Franca Leosini: «Il noir è uno spaccato umano, racconta la storia di una società»

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Il noir come specchio di una società e quelle "Storie maledette" dal volto umano: intervista a Franca Leosini.

Dal 1994 conduce Storie Maledette su Raitre: Franca Leosini, giornalista, autrice e conduttrice del programma, è oggi uno dei personaggi televisivi più amati e addirittura star dei social network. 

In Storie Maledette intervista in carcere protagonisti di grandi avvenimenti di cronaca nera. Davanti al suo “quadernone” ricco di appunti, carte processuali e domande sono passati tantissimi protagonisti della cronaca nera italiana, anche recente. Da Rudy Guede, condannato per l’omicidio di Meredith Kercher a Cosima e Sabrina Misseri, detenute per il caso di Avetrana; da Patrizia Reggiani Gucci, condannata per l’omicidio del marito Maurizio Gucci, fino a Luca Varani, mandante dell’aggressione con l’acido a Lucia Annibali, solo per fare qualche nome.

Il suo approccio, il suo rigore e il suo modo di condurre i colloqui sono diventati un tratto distintivo di Franca Leosini e ne hanno decretato il grande successo popolare, anche tra i giovanissimi. Nel 2021 è tornata in tv con il nuovo programma Che fine ha fatto Baby Jane, nuovo format che racconta la vita delle persone dopo il carcere, per sapere cosa succede a persone detenute una volta scontata la pena e per capire come si può, dopo l’esperienza del carcere, tornare alla vita di tutti i giorni.

Laurea in lettera moderne, poi giornalista e poi collaboratrice de L’Espresso, dove inizia a occuparsi di inchieste. Nasce lì l’amore per la cronaca giudiziaria?
«Certi amori nascono molto prima che tu poi li metta in atto. A L’Espresso ho dato sfogo a una passione che ho sempre coltivato, fin da ragazzina. Uno degli elementi di massimo impatto fu l’intervista a Leonardo Sciascia, che fino ad allora non aveva mai parlato. I silenzi di Sciascia rimbombavano per mezza Sicilia e per mezza Europa: per la prima volta ha concesso un’intervista e l’ha fatto con me. Si può dire che il mio esordio è stato questo, sono stata molto fortunata.

La vita è fatta anche di occasioni, bisogna essere fortunati e anche – se me lo concede – capaci, perché le occasioni vanno anche viste e colte. Ho conosciuto Sciascia e ho trascorso sei o sette giorni con lui. Non è stato un incontro al bar o in una redazione, sono andata a cena con lui, ho vissuto con lui e questo è stato il mio lancio professionale. Forse questo, e dico una cosa imbarazzante, mi ha permesso di non fare la gavetta. Come scrissero di Berlinguer “Giovanissimo, si iscrisse alla direzione del partito”: parafrasando, sono stata molto fortunata. È stato un esordio così forte e tutto quello che è successo dopo nasce un po’ da quel servizio. Se vogliamo parlare di esordi, il mio esordio non fu in cronaca nera, ma di tutt’altro segno: è stato culturale, ho fatto anche la terza pagina del Tempo, varie inchieste culturali dell’Espresso. E poi è arrivato il noir».

Il noir che arriva fino a Storie Maledette.
«Il noir racconta la storia di una società, è uno spaccato umano. Ma anche uno spaccato sociale. La lettura di un Paese si può fare anche attraverso i delitti, attraverso la tipologia di reati che si verificano. Ad esempio, ci sono dei reati che al Sud non si verificano, perché sussistono ancora delle tradizioni che magari hanno radici più profonde. Il noir finisce per essere non solo il racconto di una vicenda giudiziaria, ma anche di molto altro».

Il metodo e la preparazione meticolosa delle puntate è un tratto molto evidente di Storie Maledette. Quale approccio segue?
«C’è davvero un grande lavoro dietro. Si comincia dalla scelta del caso. Premettendo che io sono autore unico, ho una redazione al mio fianco che si occupa di tantissimi aspetti tecnici. Noi non esisteremmo se non ci fossero delle meravigliose professionalità che ci supportano. Per il resto mi devono interessare la vicenda, i protagonisti, il dove e il come la vicenda si è verificata, perché il delitto può essere letto anche come spaccato di una società. Scelgo quindi indubbiamente il doloroso interesse della vicenda, anche perché, dietro ogni delitto, ci sono lacrime e sangue. Parliamo sempre di vicende drammatiche che lasciano segni indelebili nella vita delle persone».

Come lavora ad una puntata?
«Ci sono diversi aspetti di cui tenere conto, perché nel programma hanno importanza anche molto il rapporto con il protagonista e la sua forza espressiva, che è comunque rilevante. Spesso mi è capitato di dover fare la puntata con doloroso garbo, anche perché la vicenda aveva risvolti di doloroso interesse. Poi, però, magari il protagonista era un personaggio “debole”. I personaggi in video devono saper rispondere, interagire… È come se preparassi un film, perché dietro ogni puntata ci sono mesi di lavoro. Studio l’ambiente in cui la vicenda si è verificata, devo capire tutto di una storia. I protagonisti ignorano le domande e come sarà l’intervista, io li incontro una sola volta prima delle telecamere. Per loro sarebbe uno shock diversamente.

