Lessico

sm. [sec. XVI; da risorgere].

1) Atto ed effetto del risorgere; rinascita, soprattutto al fig.: il risorgimento dell'industria, della cultura. In particolare, l'insieme di movimenti ideologici e di avvenimenti politico-militari che hanno avuto come risultato, nel secolo scorso, il superamento del particolarismo politico italiano e l'unificazione della penisola sotto forma di Stato unitario centralizzato, parlamentare, retto da sovrani della casa di Savoia.

2) Disus., nel senso di Rinascimento.

Storia: origini del Risorgimento

La varietà e il contrasto talora assai acuto dei fattori concomitanti per un risorgimento dell'Italia fanno sì che riesca impossibile stabilirne un esatto termine a quo dato che tale punto di partenza è soggetto al fattore o ai fattori considerati principali e pertanto presi in considerazione. Il 1815 fu il termine accettato dalla massima parte dei contemporanei (Anelli, Nicomede Bianchi, Belviglieri, La Farina) che vedevano nei moti antiaustriaci diretti a sovvertire l'opera del Congresso di Vienna il punto di partenza; mentre altri (Vannucci, D'Ayala) lo vedevano nel 1794, anno dell'esecuzione capitale dei primi “martiri” giacobini. Con l'ottica del distacco dagli avvenimenti il termine fu portato (Manzone, Casini, Fiorini, Franchetti) al 1789, anno dello scoppio della Rivoluzione francese promotrice di tanti rivolgimenti anche in Italia; o al 1749 (Carducci, Omodeo), data iniziale del quarantennio di pace durante il quale furono compiute le importanti riforme a opera dei principi illuminati, preludio allo smantellamento dei residui del mondo feudale; o al 1713 da parte di coloro (Solmi) che nel fattore dell'equilibrio europeo vedevano il punto di partenza dell'evoluzione politica della penisola; o al 1706 da parte dei sabaudisti (De Vecchi) che vedevano nella battaglia di Torino il punto di partenza dell'inarrestabile trionfo dei Savoia; o al 1670 addirittura da parte di coloro (Croce, Cortese) che, centrando l'indagine sul piano culturale, vedevano nel Risorgimento la ripresa del Rinascimento, e in P. Giannone “la voce dell'Italia che si rifà un'anima intera”. Queste prese di posizione dimostrano l'impossibilità di ricondurre il Risorgimento a un'unica causa: il Risorgimento fu l'effetto di tutti quei fattori che al risorgere di un'Italia culturale alla fine del sec. XVII seguirono l'affermarsi della potenza dei Savoia, le riforme dei principi nel secolo successivo e anche l'azione dell'Alfieri che ridiede al Paese un'anima eroica (Maturi); le vicende della Rivoluzione francese provocarono le prime congiure per simpatia ideologica, poi, in seguito all'invasione francese, si crearono le piattaforme per una nuova concezione dei rapporti tra Stato e individui e tra individuo e individuo. È significativo che l'Italia, a differenza della Spagna, della Germania e della Russia, non abbia partecipato alla lotta contro l'Impero nella sua fase finale.

