Svèvo, Ìtalo

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Biografia

Pseudonimo dello scrittore italiano Ettore Schmitz (Trieste 1861-Motta di Livenza, Treviso, 1928). Di famiglia ebraica (il padre, commerciante di vetrami, era tedesco, la madre italiana), dopo aver compiuto gli studi medi in un collegio bavarese, si iscrisse all'Istituto superiore di commercio di Trieste; ma, in seguito a un grave dissesto finanziario del padre, dovette impiegarsi presso la Banca Union, dove rimase per circa vent'anni. Nel 1896 sposò Lidia Veneziani, figlia di un industriale, titolare di un colorificio, e, nel 1899, entrò nella ditta del suocero: intraprese allora frequenti viaggi all'estero, specie in Inghilterra, e, per perfezionarsi nella lingua inglese, prese lezioni private da J. Joyce, che, esule dall'Irlanda, viveva allora a Trieste, insegnando alla Berlitz School: ebbe così inizio fra i due una feconda amicizia. Morì in seguito alle ferite riportate in un incidente automobilistico.

Opere

L'opera di Svevo, di fondamentale importanza nel quadro della narrativa europea del primo Novecento, fu a lungo ignorata o misconosciuta: solo E. Montale, in Italia, dedicò nel 1925 un ampio saggio allo scrittore triestino, in favore del quale, sollecitati da Joyce, intervennero i critici francesi B. Crémieux e V. Larbaud, i cui scritti, apparsi nel 1926 sulla rivista Le navire d'argent, diedero inizio alla polemica sul “caso Svevo”. Il ritardo con cui l'Italia letteraria accolse l'opera di Svevo si spiega sia per l'opposizione dei critici del regime fascista contro la “degenerazione” ebraica implicita nei temi sveviani dell'inettitudine e della senilità sia, soprattutto, per la condizione di emarginazione culturale di Trieste tra Otto e Novecento. In realtà, la cultura di Svevo gravitava, fin dalla formazione giovanile, in ambito tedesco ed era di carattere più speculativo che letterario. Persuaso, anche per l'influsso di F. De Sanctis, del primato del pensiero sull'arte, Svevo individuò i suoi maîtres à penser in A. Schopenhauer, nella cui filosofia vide l'implacabile demistificazione del “libero arbitrio”, in C. R. Darwin, la cui teoria evoluzionista gli suggerì il personaggio dell'“inetto”, in K. Marx, dalle cui opere trasse il rifiuto del modo di produzione capitalistico e la condanna degli “ordigni” della civiltà tecnologica, e, infine, in S. Freud, di cui condivise la nozione dell'inconscio come limitazione della libertà individuale, senza però riconoscere alla psicanalisi un vero e proprio valore terapeutico. Al centro dell'ideologia di Svevo è infatti la convinzione che la “malattia” è uno strumento conoscitivo insostituibile per l'artista: e un malato è già Alfonso Nitti, il protagonista del suo primo romanzo, Una vita (1892), storia della nevrosi di un giovane provinciale inurbato, della sua iniziazione alla vita affettiva e sociale che si conclude tragicamente con la sconfitta e il suicidio. Se, in Una vita, risultano evidenti i debiti di Svevo verso la scuola naturalistica (specie per le pitture d'ambiente e il clima darwiniano di “lotta per la vita” che grava sulla vicenda), la tecnica narrativa, fondata sul “monologo interiore”, non ha nulla da spartire con il naturalismo: il romanzo oggettivo è aggredito da una disposizione analitica che rallenta il flusso del tempo, sottoponendo il protagonista a un minuzioso scandaglio che ne mette a nudo la nevrosi, la tendenza all'autoinganno. Con Una vita ha inizio la riflessione sveviana sulla “diversità”, concepita come una via d'uscita dal conformismo sociale, anche se per ora l'inetto sente la sua condizione come una colpa da espiare con la morte. Più aperta e ambivalente è l'impostazione del secondo romanzo, Senilità (1898), che affronta