Lessico

sm. [sec. XIX; dal francese syndicat, da syndic, procuratore legale]. Associazione di lavoratori organizzati per la difesa e la promozione delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Nella terminologia economica: sindacato azionario, contratto stipulato fra più azionisti i quali, allo scopo di difendere i propri interessi nell'amministrazione della società, si obbligano a votare tutti in un modo prestabilito oppure a rilasciare, per l'esercizio del diritto di voto, mandato con rappresentanza a una persona determinata; sindacato finanziario, contratto stipulato fra banche o fra società finanziarie al fine di garantire l'integrale sottoscrizione di una data emissione di titoli azionari od obbligazionari.

Scienze giuridiche e politiche: la struttura dei sindacati

Nel corso del tempo il sindacato dei lavoratori ha assunto varie formule organizzative; elementi importanti sull'evoluzione delle forme del sindacato sono dovute sia all'assetto politico del Paese sia al vigore delle libertà civili e associative. Si hanno così diverse forme di associazione sindacale: le unioni di mestiere e i sindacati (o federazioni) nazionali di industria, che assolvono il compito fondamentale di tutela dei lavoratori; le Camere del lavoro e le confederazioni legate alle sempre maggiori necessità di rappresentanza generale cui i sindacati vengono chiamati a corrispondere nelle varie situazioni. Ma le stesse confederazioni sindacali, che in particolari ambienti possono sorgere, assumono forme e modelli differenti a seconda della cultura sindacale che esprimono e dei fini che perseguono: dalle confederazioni generali a carattere direttivo (tipiche del sindacato comunista) fino alle nuove forme di confederalismo pluralista (per tutte queste forme rimandiamo alle singole voci che si riferiscono alle molteplici organizzazioni sindacali). Sempre più avvertita è la necessità dei diversi sindacati di aggregarsi in organismi internazionali; tra i più importanti ricordiamo la Confederazione internazionale sindacati liberi (CISL), la Confederazione europea dei sindacati (CES), la Federazione Sindacale Mondiale (FSM), la Federazione mondiale del lavoro (FML).Europa le associazioni sindacali hanno avuto in genere maggior diffusione nei paesi settentrionali che in quelli meridionali: nel 1990 in Danimarca l'80% della forza lavoro era iscritta a un sindacato, il 75% in Belgio, il 43% nel Regno Unito, il 42% in Germania, il 40% in Italia, il 30% in Portogallo, il 18% in Grecia e il 10% in Spagna e in Francia.