Storia: i moti carbonari e mazziniani

Il Congresso di Vienna ripristinò la situazione del 1796, peggiorandola dal punto di vista politico. La reazione a questo ritorno all'antico fu data inizialmente da elementi militari più o meno legati a quella filiazione della Massoneria che fu la Carboneria. Le congiure di Milano del 1814, di Macerata del 1817, di Napoli del 1820 e del Piemonte del 1821, spesso opera di ex ufficiali napoleonici talora affiancati da intellettuali nobili e borghesi, specie nel Lombardo-Veneto, dimostrarono quanto fossero sterili quei conati di cui solo pochi comprendevano il significato, dato che le truppe, pronte a muoversi all'inizio, erano altrettanto facili a sgomentarsi quando comprendevano ch'esse avevano preso le armi contro il loro sovrano. Non diverso fu il risultato delle insurrezioni del 1831 a Modena, Parma, nelle Legazioni, nelle Marche e nell'Umbria, insurrezioni facilmente represse dagli Austriaci in ciò facilitati dal particolarismo delle città che agirono in base all'egoistico principio “ognun per sé, Dio per tutti”. Fu a questo punto che Giuseppe Mazzini teorizzò che la rivoluzione era possibile solo se il popolo vi avesse coscientemente preso parte; di qui la necessità d'un “apostolato politico”. Egli introduceva però nel suo programma il concetto d'una Repubblica italiana unitaria, il che, se ampliava le modeste richieste dei carbonari che si limitavano a domandare una Costituzione, non era fatto per facilitare il compito prefissosi in quanto creava involontariamente una solidarietà tra l'Austria e i principi italiani. D'altra parte l'apostolato, eccellente in teoria, diventava in realtà impraticabile come fenomeno di massa causa l'impossibilità d'usufruire d'una libera stampa e di libertà di riunione. Pertanto i tentativi mazziniani di congiure e d'insurrezione (Piemonte 1833, Savoia 1834, Romagna 1843, Cosenza 1844, spedizione dei fratelli Bandiera, 1844, Rimini 1845), eseguiti da poche persone, furono altrettanto infruttuosi quanto quelli dei carbonari ed ebbero il solito corollario di condanne e, talora, di esecuzioni capitali. Fu a questo punto che, di fronte al fallimento di un piano che aveva come scopo la soluzione integrale del problema italiano, sorse una corrente moderata tendente a ottenere dai sovrani riforme consone ai tempi moderni e ispirate al modello dei Paesi liberali europei, Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo. Ne fu iniziatore un abate liberal-cattolico, Gioberti, che col Primato civile e morale degli Italiani, apparso nel 1843, sostenne una soluzione federale sotto l'egida del papato; però non risolveva il problema del dominio austriaco nell'Italia settentrionale. Lo seguì Balbo, con le Speranze d'Italia, che dal papato trasportava ai Savoia il centro propulsore della liberazione italiana e prevedeva un “inorientamento” dell'Austria verso il Mar Nero come compenso delle cessioni che avrebbe fatto nella Valle Padana; tennero dietro poi Durando, Torelli e altri, i quali tutti proponevano soluzioni diverse, ma sempre federali, le quali, se agirono sul pensiero della borghesia e di parte della nobiltà, lasciarono però indifferente il popolo. La Sicilia, che aveva suoi problemi particolari, di cui il principale era quello di riacquistare la propria personalità statale distrutta nel 1816 quando era divenuta una semplice regione del Regno delle Due Sicilie e aveva perduto la propria Costituzione accordatale nel 1812, diede l'avvio alla rivoluzione del 1848, questa volta, a differenza del 1820 e del 1837, rivoluzione non più contrastata dalle rivalità cittadine.