l'indecifrabile mistero dei destini individuali, i quali si risolvono, per alcuni, nella frustrazione e nella sconfitta e, per altri, nel successo e nel trionfo. L'insensatezza della vita è qui, in questo enigma, su cui si logora il protagonista, Emilio Brentani, seconda incarnazione dell'inetto: rispetto al primo romanzo, però, l'analisi si fa più capillare e penetrante, soverchiando di gran lunga la trama e fondendo mirabilmente il paesaggio interiore con il paesaggio esterno. Simbolo di tale fusione è il personaggio di Angiolina, che, con la sua procace bellezza popolaresca, personifica il mito di una Trieste gaia e solatia, in contrasto con la senilità psicologica del protagonista. Dopo vent'anni di silenzio letterario, durante i quali si era dedicato all'industria dei suoceri (ma intanto era affiorato nella sua fantasia un nuovo personaggio, l'uomo d'affari), Svevo si accinse, nel 1919, alla stesura del suo capolavoro, La coscienza di Zeno, che portò a termine nel 1922 e pubblicò l'anno successivo. Il romanzo è l'autobiografia di un ricco commerciante triestino, Zeno Cosini, che, condannato dal testamento paterno a vivere di rendita sotto la tutela di un amministratore, trascorre la vita in uno stato di perenne irresponsabilità, unicamente impegnato ad analizzare la sua malattia e a studiarne i sintomi, giudicando retrospettivamente, in termini negativi, la cura psicanalitica che gli era stata proposta da un medico. Più che la storia di una malattia, La coscienza di Zeno è pertanto la storia del rifiuto della guarigione: il nesso salute-malattia è svolto in modo da affermare l'ambivalenza perfetta dei due termini, per cui non è possibile al protagonista raccontare la propria malattia senza, nel contempo, raccontare l'“atroce salute” degli altri, ossia il conformismo sociale. In altri termini, non solo il singolo individuo è malato, ma la stessa vita è una “malattia della materia”, un mondo caotico, in preda alla follia autodistruttiva della guerra, preludio a una “catastrofe inaudita”, prodotta dagli “ordigni” costruiti dall'uomo. È dunque vano qualsiasi sforzo di guarigione, perché nessuno può sottrarsi alla nevrosi prodotta dalla civiltà del denaro e del possesso. Solo un'“esplosione enorme” potrà salvarci definitivamente dalla paura della malattia: sarà forse la morte cosmica, intravista dallo scrittore, nel suo radicale pessimismo, come lo sbocco inevitabile di una civiltà tecnologica che costruisce macchine sempre più perfette; ma potrà essere anche la nascita di un mondo nuovo, prefigurato dagli “inetti” che, a differenza dei “sani”, irrimediabilmente contagiati da uno squallido presente, si sono mantenuti disponibili per progettare l'uomo del futuro. Postumi sono apparsi gli altri scritti di Svevo: La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1929), le novelle di Corto viaggio sentimentale (1949), Saggi e pagine sparse (1954), Commedie (1960), Epistolario (1966), Carteggio (1978).

C. Bo, Riflessioni critiche, Firenze, 1953; L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, Trieste, 1958; A. Leone De Castris, Italo Svevo, Pisa, 1959; B. Maier, La personalità e l'opera di Italo Svevo, Milano, 1961; S. Maxia, Lettura di Italo Svevo, Padova, 1965; M. Forti, Svevo romanziere, Milano, 1966; P. N. Furbank, Italo Svevo, the Man and the Writer, Londra, 1966; N. Jonard, Italo Svevo et la crise de la bourgeoisie européenne, Parigi, 1969; B. Maier, Italo Svevo, Milano, 1971; R. Barilli, La linea Svevo-Pirandello, Milano, 1972; M. Ricciardi, L'educazione del personaggio nella narrativa di Italo Svevo, Palermo, 1972; M. Fusco, Italo Svevo, coscience et réalité, Parigi, 1973; L. Curti, Svevo e Schopenhauer, Pisa, 1992.

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