dell'espressione, la possibilità stessa del conoscere poetico.

La stagione decadente in sintesi

Decadentismo Il decadentismo si sviluppa a partire dagli anni '80 e con origine a Parigi. In opposizione al positivismo esalta l'irrazionalità, il mistero, l'estetismo e la prospettiva simbolista.
D'Annunzio Vita Gabriele D'Annunzio (1863-1938) vive sprezzante di ogni morale comune, buttandosi con lo stesso ardore nella vita privata e pubblica e nella produzione letteraria. Affronta quasi tutti i generi letterari. Tipico esponente del decadentismo, ha il grandissimo merito di sprovincializzare la nostra letteratura.
Opere Periodo verista: Canto novo (1882), Novelle della Pescara (1902). Periodo decadente: i romanzi Il piacere (1889), L'innocente (1892), Il trionfo della morte (1894); in poesia, Poema paradisiaco (1893). Produzione teatrale: La figlia di Iorio (1904), La fiaccola sotto il moggio (1905), La nave (1908). Il capolavoro poetico: Laudi: Maia (1903), Elettra (1903) e Alcyone (1904). Ultimo periodo: La Leda senza cigno (1913), Notturno (1921), Libro segreto (1935).
Pascoli Giovanni Pascoli (1855-1912) vive un'infanzia e gli anni giovanili turbati da gravi lutti familiari. Dopo anni di impegno politico, diviene docente universitario.
Opere Opere poetiche: Myricae (1891); i Poemetti (1897); i Canti di Castelvecchio (1903); Poemi conviviali (1904), Odi e inni (1906); Canzoni di re Enzio (1911); Poemi italici (1911); Poemi del Risorgimento (1913, postumo). Notevole anche la sua produzione in latino.
Poetica Nella poesia parla una voce "fanciulla", che coglie il mistero in forma diretta e indifesa, per brevi lampi e raffinati tocchi di colore. La poesia è la trascrizione del mistero delle cose. La sua poesia simbolista, la sperimentazione espressiva riescono a gettare le basi per la grande esperienza poetica del Novecento.