Dodecafonia e sperimentazione nella nuova musica italiana

Il panorama musicale italiano si rinnova tra la fine del XIX secolo e l'inizio del secolo successivo per merito anzitutto dei musicisti nati attorno al 1880. È la cosiddetta "generazione dell'Ottanta" (v. a p. 254), comprendente i vari Respighi, Pizzetti, Malipiero, Casella, che seppero aprire la loro musica verso il clima della modernità contemporanea. A questa generazione fecero seguito altri artisti, fra i quali ricordiamo Giorgio Federico Ghedini (1892-1965). Successivamente avanzarono, nel volgere di pochi anni, tre grandi artisti, che, già in possesso della rinnovata coscienza musicale, seppero fondere istanze tipicamente europee con l'alto patrimonio della tradizione italiana: Dallapiccola e Petrassi, maestri riconosciuti, e Scelsi, pioniere la cui levatura straordinaria si impose prima in Francia che, assai tardivamente, in Italia.

Luigi Dallapiccola:
dodecafonismo e umanesimo religioso

Dopo i primi studi musicali in Austria, Luigi Dallapiccola (Pisino d'Istria 1904 - Firenze 1975) fu allievo nel 1922 di V. Frazzi a Firenze; conseguì il diploma di pianoforte e svolse anche attività concertistica e di critico musicale. Insieme con G. Petrassi, Dallapiccola fu il più significativo musicista italiano della sua generazione e collaborò al rinnovamento della cultura musicale italiana attraverso il recupero in chiave moderna delle tradizioni del Seicento e del Settecento (neomadrigalismo): Partita per soprano e orchestra (1932), le tre serie dei Sei cori di Michelangelo Buonarroti il giovane (1936). Nel 1940 esordì come operista con Volo di notte e nello stesso periodo, primo in Italia, si avvicinò alla dodecafonia con pagine quali i Canti di prigionia (1941), toccante testimonianza della sua sensibilità di fronte alla tragedia della guerra. Seguirono Liriche greche (tre serie, 1946), di lineare purezza, l'opera Il prigioniero (1950) e la sacra rappresentazione Job (1950). Con il passare degli anni la dodecafonia acquistò in Dallapiccola un'asciuttezza e una tensione lirica che ritroviamo nelle numerose liriche per voce e strumenti, nei Canti di liberazione (1955) e nella sua ultima esperienza teatrale, Ulisse (1968), dove più diretto appare il richiamo a una fede nel trascendente.

Dallapiccola compose anche musica orchestrale (Piccolo concerto per M. Couvreux) per pianoforte e piccola orchestra, 1941; Tartiniana per violino e orchestra da camera, 1951; Piccola musica notturna per orchestra da camera, 1961 ecc.), cameristica e per pianoforte (Sonatina canonica, 1943; Quaderno musicale di Annalibera, 1952 ecc.).

Goffredo Petrassi: fra rinnovamento e complessità

Goffredo Petrassi (Zagarolo, Roma 1904) dal 1939 insegnò composizione al conservatorio di Santa Cecilia a Roma dove era stato allievo di A. Bustini; fu inoltre sovrintendente della Fenice di Venezia (1937-40) e direttore artistico dell'Accademia Filarmonica Romana (1947-50), presidente della SIMC, titolare del corso di perfezionamento per compositori all'Accademia di Santa Cecilia (dal 1958).

La vasta produzione di Petrassi si colloca lungo l'arco di un percorso stilistico complesso, di cui sono state sottolineate l'organica coerenza e la viva ricchezza problematica, e la cui presenza nella musica italiana del Novecento appare costantemente di primo piano.

I suoi esordi compositivi si collocano sotto il segno del neoclassicismo di A. Casella e soprattutto di P. Hindemith e I. Stravinskij, ma al di fuori da qualsiasi inclinazione a brillanti arguzie intellettualistiche: dopo la Partita (1932), lavori corali come il Salmo IX (1936) e il Magnificat (1940) rivelano compiutamente il gusto per il fulgore timbrico, per sonorità vigorose, per gesti solenni bloccati in una fissità liturgica capace di conferire loro una sorta di "patina metafisica". Il successivo Coro di morti (1941) su testo di G. Leopardi segna un momento (mirabile) di pessimistico ripiegamento; seguiranno, sempre per la produzione corale, Nonsense (1952-64), Quattro mottetti per la Passione (1965), fino ai Tre cori sacri a cappella (1983). Una ricerca sempre più scarnificata e interiorizzata è presente nei balletti La follia di Orlando (1943) e Ritratto di Don Chisciotte (1945), nella gelida, secca, sofisticata vena ironica del Cordovano (1949), nell'angosciato pessimismo, realizzato con estrema sobrietà, dell'unica altra opera teatrale, Morte dell'aria (1950).

Dopo Noche oscura (1950-51), uno degli esiti più alti della maturità di Petrassi, il musicista si rivolse alla musica strumentale: la serie dei Concerti per orchestra, a partire dal terzo (1952-53) fino all'ottavo (1973) segna le tappe di un percorso che fa proprie la lezione dodecafonica, certe suggestioni bartokiane e alcuni aspetti delle esperienze postweberniane, volgendosi poi alla musica da camera, fra l'altro con il Quartetto (1956), la Serenata (1958), il Trio (1959), Estri (1967), Ottetto di ottoni (1968), Orationes Christi (1975), Laudes creaturarum (1982), Tre cori sacri (1980-83), Inno per ottoni (1984).

Un pioniere misconosciuto: Giacinto Scelsi

Formatosi al di fuori dei circuiti ufficiali e tardivamente ammesso fra i più grandi musicisti del secondo Novecento, Giacinto Maria Scelsi (La Spezia 1905 - Roma 1988) uscì dall'anonimato, pur senza vincere l'ostracismo degli ambienti accademico-musicali italiani, imponendosi per uno stile ascetico, sintesi della musica orientale e delle tecniche raffinate dell'avanguardia. Soprannominato "il Charles Ives d'Italia" per la sua straordinaria inventività musicale e l'inesauribile forza di sperimentare, si dedicò anche alla letteratura e pubblicò 3 volumi di poesie.

Il pensiero musicale di Scelsi trova il suo nucleo essenziale e il suo principio generativo nel suono singolo. Raggiungere il "cuore del suono", sprofondare nel suo universo e nella sua materia senza volervi sovrapporre un costrutto: questo il compito che Scelsi si era assegnato e che si ostinò a perlustrare in tutte le possibilità che gradualmente gli si schiudevano.

Fra le sue opere si distinguono alcuni brani per orchestra, come Quattro pezzi per orchestra (ciascuno su una nota) (1959) e Natura renovatur (1967), il concerto per violino Anahit (1965), le composizioni per pianoforte degli anni Trenta (40 préludes, 7 suites e 4 sonate) e degli anni 1952-55, fra le quali spiccano le Quattro illustrazioni (sulla metamorfosi di Visnù), musica da camera e per coro e orchestra (La naissance du verbe, 1948).