Dove sono finiti gli adulti? Oltre la sindrome di Peter Pan

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La psicoterapeuta Elena Rosci fa chiarezza su un fenomeno in continua evoluzione: le persone che non sanno più crescere

In passato si passava dall'adolescenza all'età adulta. Oggi, una serie di fattori - economici, sociali e psicologici - ha introdotto tra questi due status una nuova etichetta, quella di giovani adulti. Con questa espressione si indicano le persone di età compresa tra i 19 e i 30 anni, di solito impegnati nella propria formazione professionale in percorsi di alta formazione universitaria o post-universitaria. Ma cosa succede quando termina il percorso formativo e si dovrebbe - il condizionale è d'obbligo - considerarsi ma soprattutto comportarsi da adulti? Elena Rosci, psicoterapeuta, co-fondatrice dello studio Sophia e Psiche, nonché autrice del volume Giovani adulti. Nuovi modi di essere e di apparire (Franco Angeli), spiega l'evoluzione di questo stile esistenziale e psicologico.

Età adulta: partiamo dalle definizioni

Chi sono gli adulti? Secondo il dizionario, l'aggettivo “adulto” riferito a una persona, indica qualcuno «che ha raggiunto la piena maturità fisica e psichica», «che ha superato la fase evolutiva dell'adolescenza». In passato diventare adulti era un traguardo ambito. Persino assumersi responsabilità oggi apparentemente intollerabili come il matrimonio, un mutuo supportato da un contratto a tempo indeterminato, dei figli, erano considerati riti di passaggio e di consolidamento identitario. Oggi, invece si cerca di sfuggire a quelle che appaiono come catene.
 

Adulti di ieri, adulti di oggi

Il cambiamento di questa percezione inizia negli anni Settanta, quando rispetto a un’immagine codificata e stabile, quasi normativa del ruolo dell’adulto, avviene un primo scollamento. Intanto, iniziano a percepirsi delle differenze rispetto all’età adulta femminile e maschile. Negli anni Cinquanta il ruolo della donna era maggiormente definito. Moltissime donne sceglievano la carriera scolastica come mezzo di emancipazione che permettesse però di occuparsi di casa e figli. La progressiva uguaglianza giuridica tra i sessi, il diffondersi della scelta del figlio unico e l’emancipazione economica, ha creato molte opportunità identitarie, che hanno portato le donne a ridefinire il proprio ruolo.

Il mercato del lavoro è diventato più frammentario e mobile. Ciò ha permesso alle persone di destreggiarsi tra cambi di carriera che ridefiniscono l’identità professionale. Inoltre, il consumismo diffuso aiuta a costruire la propria identità in modo diverso. Basti pensare all’impiego della chirurgia plastica per contrastare l’avanzamento del tempo. Anche l’appartenenza alla classe sociale viene ricondotta alla propria volontà, pur vivendo in tempi in cui le barriere economico e sociali sono molto forti.

“L’identità diventa qualcosa di plasmabile individualmente, e non socialmente definita. Sopravvalutiamo quello che ognuno di noi può decidere e desiderare, sottovalutando ciò che potrebbe essere socialmente imposto”, spiega Rosci. È come se l’età della definizione – l’adolescenza, appunto – si dilatasse all’infinito, come un elastico, trasformandosi quindi in adultescenza.

Viva la libertà, abbasso la stabilità

La vita umana si evolve oscillando tra quattro bisogni: quelli di libertà ed esplorazione e quelli di stabilità e appartenenza. Entrambi concorrono all’equilibrio psicologico e nel corso dell’evoluzione umana e sociale hanno assunto ruoli alterni. 

“In passato, si rimaneva fedeli a un marchio e a una professione. Oggi ci sono delle persone che in modo libero e complesso danno alla loro vita un’impronta piuttosto stabile, per quanto con variabilità e libertà maggiori, riuscendo a far convergere destino e talenti su un progetto variabile che coltivano per tutta la vita. Ad esempio, uno studente di medicina farà il medico tutta la vita, ma potrà vivere momenti di formazione all’estero, cambiare ospedale o specializzazione, integrando libertà e stabilità”, spiega l’esperta. 

Ma può accadere che quello che Rosci definisce “imperialismo della libertà”, impedisca l’individuazione di un centro identitario, portando le persone a oscillare tra tanti diversi destini senza riuscire a far convergere la propria vita su un’unica linea di crescita. 

“Per questo abbiamo persone che vivono vite adolescenziali: lavorano per sei mesi in un ristorante, viaggiano per tre e poi si fanno mantenere dai genitori. Scelgono lavori contingenti, mai stabili e replicano la scelta anche sulle relazioni. Ciò impedisce una definizione identitaria, che può avere conseguenze importanti”.

Infatti, la libertà è funzionale alle espressioni di varie parti di sé autentiche, ma comporta anche esigenze esistenziali. “Quando non sappiamo ‘chi abbiamo messo a guidare il treno’, ciò ci rende vulnerabili e soli. L’uomo ha bisogno di sentirsi libero, ma la cultura attuale sottovaluta il suo bisogno di stabilità e appartenenza, valori contrapposti, ma presenti entrambi nel nostro equilibrio psichico. Oggi la libertà prevale su tutto, come se limitarla fosse insopportabile, mentre i bisogni di stabilità e appartenenza sono sottovalutati. Così, negli inevitabili momenti di bilancio personale, si ha l’impressione di non aver realizzato nulla, di aver girato a vuoto”. 

Stabilità e appartenenza sono valori sottoraccontati, considerati vecchi e noiosi, mentre rappresentano un’esigenza umana importante al pari dei bisogni di esplorazione e libertà. “Nell’evoluzione umana hanno concorso tutti e quattro alla sopravvivenza della specie, mentre la nostra cultura attuale spinge l’acceleratore sulla libertà”.

Le conseguenze dell’adultescenza

I disagi legati all’adultescenza hanno diverse ripercussioni. Tutte le funzioni di cura – a vantaggio di bambini, ma anche anziani e persone con disabilità – sono incarnate dallo Stato o da persone mature, considerate i destinatari di questo “dovere”. La cura diventa, quindi, un valore poco praticato anche perché legato all’appartenenza e alla stabilità.

Sul piano sentimentale, l’adultescenza diventa un motivo di insoddisfazione. Solo se centrati, con forti legami con la famiglia di origine, con il gruppo di amici e con la propria identità professionale, si riescono a vivere situazioni amorose volubili e cangianti senza ripercussioni. In generale, queste scelte impediscono l’approfondimento della relazione, mezzo per arrivare all’appagamento del bisogno di stabilità e appartenenza”.

Come tornare a voler essere adulti

Tornare a voler essere adulti è possibile, ma il cambiamento deve partire dal contesto sociale culturale in cui siamo immersi. “Se si intuisce e culturalmente si sostiene non il ritorno a delle abitudini e identità rigide e stereotipate, ma la ricchezza e l’integrazione tra libertà e appartenenza, credo che si possa vedere la vita come una costruzione armonica, che non porta una forte lesione della libertà ma una migliore armonizzazione di questi due valori. Credo che la limitazione della libertà sia utile alla felicità personale proprio perché è un valore, ma relativo, che va rapporto al suo controcanto: stabilità e appartenenza”.

Stefania Leo

Foto di apertura: iakovenko 123rf