comune (storia)

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forma di governo autonomo, caratteristica delle città europee e soprattutto italiane dopo il Mille, sviluppatasi in concomitanza con uno dei periodi più splendidi e più fecondi della civiltà urbana. Fin dai sec. IX-X, con la crisi delle istituzioni carolinge, i più influenti ceti urbani (vassalli vescovili e comitali, giudici, mercanti: indicati spesso nei documenti come primiores o potentiores civitatis) si trovarono a esercitare un ruolo politico importante, dapprima in collaborazione e con l'aiuto del vescovo e via via in maniera sempre più autonoma. Di forme di associazione fra gruppi di cittadini, a tutela di certi determinati loro interessi, o di quelli più generali della città, si ha notizia frequente fra il sec. X e l'XI; il rapido sviluppo economico che si verificò a partire dalla seconda metà del sec. X favorì l'ascesa e il rafforzamento di ceti nuovi, artigiani e proprietari fondiari; verso la fine del sec. XI compaiono i primi comuni, come organismi dapprima provvisori, volontari, giurati e costituiti da pochi membri, ma atti ben presto ad imporsi come maggior centro di potere e unica forma di governo per tutti gli abitanti della città e capaci di ottenere dalle autorità esterne (re e imperatori) riconoscimenti di autonomia amministrativa e privilegi fiscali. In alcune regioni d'Europa, particolarmente favorite da un rapido sviluppo economico e mercantile, come in Fiandra e soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, i comuni giunsero a ottenere, oltre all'autonomia, una vera e propria indipendenza di piccoli Stati. Con la Pace di Costanza, per esempio, Federico Barbarossa riconosceva nel 1183 ai comuni della penisola pressoché tutti gli attributi della sovranità: mero e misto imperio, diritto a una legislazione autonoma (gli statuti), pieni diritti fiscali; e ciò in cambio di un formale riconoscimento di superiorità. In Italia il comune ebbe anche la forza di proiettarsi oltre il chiuso ambito delle mura cittadine, conducendo un'opera di penetrazione economica e politica nel territorio circostante, che gli consentì di sottoporre al suo controllo sia gli antichi signori feudali, sia i piccoli comuni rurali e di portare il confine politico-amministrativo a coincidere con quello religioso della diocesi. Contemporaneamente a questa rapida crescita, nel corso del sec. XII, il comune conobbe all'interno vivacissime lotte politiche. Sul governo comunale, che era stato per quasi un secolo nelle mani di un'aristocrazia abbastanza ristretta, cominciarono a premere quei gruppi sociali che ne erano stati esclusi fino ad allora, nonostante sopportassero spesso il maggior peso fiscale e militare. Si determinò un progressivo allargamento della base politica. Alla magistratura caratteristica del primo comune, il consolato (costituito non da due consoli, come nell'antica Roma, ma da un collegio più numeroso, in misura variabile da città a città), si sostituì un magistrato unico, il podestà, il quale, oltre a garantire una guida più ferma e sicura, avrebbe dovuto mediare gli interessi contrastanti dei gruppi sociali; la ristretta assemblea dell'arengo venne soppiantata da un “consiglio generale” composto da varie centinaia di membri, capace di garantire una più larga partecipazione dal basso. Il “popolo” acquistò così un peso sempre più grande nella vita del comune e in alcune città si giunse a una struttura dualistica di governo, con organismi e magistrati popolari (società, consiglio, capitano del popolo) complementari e contrapposti a quelli tradizionali. Non si deve per questo sopravvalutare il processo di democratizzazione dell'ultimo comune: dal partito popolare e dai suoi organi di governo rimasero sempre esclusi non soltanto le popolazioni rurali, ma anche i ceti urbani più umili (piccoli artigiani, salariati, i quali non riuscirono ad andar oltre sterili seppur violentissimi movimenti insurrezionali, come il tumulto dei Ciompi, a Firenze, nel 1378). Molto spesso, inoltre, la fazione popolare venne strumentalizzata da quelle nobiliari e magnatizie che, se ne ricercavano l'alleanza, non ne sostenevano però le aspirazioni. Anche così, tuttavia, l'istituto comunale – sorto come espressione politica di una ristretta base sociale, in una piccola comunità urbana – non seppe resistere al crescere delle tensioni interne: soprattutto quando i contrasti dei partiti si intrecciarono con le lotte sostenute contro i comuni vicini (i membri del partito sconfitto in patria, esiliati – gli extrinseci –, spesso si alleavano con le fazioni di altre città per riconquistare il potere) . Nel periodo più aspro delle lotte fra comuni rivali e fra guelfi e ghibellini (al tempo di Federico II e, dopo la sua morte, durante l'interregno) le cariche di podestà o di capitano del popolo, la cui durata era un tempo limitata a pochi mesi, cominciarono a essere conferite per molti anni alla medesima persona: fu l'inizio del processo che avrebbe portato, nel giro di pochi decenni, all'avvento della signoria. L'assoggettamento a un signore non significò tuttavia la scomparsa delle istituzioni municipali: esse, saldamente controllate dai patriziati urbani, continuarono per molti secoli a conservare ampie prerogative fiscali e amministrative, che limitarono sempre gravemente la capacità di intervento del governo centrale, e costituirono un ostacolo spesso insuperabile ai tentativi di accentramento degli Stati assoluti sino alla fine dell'Ancien Régime.

E. Sestan, Le origini delle signorie cittadine: un problema storico esaurito?, in “Bollettino dell'Istituto storico italiano per il Medioevo”, 1961; G. Volpe, Questioni fondamentali sull'origine e lo sviluppo dei comuni, in “Medio Evo Italiano”, Firenze, 1961; H. Pirenne, Le città del Medioevo, Bari, 1971; G. Centonze, Il comune, Bergamo, 1985.

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