Storia: le guerre d'indipendenza

La vittoriosa rivolta siciliana indusse Ferdinando II a promettere la Costituzione (29 gennaio 1848), seguito dagli altri sovrani (Carlo Alberto 8 febbraio, Leopoldo II 12 febbraio, Pio IX 6 marzo) che poco tempo dopo promulgarono gli Statuti. Ma su questo movimento riformista s'innestò l'ondata rivoluzionaria di origine sociale proveniente da Parigi che, diffusasi a Vienna e Berlino, provocò le insurrezioni del Veneto e della Lombardia, insurrezione particolarmente violenta a Milano (le Cinque Giornate, 18-22 marzo 1848). Di fronte al pericolo incombente sul Piemonte dalle repubblicane Francia e Svizzera e dalla possibile instaurazione d'una repubblica anche in Lombardia, a Carlo Alberto, che come tutti i Savoia odiava l'Austria, non restò che mettersi alla testa della guerra contro il vicino impero (vedi prima guerra d'indipendenza), che terminò disastrosamente a Novara il 23 marzo dell'anno successivo. L'ondata rivoluzionaria era stata soffocata a Napoli fino dal 15 maggio 1848; abbattutasi su Roma nel novembre successivo e in Toscana nell'inverno 1848-49, era stata soffocata dai Francesi e dagli Austriaci, non senza l'appoggio di elementi moderati spaventati dalla demagogia, più verbale che reale, degli elementi democratici. Tutto tornò quindi apparentemente come prima; in realtà la prima guerra d'indipendenza eliminò il neoguelfismo (Gioberti stesso ne riconobbe il fallimento con il Rinnovamento) e il movimento federalista repubblicano facente capo a Cattaneo e a Ferrari in Lombardia e a Guerrazzi in Toscana perché entrambi dimostratisi patentemente inattuabili. Rimasero in lizza il federalismo monarchico dei Savoia e l'unitarismo repubblicano di Mazzini. L'accorta politica di Vittorio Emanuele II, successore di Carlo Alberto, fece pendere la bilancia a favore della soluzione monarchica. Non solo, a differenza degli altri sovrani italiani, mantenne lo Statuto, ma chiamò al governo il liberale Massimo d'Azeglio che ne portò i principi in esso contenuti alle estreme conseguenze, abolendo il diritto d'asilo, il foro ecclesiastico e ogni altro privilegio del clero mettendosi sì in urto con la Chiesa ma portando il Piemonte al livello degli Stati moderni. Il suo successore, Cavour, migliorò le condizioni finanziarie del Paese, abolì i conventi di clausura, diede forte impulso all'agricoltura e alla costruzione delle ferrovie, migliorò la marina mercantile e ampliò il porto di Genova distaccando alla Spezia il porto militare. Più determinanti ancora il coraggioso atteggiamento verso l'Austria dopo i sequestri da questa applicati, come rappresaglia al moto mazziniano di Milano del 6 febbraio 1853, ai cittadini sardi già sudditi lombardi, e l'intervento a fianco dell'Inghilterra e della Francia nella guerra di Crimea, compiuto senza nessuna garanzia né promessa di compensi, ma che fruttò moralmente al Piemonte facendo di quest'ultimo la potenza più stimata d'Italia. La modesta discussione sulla situazione italiana avvenuta nell'aprile del 1856 al Congresso di Parigi, pur priva di risultati pratici, “diplomatizzò” la questione italiana portandola dinanzi all'opinione pubblica mondiale e facendola cessare d'essere un problema "interno". La corrente mazziniana, già in ribasso dopo il moto del 6 febbraio, perse ulteriormente credito con l'inconsiderato tentativo di far insorgere Genova contro il Piemonte e con l'infelice esito della spedizione Pisacane (1857) che, pur sconsigliata da Mazzini, fu a lui attribuita. L'indisponibilità inglese per una guerra contro l'Austria spinse Cavour verso Napoleone III e con gli accordi con lui conclusi a Plombières (1858) veniva promesso ai Savoia il regno dell'Alta Italia contro la cessione alla Francia della Savoia e forse anche di Nizza. Al papa veniva lasciato il Lazio e accordata la presidenza della confederazione che sarebbe stata formata dalla Toscana e dalle Due Sicilie, stati sui cui troni Napoleone III avrebbe voluto insediare principi francesi della sua famiglia. Nonostante i tentativi inglesi di impedire il conflitto, esso scoppiò nell'aprile 1859 (vedi seconda guerra d'indipendenza) e finì a luglio con l'armistizio di Villafranca che lasciava il Veneto all'Austria. Questa decisione, che