Cenni storici: le origini del sindacato in Europa e negli Stati Uniti

Il sindacato nasce come conseguenza della “rivoluzione industriale”, in rapporto cioè alle modificazioni del tessuto socioeconomico che essa opera; non si ha, perciò, nella storia una reale esperienza sindacale prima del sec. XVIII. L'affermarsi del modo di produzione capitalistico, a partire dal suo radicarsi in Inghilterra, spinse il proletariato industriale, che aveva lasciato la condizione di lavoratore indipendente per assumere quella di salariato, a costituire associazioni organizzate e permanenti capaci di difendere la propria forza-lavoro, col mutuo sostegno e con le forme di lotta necessarie. Ecco perché fu proprio nella società inglese che mossero i primi passi le esperienze di associazionismo sindacale, fortemente contrastate e non riconosciute sia dai capitalisti sia dalle autorità politiche; esse si batterono per emancipare la vita dei lavoratori dalle condizioni di sfruttamento nelle quali quotidianamente vivevano, per l'aumento dei miseri salari, per la riduzione di un orario di lavoro insostenibile, per la protezione del lavoro minorile. Le unioni sindacali inglesi (Trade Unions) ispirarono, in principio, la propria azione alla tutela delle prerogative del mestiere, ma svilupparono vieppiù la loro azione in vista di un miglioramento delle condizioni complessive del mondo del lavoro, comprendendo la necessità di operare un graduale processo di cambiamento delle condizioni dell'intero sistema economico e sociale. Sorgono così alla fine del secolo, nel solco della tradizione trade-unionista, organismi di coordinamento come il Trade Unions Congress (1874) e l'American Federation of Labor (1886) che negli Stati Uniti d'America contribuì a dar vita a importanti realizzazioni sociali. In seguito le trasformazioni economiche degli anni Trenta condussero l'esperienza americana a nuove forme di unionismo che provocarono un grave contrasto tra le confederazioni che utilizzavano l'organizzazione di mestiere (il vecchio) e quelle che scelsero l'organizzazione per ramo d'industria (nuovo unionismo), fino alla riunificazione dell'American Federation of Labor-Congress of Industrial Organizations. Più lento e complesso lo sviluppo del movimento sindacale nel continente europeo. Dopo una faticosa opera di propaganda nella Russia zarista, Paese giunto tardi ai processi d'industrializzazione, la Rivoluzione russa affidò al sindacato un ruolo di comprimario rispetto al primato assegnato al partito rivoluzionario, secondo le indicazioni di N. Lenin, che rimproverava alle dinamiche del libero associarsi dei lavoratori una chiusura in chiave economicista della classe operaia. Tale concezione fu fatta propria dalla Terza Internazionale, fondata nel 1919 e sostenuta dai partiti comunisti europei. Trasformato in strumento di lotta politica del proletariato ai fini della costruzione di una società egualitaria, il sindacato unico promosso dallo stato visse nell'Unione Sovietica, e nei Paesi socialisti dell'Europa dell'Est, in un regime di monopolio della rappresentanza e di assenza di democrazia che condusse allo svuotamento della sua funzione di difesa del mondo del lavoro. In tale situazione si spiega la nascita di un sindacato come Solidarność, sorto come movimento dei lavoratori che si faceva portavoce di contestazione complessiva del sistema comunista. In Germania dove il divieto di coalizione perdurò fino al 1869, il movimento sindacale prese piede grazie all'opera di F. Lassalle, delle correnti riformistiche di E. Bernstein, che facevano del movimento sindacale un alleato del partito politico nel ruolo di democratizzazione della borghesia, del filone marxista e spontaneista della R. Luxemburg, di K. Kautsky e A. F. Bebel, e infine all'esperienza cristiano-sociale iniziata da W. Ketteler. Tutte le diverse esperienze tedesche furono, comunque, spazzate via dall'avvento del nazismo; nel secondo dopoguerra tale pluralismo originario venne incanalato in una particolare esperienza di sindacato unitario di tipo riformista che avviò importanti esperienze di cogestione. In Francia, contrastato dalla Rivoluzione francese e dalla cultura giacobina, l'associarsi dei lavoratori si appoggiò per un verso alla tradizione cattolica facente capo a C.H.R. La Tour du Pin, dall'altro all'intenso sviluppo di società operaie d'ispirazione blanquista e democratico-radicale, alle esperienze fabiane e all'azione sindacalista rivoluzionaria di G. Sorel, secondo il quale l'azione diretta dei lavoratori, quale si esprime negli scioperi – e in quelli generali in particolare – era l'unico mezzo valido per una trasformazione in chiave socialista della società. L'evoluzione del movimento sindacale portò all'istituzione, nel 1884, della Fédération Nationale des Syndicats Ouvriers e, nella prima metà del sec. XIX, a un pluralismo di organizzazioni sindacali che rispecchiavano il pluralismo interno alla società francese, consolidatosi e arricchitosi nel secondo dopoguerra durante l'esperienza europea del piano Marshall, che vide partecipare attivamente tutti i non comunisti dell'Europa occidentale.

