Francesco Guccini, cantore d'amore, libertà e malinconia

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Un viaggio alla scoperta dei luoghi di Francesco Guccini, profetico e malinconico, a tratti distaccato e a tratti rabbioso, sempre coerente e dolorosamente umano cantautore.

La geografia interiore di Francesco Guccini: una biografia

Il disco inizia a girare, graffia le sue note ed ecco lo strascicare lento di vecchie storie ripescate dalla memoria, scritte con cura in ogni minimo dettaglio, cantate con passione. Parte il viaggio fra le pietre antiche di Pàvana, tra le strade dove ogni finestra è uno sguardo per poi proseguire tra i rumori delle fabbriche, tra la dolcezza dei primi baci a Modena e le risate nelle osterie di Bologna, tra i sogni giovanili di terre lontane. Chi ascolta percorre rapidamente le tappe della vita di Francesco Guccini che con le sue canzoni disegna lo spazio e il tempo e ci permette di appropriarcene. Ecco il viaggio nella geografia interiore di uno dei più grandi cantautori della musica italiana.

C’era una volta a Pàvana: Ricordi

Ai bordi di una periferia umbratile, incassata tra le opposte sponde d’Emilia e di Toscana, adagiata su un pendio appenninico si trova Pàvana, un piccolo paese, uno fra i tanti borghi italici destinato allo spopolamento e all’oblio.  “Oscura e silenziosa”, fatta di pietre, alberi e fiumi che sono lì da tempi immemori, di strette strade dove “senti voci forse di altra età” e “respiri un’aria limpida e leggera”. Proprio qui, in questi luoghi che hanno visto scivolare via tanti tempi e vite, si trova quella “casa sul confine della sera” nella quale Francesco Guccini trascorse la sua infanzia. (Radici, 1972)

Provocante, impegnato, (auto)ironico e soprattutto poetico, Guccini nacque a Modena, il 14 giugno 1940, “sotto al sole caldo” (Canzone dei dodici mesi, 1972). L’Italia era entrata in guerra quattro giorni prima, il mondo intero era in subbuglio, ma al n.22 di via Domenico Cucchiari, Ferruccio Guccini e Ester Prandi avevano trovato un antidoto teneramente antiquato al caos e alla violenza: l’amore, quello per il proprio figlio. Di lì a poco, però, Ferruccio fu chiamato alle armi e sarebbe finito in un campo di concentramento tedesco vicino ad Amburgo, lasciando Ester e Francesco da soli, persi sotto un cielo ostile. Saranno Pàvana e i nonni materni ad accoglierli.

Gli anni trascorsi nella campagna pavanese saranno significativi per il cantautore che con estrema cura nella resa delle parole e una forte nostalgia mista a tenerezza lascerà una testimonianza di chi e cosa ha popolato quei monti assolati e fioriti, degli artigiani di un tempo e di un linguaggio definitivamente perduto. Ultimo custode di un mondo che non c’è più, Guccini vivrà questo compito con diligenza e tanto orgoglio. Pàvana è il luogo in cui tornare per sfuggire al rumore, perché quando la casa è oscura e silenziosa al confine della sera c’è il tempo per scrivere, per domandarsi chi siamo.

Modena, Piccola città: il sapore della vita vera

Con la fine della guerra Guccini fece ritorno a Modena, lasciata pochi mesi dopo la nascita. In questa “piccola città”, in questo “bastardo posto” trascorrerà l’adolescenza, “un incubo scuro, un periodo di buio gettato via”.

Modena rappresenta allegoricamente quell’età di mezzo tra l’essere bambini e l’essere giovani adulti e proprio per questo possiede quel dolceamaro sapore della vita vera, la storia vissuta sulla nostra pelle, quella con cui bisogna fare i conti crescendo. Questo è forse il periodo più tragico della vita di Guccini, il periodo in cui con “la montagna nel cuore, scopriva l’odore del dopoguerra”, quel momento storico in cui le aspettative e le speranze erano tante, ma le possibilità di realizzarle quasi nulle. (Piccola città, 1972)

La Bologna di Guccini: una Parigi minore dal carattere provinciale

Nel 1960 Guccini si trasferì a Bologna, al n.43 di via Paolo Fabbri. Una città capace di cullare con i suoi portici come solo una mamma sa fare, una Parigi minore dal carattere provinciale, per quanto non immortale e spregiudicata ai livelli di Sartre e Baudelaire. Una città difficile da raccontare perché ricca di sfaccettature e contraddizioni, una “bohème confortevole, giocata fra casa e osterie, quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie”. (Bologna, 1981)

Bologna, per Guccini, è la città delle prime storie d’amore importanti, della coscienza politica, dell’emancipazione culturale, delle amicizie e della convivialità nelle osterie fuori porta, la culla perfetta per un ragazzo poco desideroso di crescere: è la città della maturità.

L’America e la fine del viaggio

Gli anni dei vagabondaggi artistici, delle lunghe notti trascorse a sorseggiare vino e degli incontri fortuiti che diventano compagnie per tutta la vita sono arrivati al termine. Adesso “Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta” (Canzone delle osterie di fuori porta, 1974)

L’America dei miti, delle immaginazioni e dei viaggi di fantasia, quell’America che “era il cuore, era il destino” (Amerigo, 1978) si è rivelata “un circo illusorio” (Cristoforo Colombo, 2004). Il mito si è sfaldato, sgretolando una certezza a cui Guccini si era aggrappato negli anni della giovinezza.

Profetico e malinconico, a tratti distaccato e a tratti rabbioso, sempre coerente e dolorosamente umano, aveva cantato la libertà e quel contesto storico-sociale che racchiudeva il destino di molti. Aveva cantato l’amore, quello fatto da “certe crisi” che “son soltanto segno di qualcosa dentro che sta urlando per uscire” (Vedi Cara, 1970) e quello intimo, capace di abbracciare ogni cosa, quello che porta a scoprirsi e riscoprirsi nell’altro e che fa venir voglia di “restare per sempre in un posto solo” (Vorrei, 1996)

Ormai Guccini vede quei luoghi e quei tempi, di cui aveva fatto un ritratto affettuoso, irriverente, intriso di citazioni letterarie che attingevano da un’ampia tradizione, come distanti. Preferisce la vita appartata a Pàvana, tra storiche partite a briscola e colossali bevute sino all’alba. Il suo viaggio non poteva che finire lì: il vecchio e il bambino tornano a stringersi la mano seguendo “il ricordo di miti passati” (Il vecchio e il bambino, 1972)

 

Claudia Monticelli