invece di espellere l'Austria dall'Italia le avrebbe dato una parte preminente nella costituenda confederazione, rendeva la soluzione di Plombières impossibile; ancor più impossibile la rendevano le rivoluzioni, da lungo tempo preparate da una società segreta monarchica e unitaria, la Società Nazionale (guidata da ex repubblicani quali Manin e La Farina) in Toscana, nei Ducati, nella Romagna e nell'Umbria (quest'ultima presto riconquistata dai pontifici), che chiedevano l'annessione al Piemonte. Si profilava l'unificazione voluta da Mazzini ma con i Savoia, cosa che non garbava ai Francesi i quali alla fine acconsentirono alla creazione d'un regno sabaudo dal Mincio e da Cattolica all'Ombrone in cambio dell'acquisto da parte loro di Nizza e della Savoia (aprile 1860). Ma ormai il processo unitario era irreversibile e bastò una spedizione, inizialmente d'un migliaio d'uomini condotti da Garibaldi, per sollevare tutta la Sicilia (maggio 1860) e di lì a poco abbattere il Regno borbonico anche nella parte continentale (ottobre 1860). L'occupazione delle Marche e dell'Umbria compiuta dai Piemontesi con il consenso francese e con l'appoggio fattivo della diplomazia inglese (che vedeva in un'Italia unificata un baluardo alla politica espansionistica di Napoleone III) portò nel marzo 1861 alla proclamazione del Regno d'Italia, riconosciuto ben presto da quasi tutte le potenze, Austria e Spagna eccettuate. Il compito non era terminato: mancavano il Veneto e Roma, la cui liberazione diveniva però ora argomento non più di congiure e d'insurrezioni, ma di trattative diplomatiche o di guerre internazionali purtroppo prive della guida di Cavour, prematuramente scomparso. Rimaneva anche insoluto il problema del Mezzogiorno, le cui popolazioni ben presto insorsero per abbattere la situazione creata dall'annessione che peggiorava la loro già misera situazione. Fu una dura guerra di repressione che i Piemontesi dovettero condurre contro i “briganti”, i quali perdettero per il disinteresse dell'Europa e per la mancanza di danaro da parte di Francesco II, re di Napoli in esilio. S'era appena conchiuso questo episodio, che aveva fatto sperare a Napoleone III di disfare l'unità italiana e tornare ai progetti di Plombières, che la guerra austro-prussiana del 1866 fornì all'Italia l'occasione di farsi cedere il Veneto (vedi terza guerra d'indipendenza) e, quattro anni dopo, la guerra franco-prussiana, abbattendo il Secondo Impero, fornì all'Italia l'occasione per svincolarsi dalla convenzione del settembre 1864 (con cui aveva rinunciato a Roma e portato la capitale a Firenze) e occupare l'Urbe che nel 1871 divenne la capitale d'Italia. Con questo episodio si chiuse la fase “eroica” del Risorgimento, attuatosi quasi prevalentemente in mezzo all'indifferenza e, talora, all'ostilità delle masse popolari, e che a molti sembrò, per il modo con cui venne configurandosi (estensione all'intero regno delle leggi costituzionali civili, penali e amministrative piemontesi e degli ordini cavallereschi sabaudi; il non aver mutato Vittorio Emanuele II la numerazione quando assunse il nuovo titolo di re d'Italia, ecc.), una conquista territoriale del Piemonte sul resto d'Italia. Il nuovo Stato nasceva con gravi problemi da risolvere, di carattere sociale, finanziario, economico, religioso, ferroviario, di difesa, ecc. che ne turbarono la vita ma esso, invece di raccogliersi su se stesso, ritenne opportuno buttarsi ben presto nel gioco della grande politica e delle imprese coloniali, aggravando così i propri mali e diventando talora causa di turbamento dell'ordine internazionale. Il movimento irredentistico per Trento e Trieste, che trovò alimento nell'improvvisa esecuzione capitale di Guglielmo Oberdan da parte degli Austriaci (1882), finì con l'influenzare sempre più l'opinione pubblica e, scoppiata la prima guerra mondiale, l'Italia nel 1915 entrò in guerra contro gli ex alleati della Triplice Alleanza a fianco dell'Intesa. Riuscì sì a vincere la guerra e a ottenere le due regioni agognate, ma ne uscì talmente indebolita che sotto la spinta degli avvenimenti interni e internazionali spuntò una nuova era che nulla aveva a che vedere con il Risorgimento ormai definitivamente chiuso: il fascismo.