Cenni storici: il sindacato in Italia, dalle origini al primo dopoguerra

La nascita del sindacato in Italia si può far risalire agli anni 1870-80 quando, in corrispondenza con quella che viene indicata come una lunga permanenza dell'economia italiana alle soglie di un vero sviluppo industriale, le trasformazioni del sistema economico-sociale in alcune zone del Paese spinsero le società di mutuo soccorso a organizzarsi in leghe di resistenza. Queste, organizzate rigidamente su base territoriale e di mestiere, andarono diffondendosi negli ultimi due decenni del sec. XIX, dando vita a un tessuto sindacale consistente e articolato. Se lo sviluppo del processo di meccanizzazione e di concentrazione industriale, piuttosto lento nel nostro Paese, rallentò il collegamento delle singole leghe in Federazioni di mestiere a carattere nazionale (in Italia, all'inizio del Novecento, erano solo sette), più rapida fu l'aggregazione a livello territoriale. La prima Camera del lavoro sorse a Milano nel 1891, ma già a fine secolo le organizzazioni camerali esistenti nel Paese erano salite a quattordici. Queste, sorte come organismi a base territoriale delle singole leghe di mestiere, andarono ben presto affiancando alle loro originarie funzioni di controllo del mercato del lavoro e di mediazione nei conflitti sindacali una più vasta attività di difesa delle libertà democratiche, di collaborazione-pressione con i pubblici poteri in vista della realizzazione di vaste riforme sociali e politiche. Di qui il sorgere di conflitti di competenze tra federazioni, controllate dalla corrente riformista, e Camere del lavoro, influenzate in prevalenza dal sindacalismo rivoluzionario. Neppure la nascita della CGL (Confederazione generale del lavoro; 1906) riuscì a placare del tutto i contrasti e a garantire un pieno controllo di tutto il movimento sindacale. La corrente soreliana, messa in minoranza, si distaccò nel 1912 dalla CGL, dando vita all'Unione sindacale italiana (USI). Da questa si sarebbe scisso nel 1914 il gruppo interventista vicino a B. Mussolini, dando vita a un'esperienza che condurrà nel 1918 alla fondazione a Milano dell'Unione italiana del lavoro (UIL); la defezione di Rossoni e delle leghe che a lui facevano capo costituirà la prima organizzazione dei lavoratori del movimento fascista. Nel campo del cattolicesimo sociale, valorizzato dall'enciclica Rerum Novarum e promosso grazie all'impulso dato agli studi dei problemi sociali dal pensiero e dall'azione di G. Toniolo (1845-1918), l'associazionismo che faceva capo prima all'Opera dei congressi e poi all'Unione economico-sociale suscitò, oltre a una vasta rete di casse rurali, di cooperative, di esperienze mutualistiche, un organizzato movimento di “leghe bianche” raccoltosi nel 1918 all'interno della Confederazione italiana dei lavoratori (CIL). Più difficile fu il processo di aggregazione degli imprenditori in sindacato, funzionale a un'efficace esperienza contrattuale: i primi tentativi, sia in campo industriale sia in campo agrario, si registrano a cavallo del sec. XX, ma solo nel 1910 si giunse alla costituzione della Confederazione italiana dell'industria, poi ricostituita nel 1920 come Confederazione generale parallelamente alla nascita della Confederazione generale dell'agricoltura. La prima guerra mondiale aveva fatto toccare con mano la possibilità di un forte intervento dello stato nel sistema economico in vista di una sua modernizzazione; negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto, mentre si affermavano i partiti di massa, anche i sindacati dei lavoratori videro crescere in un primo tempo i loro iscritti. Ma i processi di recessione economica e l'insufficienza della leadership socialcomunista a guidare alcuni tentativi di occupazione delle fabbriche nel 1920 ridimensionarono la forza delle organizzazioni sindacali.

