Diritto: generalità

Facoltà di agire e disporre in determinati campi privati o pubblici; esercizio di un'autorità, di una potestà autoritaria. Nel campo del diritto pubblico, questo termine appare come sinonimo di sovranità, di quel poterem superiorem non recognoscens che si esprime in riferimento alle tre distinte funzioni dello Stato: legislativa, esecutiva, giurisdizionale; la prima rivolta a porre in essere le leggi; la seconda rivolta alla loro attuazione concreta, attraverso vari organi amministrativi; la terza rivolta a sanzionare le trasgressioni alle regole stabilite dalla legge. Tra tutti gli studiosi che, in riferimento al diritto pubblico, hanno meditato sul problema del potere, si deve ricordare, nel sec. XVIII, Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755) che pubblicò, nel 1748, un'opera intitolata L'esprit des lois (Lo spirito delle leggi). Secondo questo studioso è un'eterna esperienza che ogni uomo, il quale ha del potere, è portato ad abusarne, e si spinge sino dove trova dei limiti; perché non si possa abusare del potere è necessario che, per disposizione delle cose, il potere arresti il potere. In ogni Stato vi sono tre sorte (cioè tre tipi) di potere: il potere legislativo; il potere esecutivo; il potere di giudicare. La libertà di un cittadino è quella tranquillità di spirito la quale proviene dall'opinione che ciascuno ha della propria sicurezza; e perché si abbia questa libertà, bisogna che il governo sia tale che un cittadino non possa temere un altro cittadino. Quando, nella persona medesima o nello stesso organo, il potere legislativo è congiunto al potere esecutivo non esiste libertà. Non esiste libertà neppure quando il potere di giudicare non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Tutto sarebbe perduto – continua Montesquieu – se lo stesso uomo, o lo stesso gruppo, dei nobili o del popolo, esercitassero questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche deliberazioni e quello di giudicare i debiti o le vertenze dei privati. In conseguenza, secondo questa teoria, detta della “separazione dei poteri”, i tre poteri fondamentali dello Stato, legislativo, esecutivo, giurisdizionale, devono essere separati e svolti da distinti organi, ciascuno dei quali compie, rispettivamente, la funzione predetta. Questa teoria politica ha avuto molto rilievo e importanza anche sino ai nostri giorni. Se si considera la vigente Costituzione repubblicana, si può notare che nella parte II, intitolata “Ordinamento della Repubblica”, il Titolo I è “Il Parlamento” e che (art. 70) “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”; il Titolo III è “Il Governo”; il Titolo IV è “la Magistratura”, che (art. 104) “costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Da ciò deriva che questa teoria politica è stata recepita nell'ordinamento vigente, pur se con taluni contemperamenti. Infatti, nel sistema costituzionale italiano, oltre ai tre poteri propriamente detti abbiamo un Titolo II, dedicato al “presidente della Repubblica”, che (art. 87) “è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale” e nel Titolo VI, Sezione I, è prevista la Corte Costituzionale, che giudica, tra l'altro (art. 134), sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Oltre a ciò vi sono alcune interferenze nelle funzioni dei poteri dello Stato. Per esempio, il governo può legiferare, su delegazione delle Camere (art. 76); in caso di urgenza, può emanare provvedimenti con forza di legge, salva successiva conversione in legge delle Camere (art. 77). Il presidente della Repubblica può concedere la grazia e commutare le pene (art. 87). Da quanto esposto deriva la misura in cui nell'ordinamento vigente è stata recepita questa importante teoria politica, che si basa tutta sull'incisiva e pregnante affermazione: Il faut que le pouvoir arrête le pouvoir. Il potere disciplinare è il potere di applicare sanzioni contro coloro che contravvengono alla disciplina vigente nella pubblica amministrazione, in un'azienda privata, negli ordini professionali, nelle assemblee. Nella pubblica amministrazione il potere disciplinare compete al superiore gerarchico; nell'azienda privata all'imprenditore (che lo può delegare a dirigenti, capiufficio, ecc.); negli ordini professionali agli organi dirigenti; nelle assemblee il potere rimane negli stessi componenti dell'assemblea o è prerogativa del suo presidente.

Diritto internazionale

Nel diritto internazionale, per pieni poteri si intendono quelli riconosciuti a uno o più diplomatici (detti appunto plenipotenziari) di trattare con potere decisivo un affare con uno o più Stati stranieri. Costituendo una delega straordinaria di poteri che abitualmente risiedono nel potere esecutivo, tale delega si restringe solo ad alcuni casi importanti come la stipulazione di accordi bilaterali o multilaterali con altri Stati. Gli atti compiuti dai plenipotenziari tuttavia non hanno capacità vincolativa fino a quando non sono ratificati dal capo dello Stato o dal Parlamento. Unica eccezione a questa regola è la firma di accordi stipulati da plenipotenziari per una tregua che abbia effetto immediato.

Diritto canonico

Due sono le tesi sostenute dai canonisti riguardo al potere temporale dei papi: la prima definisce tale potere un'“istituzione giuridica di sovranità sui generis” (cioè diversa dagli altri poteri civili per il potere religioso che coesiste nella stessa persona che detiene la sovranità); l'altra tesi invece considera il potere temporale un “vero e proprio potere civile”, necessario al papa per godere di una completa indipendenza nell'ambito internazionale. Caratteristiche del potere temporale sono: l'autorità sovrana personale (cioè inseparabile dalla persona del papa); un territorio e dei sudditi su cui poter attuare ed esercitare la sovranità. Il potere temporale dei papi sorse sullo sfacelo dell'Impero romano e si venne consolidando nel Medioevo, resistendo anche nelle molteplici traversie dell'età moderna fino al 1870. Contro le aspre critiche mosse al potere temporale durante il Risorgimento italiano i canonisti cattolici avevano elaborato una difesa nella quale si affermava che il potere temporale era solo “accessorio” a quello spirituale, ma necessario per assicurare al papa l'immunità piena nell'esercizio della sua giurisdizione spirituale: il potere temporale cioè non era un fine ma un mezzo per esprimere il potere spirituale. Questa dottrina fu sostenuta dai pontefici Pio IX, Leone XIII e Pio XI. Questi, nel 1929, metteva fine alla Questione Romana relativa al potere temporale con i Patti Lateranensi, nei quali di tutto il territorio dell'ex Stato pontificio rivendicava solo 44 km², quel tanto sufficiente ad affermare la sovranità del papa e a godere dell'immunità nell'ambito religioso.

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