Storia: la stampa del Risorgimento prima dei moti del 1830

Caratteristica del Risorgimento fu la grande fioritura di giornali e di periodici nata dal clima di libertà e di uguaglianza, fioritura che si contrappose ai pochi giornali ufficiali (o “gazzette privilegiate”) autorizzati dai governi. Essi ne furono a un tempo espressione e sostegno e accompagnarono le alterne vicende politiche in modo tale da divenirne una componente inscindibile. Il primo potrebbe essere considerato Il Caffè (Milano, 1764-66) dei fratelli Verri. Se non aspirò al riscatto dallo straniero e alla fusione in un unico Stato, avvertì l'unità culturale italiana, sostenne la libertà di pensiero, l'utilità del progresso in tutti i campi, il compito di educare il popolo e di aiutarlo a migliorarne le condizioni. Ma perché tali principi da doveri divenissero diritti e investissero la sfera politica, bisognava aspettare l'arrivo dei Francesi. L'entusiasmo per le conquiste della rivoluzione favorì il germogliare tumultuoso di giornali con indirizzi assai vari e contrastanti, quasi tutti di breve durata sia per le vicende internazionali (invasione austro-russa, reazione borbonica), sia, ancor più, per le tumultuose vicende interne che contraddistinsero le vicende delle repubbliche Cispadana, Transpadana, Cisalpina, Italiana, Romana, Napoletana, ecc. Comunque di quel periodo tanto importante per il Risorgimento dell'Italia, meritano d'esser ricordati il Corriere milanese, che durò dal 1796 al 1815; il bisettimanale L'Amico della libertà italiana, sorto nel 1800 a opera di Pietro Custodi; il trisettimanale, poi dal 1806 quotidiano, Giornale italiano. L'autoritarismo dell'impero napoleonico, rendendo difficile la loro vita, sfrondò i meno validi. Quelli che resistettero furono travolti dal ritorno dei governi reazionari (1815), che mantennero in vita, con carattere ufficiale, i giornali a loro graditi. Allora la stampa liberale divenne clandestina oppure abbandonò la politica e ritornò ai temi filantropici ed educativi del periodo illuminista, velando sotto l'ideale del progresso sociale, economico e culturale il fine sempre presente: la libertà. Celebri furono Il Conciliatore (1818-19), promosso a Milano da L. Porro Lambertenghi con F. Confalonieri, S. Pellico, G. Berchet, L. di Breme, G. D. Romagnosi, e l'Antologia, fondata a Firenze da G. P. Vieusseux (1821-33) per stimolare il rinnovamento civile e morale. Vi scrissero G. Capponi, R. Lambruschini, N. Tommaseo, G. Montani, G. Pepe, C. Cattaneo. Ebbero breve vita l'Indicatore Genovese(1827-28) e l'Indicatore Livornese (1829-30) con indirizzo meno moderato, ai quali collaborò Mazzini. I moti del 1830-31 diedero, per poco, nuovo ossigeno, ma dimostrarono con il fallimento la necessità di allargare la propaganda patriottica.