Cenni storici: il sindacato in Italia, il periodo fascista

Il loro peso, di effettiva e legittima rappresentanza sociale, venne infine svuotato dall'avvento del fascismo al potere: prima il patto di palazzo Vidoni (1925) in cui gli organismi padronali, in seguito fascistizzati, riconoscevano come unico interlocutore il sindacato fascista, poi lo scioglimento dei sindacati operai dovuto alla promulgazione delle leggi eccezionali del 1926 condussero all'abolizione delle libertà sindacali. Il fascismo, tra radici socialrivoluzionarie e governo dittatoriale, non mancò di affrontare le questioni del mondo del lavoro, ma lo fece utilizzando una struttura corporativa obbligatoria, che si risolse in una gestione burocratica, e sottoponendo le questioni sindacali all'intervento legislativo dello stato: con la legge Rocco del 1926 istituì una nuova disciplina dei contratti di lavoro, punendo lo sciopero anche per motivi economici; con la Carta del lavoro del 1927 fissava i principi dell'ordinamento sindacale corporativo, avviando la totale fascistizzazione del sindacato; anche la Confederazione generale dei sindacati fascisti viene sciolta nel 1928 e smembrata in sette confederazioni nazionali. Quando nel 1934, infine, inizia l'esperienza di stato corporativo, la contrattazione collettiva è divenuta realtà, ma appare fortemente condizionata dal potere centrale. Per sostenere il consenso delle masse, lo stato fascista si affida a una politica sociale che ruota intorno al rafforzamento di istituti statali previdenziali (come l'INAIL, per gli infortuni sul lavoro; l'INPS, per l'invalidità, la vecchiaia, la maternità ecc.) e la nascita di altri a carattere benefico (l'ONMI., per la maternità e infanzia, e l' Opera nazionale dopolavoro), in grado di controllare e incanalare la vita del mondo del lavoro nei diversi aspetti all'interno dell'organizzazione del regime. Intanto gli esuli socialisti ricostituivano la CGL in Francia, mentre in Italia, nella clandestinità, la corrente comunista creava un'altra CGL, ambedue alimentate dalle forze antifasciste. Ma furono soprattutto le condizioni di sofferenza dei lavoratori, provati dalla durezza di una guerra giunta ormai all'interno del nostro Paese, che si espressero negli scioperi del marzo 1943 e nel marzo-aprile 1944, in piena lotta armata per la difesa delle libertà sociali e civili, di fronte al regime dittatoriale giunto al suo epilogo. Nello stesso periodo si avviarono le trattative tra alcuni partiti aderenti al Comitato di liberazione nazionale, per dar vita a un sindacato unitario che rispettasse la libera partecipazione di tutti i lavoratori; nonostante la cattura di alcuni leader sindacali e l'uccisione di B. Buozzi, i rappresentanti dei partiti democristiano, socialista e comunista firmarono nel giugno 1944 il patto di Roma, per dar vita a una organizzazione sindacale unitaria, seppur divisa per correnti, che si costituì definitivamente, nel primo congresso del gennaio 1945, col nome di Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL).