Avendo accettato di partecipare a Storie Maledette - ed è anche un’accettazione abbastanza impegnativa la loro, anche perché noi non paghiamo i protagonisti -, sanno che vanno incontro ad una scelta morale, ripercorrono la loro vicenda. Sa perché si prestano a questo? Perché indubbiamente ricevono in cambio un restauro di immagine altissimo. Questi personaggi accettano di confrontarsi con me dopo che, all’epoca dei delitti e ancor più all’epoca dei processi, sono stati molto demonizzati e talvolta descritti in una maniera che non gli somiglia. Confrontarsi con il loro passato, anzi scendere nell’inferno del loro passato, è un’operazione molto forte». 

Quindi incontra i protagonisti una sola volta, prima di registrare l’intervista. Con quale approccio?

«Sì, solo una volta. Sanno che io so tutto, che ho studiato tutto. Si scende nell’inferno del loro passato e io cerco di dare una dimensione di verità, non solo alla storia ma anche alla loro identità. I protagonisti di Storie Maledette, così come quelli di Ombre sul Giallo [altro programma condotto da Franca Leosini, ndr], sono persone come me e come lei, che a un certo punto cadono nel vuoto di una maledetta storia. Ecco perché ho chiamato il programma "Storie Maledette": quale percorso c’è stato da una normale quotidianità all’orrore di un gesto come quello che compiono?»

Il suo quadernone è ormai famosissimo
«È il libro delle domande, sono quei mesi di lavoro concentrati là dentro». 

Com’è cambiata secondo lei nel tempo la percezione del male? E del carnefice?
«Non è cambiata la percezione, è cambiata la consapevolezza di chi segue. La televisione ha reso molto presente il crimine nella vita. Pensi solo a da quanti anni è in onda Un giorno in pretura».

Non mi piace parlare di pubblico, detesto questo termine perché lo banalizza. Chi segue questo tipo di trasmissioni sono persone interessate, intelligenti, al di là del livello di cultura. Personalmente, uno dei momenti di massima felicità e trionfo è stato quando ho visto la mia foto in un negozio di frutta e verdura. Perché vuol dire non solo che le persone si interessano alla vita, perché il noir è la vita. Significa anche che come professionisti abbiamo la capacità di arrivare, talvolta con un linguaggio non semplice, a persone che hanno un livello di cultura ed interessi quotidiani diversi».

Il pubblico di Storie Maledette, secondo lei, da che parte sta? È possibile provare empatia per il carnefice, nonostante il giudizio morale per l’atto compiuto? A lei è mai successo?
«La mia prerogativa è quella di accostarmi alle storie senza giudizio e senza pregiudizio, ed è anche la mia forza. È quello che secondo me rende possibile un colloquio sereno e molto duro. Non risparmio nulla, ho il dovere di essere più che rispettosa. Ci mancherebbe! Ho davanti persone che affidano a me la loro vita e ripercorrono l’inferno del loro passato. C’è un dovere professionale e un dovere di civiltà, facendo questo lavoro.

Se per empatia intendiamo comprensione, allora sì. Comprendere non significa giustificare, vuol dire capire che cosa possa aver portato quella persona da una normale quotidianità a fare un gesto che a loro non somiglia. I miei interlocutori non sono professionisti del crimine, questo lo ricordo. Sono persone davanti ad un bivio posto dalla vita e scelgono il percorso sbagliato che pagano duramente».

E dopo le puntate cosa succede?
«Dopo le trasmissioni ricevono valanghe di lettere, ho saputo dalla redazione. Spesso sono lettere di conforto, sono lettere di pietas».

Quanto i media influenzano la narrazione dei casi giudiziari? Quale ruolo devono tenere secondo lei? Ci sono dei casi emblematici che hanno monopolizzato le agende di giornali e talk show per mesi. Pensiamo ad Avetrana ad esempio. 

«È una domanda molto delicata. È come se, indirettamente, mi stesse chiedendo un giudizio sui magistrati. La magistratura, per sua realtà e natura, non deve essere influenzata. E spero che questo non succeda mai. Che esistano dei processi fortemente mediatici è vero.

Pensiamo ad esempio ad Amanda Knox e al processo di Perugia. Ci sono momenti storici in cui si verificano una serie di delitti simili che si sommano e che finiscono quasi per annullarsi l’uno con l’altro e per diminuire il peso specifico nell’opinione pubblica. Il delitto di Perugia ha dominato la stampa per anni. Dipende da molti fattori. A volte conta anche la fascinazione dei personaggi: pensiamo a Perugia, erano bellissimi ragazzi, in un vissuto sociale scolastico/universitario… Una storia molto smaltata, che ha finito per colpire. Altre storie sono passate in secondo piano. Noi giornalisti riusciamo ad essere anche prepotenti nell’imporre, all’interesse di chi segue, determinate vicende piuttosto che altre. La povera Meredith, ad esempio, avrebbe meritato più attenzione; alla fine, tornando a Perugia, è stato il processo di Sollecito e Amanda Knox».

Quali sono le difficoltà che si riscontrano nella realizzazione delle interviste nelle carceri italiane? 
«Le difficoltà ci sono sempre. Avere i permessi per entrare in un carcere non è mai un’operazione facile. Per fortuna adesso, con il nostro lavoro e la nostra onestà professionale, è un po’ più semplice. Ho iniziato nel 1994 con Storie Maledette e quando ho iniziato c’era maggiore apertura. Mano a mano nel tempo c’è stata una chiusura, non è mai facile. Non so se altri programmi ci provino, noi abbiamo un’identità talmente forte… Si può imitare tutto, ma noi siamo inimitabili. Forse per la difficoltà proprio di realizzazione. È un programma di grande responsabilità».

Luca Dellisanti