geroglìfico

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agg. e sm. (pl. m. -ci) [sec. XV; dal latino tardo hieroglyphícus, dal greco hieroglyphikós, da hierós, sacro+glýphō, incidere, scolpire]. Nome dato da Clemente Alessandrino alla scrittura ideografica, fonetica e consonantica, usata dagli Egizi dal IV millennio a. C. al sec. V d. C. Incisa prevalentemente su edifici e monumenti sacri e più raramente su papiri, tale scrittura è caratterizzata dall'uso di pittogrammi (cioè disegni), ca. 3000 complessivamente, che riproducono la figura e le membra umane, figure naturali, oggetti e arnesi, ecc. In base al loro valore fonetico, i geroglifici si dividono in tre gruppi: geroglifici monoconsonantici (24 segni, i fondamentali, che sono alla base di tutti gli altri), biconsonantici e triconsonantici. A partire dal sec. IV d. C., in seguito all'uso di trascrivere i geroglifici in caratteri greci, andò perdendosi la conoscenza del loro valore fonetico e se ne conservò il solo valore ideografico, più strettamente legato alla figura del pittogramma. Solo a partire dal 1822, per merito inizialmente di J. F. Champollion, si riscoprì il valore fonetico dei geroglifici e si poté ricostruire a quale suono ciascuno di essi corrispondesse e in tal modo introdurre l'applicazione di normali criteri d'indagine anche nel campo della più antica civiltà faraonica. § Il termine è entrato nel linguaggio comune, in senso fig., a indicare scrittura decifrabile con difficoltà, o un testo la cui interpretazione richiede molta fatica.

Bibliografia

A. H. Gardiner, Egyptian Grammar, Londra, 1950; S. Donadoni, Appunti di grammatica egiziana, Milano, 1963; S. Pernigotti, Leggere i geroglifici, Casalecchio di Reno, 1988.

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