Cenni storici: il sindacato dal secondo dopoguerra all'autunno caldo

Il passaggio da una guida paritetica delle correnti alla costituzione di un'egemonia comunista in seno alla confederazione unitaria e la differente modalità di azione sindacale che esse incarnavano agitarono continuamente i primi anni di vita del sindacato; contemporaneamente, superata l'emergenza della prima ricostruzione, l'Italia andava assumendo politicamente ed economicamente quella sua collocazione nell'area dell'Occidente democratico, conseguente agli accordi di Yalta e alla divisione di due blocchi contrapposti dell'Europa e del mondo, che non poteva che approfondire le divisioni. Di lì a poco la Costituzione italiana, entrata in vigore dal 1º gennaio 1948, mentre da un lato sanciva la presenza del sindacato (art. 39 e 40) nel regime repubblicano e ne garantiva la libertà, dall'altro condizionava il riconoscimento giuridico all'obbligo di registrazione presso uffici competenti, possibile a condizione che l'organizzazione sindacale avesse un ordinamento interno democratico. In realtà, la legislazione cui rimandavano i dettati costituzionali non venne mai deliberata dal Parlamento. Infatti, se essi fotografavano la situazione del sindacato unitario quale era stata immaginata dalle forze politiche italiane, ben presto non corrisposero più allo sviluppo della reale azione sindacale, che proprio nel 1948 raggiungeva un'esplicita dimensione pluralista. Nel luglio 1948 la corrente sindacale cristiana, in contrasto con l'uso politico che si faceva dello sciopero da parte della corrente comunista, operò una prima scissione dalla CGIL, dando vita alla LCGIL (Libera CGIL); nel 1949, a causa di una scarsa democrazia interna anche le correnti socialdemocratiche e repubblicane lasciarono il sindacato unitario. Una parte dei sindacalisti così usciti dal sindacato unitario creò la FIL (Federazione italiana del lavoro) e, insieme ad altri del sindacalismo autonomo (UFAIL), fece un patto di unificazione con la LCGIL, dando vita nell'aprile 1950 alla CISL (Confederazione italiana sindacati lavoratori), sindacato associativo che ripudiava la dipendenza da correnti politiche. I dissidenti della FIL e alcuni sindacalisti espulsi dalla CGIL costituivano nel frattempo la UIL, che presto avrebbe stipulato un accordo per l'unità d'azione con la CGIL. Divisi tra di loro, soprattutto in riferimento alla partecipazione al piano Marshall, rifiutato dai comunisti, i sindacati ottengono tuttavia una legittimazione sociale che consente loro di assumere un peso sempre maggiore nello sviluppo del Paese e nel processo di normalizzazione del mercato del lavoro, sostenendo sia le lotte contadine e la riforma agraria sia le rivendicazioni salariali del settore industriale. Frattanto, l'opposizione della CISL a una regolazione giuridica del sindacato rilancia un sindacalismo associativo che trova nella contrattazione aziendale, nell'entrata del sindacato in fabbrica e nel riconoscimento del sistema partecipativo il largo consenso dei lavoratori. Anche nella CGIL inizia un processo di autocritica che la porterà a prendere atto delle trasformazioni del sistema produttivo ed economico italiano che condurranno fino al cosiddetto “miracolo economico” dei primi anni Sessanta. Il distacco delle aziende pubbliche dalla Confidustria, il piano Vanoni per l'occupazione (1954-55) e la nascita del Mercato comune europeo (1957), la contestazione al governo Tambroni del 1960, costituivano intanto nuove occasioni per mettere alla prova l'efficacia delle diverse culture sindacali. Sollecitata dalla CISL, si tiene nel 1961 una conferenza sullo sviluppo economico su base tripartita (stato, sindacato dei lavoratori, associazioni imprenditoriali), che tuttavia non dà i risultati sperati. L'avviarsi della nuova fase del centrosinistra, il successo per il contratto dei metalmeccanici e la proposta della CSSL circa il “risparmio contrattuale” segnano le ultime tappe di un cammino che vede il sindacato in Italia ripiegare, di fronte alla crisi dell'economia della metà degli anni Sessanta, su un atteggiamento meramente rivendicativo o di gestione degli spazi conquistati di fronte ai pubblici poteri. Il fallimento della politica della programmazione (il piano quinquennale 1965-69 viene approvato soltanto nel 1967), il nuovo orientamento dei sindacati alla ricerca di una unificazione organica delle tre confederazioni e l'approvazione della legge che costituiva lo Statuto dei lavoratori contribuirono a collocare il sindacato in una situazione incerta di fronte all'esplosione della contestazione studentesca della primavera 1968. In un'attività frenetica per far fronte alla contestazione dei comitati di base e alle tendenze di un nuovo pansindacalismo e operaismo all'interno delle fabbriche le confederazioni accelerarono, a ridosso dell'“autunno caldo” del 1969, il processo di riunificazione, lanciando una forte stagione conflittuale per i rinnovi dei contratti di lavoro. L'emergere di una politica rivendicativa, tendente a ridurre le sperequazioni fra i diversi settori della classe lavoratrice, si affiancò a una vasta azione che investiva la richiesta di riforme sociali e politiche e che individuava nel governo una controparte diretta. L'egemonia culturale e politica realizzata dai partiti marxisti a cavallo degli anni Settanta trovò, tuttavia, all'interno dei sindacati indipendenti, federazioni e unioni provinciali che frenarono l'unità organica ormai in dirittura d'arrivo. Si ripiegò così, nel 1972, sulla costituzione di un patto federativo tra le tre confederazioni che restò in vigore fino al 1984. Gli anni Settanta rappresentarono il momento di più alta politicizzazione del movimento sindacale, che promosse una vasta riorganizzazione interna e un movimento d'opinione importante che contribuì a respingere l'aggressione terroristica agli istituti democratici. Contemporaneamente la crisi energetica e la ripresa inflazionistica fecero comprendere al sindacato la mancanza di reali alternative alla via che conduceva alla corresponsabilità del sindacato in un nuovo modello di sviluppo sociale, riflettendo sugli errori di una politica egualitaria (punto unico di contingenza per tutti i lavoratori, 1975) che col tempo aveva penalizzato le categorie più qualificate, appiattendo eccessivamente le retribuzioni.

