La vecchiaia, la malattia e la morte

Mai come nella vecchiaia l'individuo si sente dolorosamente esposto alla malattia.

La patologia diventa così parte integrante della quotidianità poiché l'essere vecchi, nella nostra società, non sembra porre alternative. Nel dramma della malattia, l'anziano - che si sente ancora più debole, meno efficiente e di grande peso per la famiglia - si abbandona a sentimenti di esasperata solitudine e di isolamento che lo trascinano verso la più buia emarginazione.

L'ansia, che trova nel senso di deterioramento fisico un terreno quanto mai prolifico per porre radici e svilupparsi, può condurre a forme di somatizzazione che fanno della malattia il motivo della debolezza e dell'insufficienza. La comparsa di una sintomatolgia dovrebbe, anche se in maniera parziale, riuscire a scaricare l'ansia esistenziale dell'anziano proprio perché viene a mancare quel frustrante confronto tra la vecchiaia e la giovinezza dato che la malattia, si sa, è qualcosa che può capitare a chiunque. Nell'analisi di questa dinamica psicologica così conflittuale, alcuni studiosi, ritrovano una chiave per poter affrontare il problema preventivo, terapeutico e riabilitativo dei sintomi psicosomatici presenti nell'anziano e aiutarlo quindi a guarire.

L'infermità, come si è detto, conduce a stati di depressione, ansia e insicurezza che rendono l'anziano ancora più emotivamente bisognoso. Questo dev'essere ben presente al personale socio-sanitario che lo assiste per poter intervenire, non solo allo scopo di alleviare le sofferenze fisiche, ma, fin dove è possibile, anche per ottenere un recupero della persona nella sua totalità.

Se, come ormai da tempo si sostiene in campo medico, della malattia bisogna preoccuparsi quando si è sani, allora forse della morte bisogna ragionare quando ci sente lontani da essa e quanto mai vivi. Purtroppo questa abitudine è ancora poco diffusa e stenta ad affermarsi. La tematica della morte continua a restare un tabù per l'uomo occidentale che non accetta neppure di parlarne e la identifica con un nemico da battere; essa è sempre, nelle prime età della vita, come qualcosa al di fuori, trascendente, anche quando riguarda qualcuno a noi vicino. Quanto più si invecchia, però, tanto più la morte si sente immanente; il vecchio porta in sé, negli ultimi anni, la convinzione che tanto più vive e tanto più si avvicina alla fine della vita e che, dunque, un po' muore ogni giorno. Nell'anziano il dialogo con la morte si fa più serrato e consueto, ma non per questo meno drammatico; e se nelle società rurali la morte avveniva entro le pareti domestiche, in un clima di maggior rassegnazione e accettazione, oggi, con un livello culturale indubbiamente più elevato e un'organizzazione di vita urbana, essa viene rifiutata, allontanata e ospedalizzata. Chi lavora con gli anziani sa bene quanto sia importante il suo ruolo come punto di riferimento davanti al dubbio, alla paura, all'abbandono e alla solitudine e di come, per quei vecchi che lo desiderano, il parlare della morte in generale sia benefico e catartico.

Perché, dunque, si deve pensare alla morte e non rinnegarla? La risposta può apparire forse troppo semplice: la morte è parte integrante della vita, se non si vive non si muore. Essa ci appartiene e il nostro prepararci a vivere la vita implica, in ogni momento, la consapevolezza che la morte, intesa non come la fine della vita, ma come una sua modificazione, ne fa parte in tutto e per tutto. Chi ha fede, o ha una visione dell'esistenza che va al di là della realtà del corpo, vede nella morte non la fine della vita nel mondo, ma la fine della vita biologica. Purtroppo la nostra cultura, che deve ancora compiere molti passi verso un pensiero che faccia della morte un evento plausibile e accettabile, lascia al singolo e alle sue convinzioni il compito di affrontare un così grande mistero.