Storia: la stampa del Risorgimento dopo i moti del 1830

Alcuni giornali ritornarono a mascherare il vero fine con quello culturale e scientifico, come Il Politecnico di C. Cattaneo a Milano (1839-44 e 1859-68) e l'Archivio storico italiano (1842, esce ancora) del Vieusseux; altri, per lo più di indirizzo democratico, non nascosero gli scopi politici e sociali, ma furono pubblicati all'estero, come La Giovine Italia di Mazzini a Marsiglia (1832-34) e a Rio de Janeiro (1836), Il Repubblicano della Svizzera italiana a Lugano (1835, cessò dopo varie interruzioni nel 1879), l'Apostolo popolare di Mazzini a Londra (1840-43). Tra le pubblicazioni su posizioni contrarie notevole L'Amico cattolico, periodico apparso a Milano tra il 1846 e il 1856, che fu l'espressione dell'opposizione cattolica a ogni innovazione laica fosse essa liberale o democratica. La libertà di stampa accordata in molti Stati italiani alla fine del 1847 e la rivoluzione del 1848 fecero dilagare i giornali di tutte le tendenze, spessissimo in polemica tra di loro. Se ne ricordano alcuni: a Torino il liberale Il Risorgimento di Cavour e di Balbo (1847-52); La Concordia (1847-50), eccellente quotidiano di posizioni democratiche, fondato da Lorenzo Valerio; Il Fischietto, il famoso giornale satirico che divenne quasi il simbolo dell'acquistata libertà di stampa; L'Opinione, fondata nel 1848, il battagliero quotidiano di Bianchi-Giovini e di G. Lanza; la Gazzetta del Popolo (1848-1981), fiera avversaria de L'Armonia (1848-70) di don G. Margotti di ispirazione cattolica intransigente. A Milano il 22 Marzo, organo ufficiale del Governo Provvisorio della Lombardia, filosabaudista, espressione delle tendenze della nobiltà, dell'alta borghesia e di parte della borghesia intellettuale di tendenze moderate; L'Operaio (1848), a cui collaborarono E. Cernuschi e G. B. Carta; e il mazziniano L'Italia del popolo (1848), trasferito poi a Roma (1849), in seguito a Lugano e a Genova dove cessò definitivamente nel 1858. A Venezia la Gazzetta di Venezia, rinnovata come organo ufficiale della repubblica. A Firenze La Patria (1847-48), divenuto presto quotidiano da settimanale com'era originariamente, di tinta nettamente liberale, che ebbe fra i suoi collaboratori V. Salvagnoli, R. Lambruschini, B. Ricasoli, G. Massari e M. Tabarrini e che fu continuata nel 1849 da un altro quotidiano dal titolo Il Nazionale (dicembre 1848-ottobre 1850), esso pure, come La Patria, diretto da C. Bianchi, ma su posizioni leggermente più democratiche di questa; L'Alba (1847-49), esso pure dapprima settimanale poi quotidiano, di tinta nettamente democratica, cui collaborarono G. La Farina, A. Vannucci, G. B. Niccolini e altri. Più a sud fiorirono a Roma il satirico Il Don Pirlone (1848-49); a Napoli Il Nazionale di S. Spaventa (1848) e il Mondo vecchio e Mondo nuovo di F. Petruccelli della Gattina (1848); a Palermo L'Indipendenza e la Lega (1848), diretto da F. Ferrara; La Costanza (1848-49), che fu il portavoce di G. Raffaele; Il Parlamento (1848), che ebbe come collaboratori M. Amari, F. Perez e V. Beltrami; Lo Staffile e La Vipera (1848), diretti o ispirati da G. Raffaele e velenosi contro il governo Stabile; L'Apostolato di F. Crispi (1848-49), ch'ebbe vita travagliata. Dopo la soffocazione dei moti anche le iniziative giornalistiche languirono, tranne nel regno di Sardegna: a Genova uscì Il Movimento (1855), portavoce di Garibaldi. Altrove la stampa riprese la propaganda a poco a poco con molte cautele come a Firenze Il Piovano Arlotto (1858-62), che si trincerò dietro la satira, e a Milano Il Crepuscolo di C. Tenca (1850-59), che si dichiarò un periodico scientifico-letterario.

Storia: la stampa del Risorgimento dopo l'unificazione nazionale

Con la proclamazione del Regno d'Italia (1861) i giornali si moltiplicarono, divennero più maturi senza però raggiungere una solida struttura moderna, e assunsero un tono diverso in quanto le correnti politiche, non più accomunate dalla necessità di affrancare l'Italia dai governi reazionari e dallo straniero, affiorarono più chiaramente e accesero polemiche sui problemi nazionali, in particolare sulla liberazione di Venezia e di Roma, sui conflitti tra Stato e Chiesa, tra moderati e democratici, tra borghesia e movimento operaio. Nacquero tra il 1860 e il 1870 a Torino L'Unità cattolica (1863), foglio intransigente fondato da don Margotti; a Milano di nuovo Il Pungolo (1859), già edito e poco dopo soppresso nel 1857-58, La Perseveranza (1860), foglio moderato, L'Osservatore Cattolico(1864) di don D. Albertario, intransigente, e Il Secolo (1866), democratico-moderato; a Genova Il Dovere (1863-67), diretto da F. Campanella, cui collaborarono Mazzini, Saffi, Grilenzoni e Asproni; a Firenze La Nazione (1859), voluta da Ricasoli; a Palermo Il Precursore (1860) di F. Crispi e il Giornale Officiale di Sicilia (1860), trasformatosi nel 1863 in Giornale di Sicilia; a Venezia dopo la liberazione (1866) la Gazzetta di Veneziaassunse un orientamento liberale.

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