Scienze giuridiche e politiche: le nuove istanze del sindacato

Dopo il convegno dell'EUR del 1978, la Federazione unitaria si disse disposta ad accettare dei sacrifici per facilitare la ripresa produttiva, avviando anche una comune e complessa riorganizzazione territoriale (convegno di Montesilvano, 1979). In tale processo, tuttavia, non potevano che riemergere tenaci tentazioni conflittuali tra le differenti culture di cui si facevano portavoce le confederazioni sindacali: contemporaneamente, apparivano nei primi anni Ottanta forme di contestazione e di disaffezione al sindacalismo comunista, mentre i dipendenti FIAT, scendendo in marcia in 40.000 nell'ottobre 1980, manifestavano a Torino contro picchetti che impedivano il rientro in fabbrica. Gli accordi di concertazione cui si giunse il 22 gennaio 1983 tra sindacati industriali e governo sul costo del lavoro e il decreto del 1984 con il quale di conseguenza si operò il taglio di tre scatti di scala mobile riaprirono il confronto tra le confederazioni CGIL, CISL e UIL, che condusse alla fine dell'esperienza federativa: la linea della CGIL, guidata da L. Lama, e del PCI, che portò gli elettori a contestare mediante referendum le scelte del governo sulla scala mobile, in contrasto con gli altri, venne largamente sconfitta dal responso delle urne. Superata la frattura del referendum, i sindacati, guidati dal successore di Lama B. Trentin, firmarono un nuovo accordo per la semestralizzazione della scala mobile che, nel clima di crisi economica, politica e sociale dei primi anni Novanta, venne definitivamente abolita come meccanismo automatico: con gli accordi del luglio 1992 i sindacati rinunciavano alla scala mobile, prevedendo un nuovo sistema contrattuale tra governo, industriali e confederazioni. Con l'acordo del luglio 1993, che accoglieva il contenimento salariale per favorire l'ingresso nell'Unione Europea dell'Italia, Trentin ha passato la mano a S. Cofferati, il quale ha ripreso la linea del suo predecessore, stipulando accordi di lavoro con governo e Confindustria. Nel frattempo, la crisi su scala mondiale delle ideologie, i nuovi problemi di frammentazione sociale e le ulteriori rivoluzioni tecnologiche e informatiche avevano influito sullo sviluppo del sindacalismo italiano. Le tre confederazioni gettarono così le basi di un loro collegamento con forze nuove del mondo del lavoro: la CGIL si orientò sulle Camere di lavoro, come nuove sedi di negoziazione territoriale e nel 1998 costituì un nuovo organismo, la NIDL (Nuove identità del lavoro), volto a organizzare e rappresentare i "nuovi" lavoratori (interinali ecc.) non inseriti nella sfera del posto fisso e permanente. La CISL, dal canto suo, ritrovava le fondamenta della cultura originaria e un nuovo protagonismo a livello europeo: il sindacato riformista alimentava la cultura politica socialista. In più iniziò a stringere patti di collaborazione con diverse associazioni, quali la ACLI e la Compagnia delle Opere, con la mira di costituire un'alleanza per il lavoro non solo dipendente e capace, allo stesso tempo, di ricostruire un'identità cattolica. Nel contempo la profonda crisi del sistema politico italiano e il ritorno di dottrine neoliberiste presentavano al sindacato in Italia nuove importanti sfide circa il suo ruolo sociale, messo in discussione anche dai quesiti referendari (giugno 1995) sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali così come stabilito dallo Statuto dei lavoratori, sull'autonomia delle trattenute sindacali dal salario e sul potere del presidente del Consiglio di decidere quali organizzazioni possano firmare i contratti di lavoro.

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