Cisgiordània

Indice

Generalità

 

Nome con cui si indica comunemente quella parte di territorio a W del fiume Giordano costituita dai distretti di Nablus, Hebron e dalle città di Betlemme, Gerico, Jenin e Ramallah. In inglese West Bank.

Storia

(5655 km²; 2.953.943 ab., stima 2018) La Cisgiordania, appartenente alla Giordania dal 1959, veniva occupata dagli Israeliani dal 1967 al 1993, quando il reciproco riconoscimento tra OLP e Israele e l'accordo per l'autonomia della striscia di Gaza e Gerico, siglato a Washington da ‘Arafāt e Rabin, ponevano le basi per il ritiro israeliano (Accordi di Oslo). Nel maggio 1994, al Cairo, si stabiliva il passaggio della città di Gerico all'Autorità Nazionale Palestinese, un primo sostanziale passo che intanto permetteva il rientro di ‘Arafāt il quale, rafforzando la sua leadership, poteva contenere le spinte oppositrici delle formazioni palestinesi più intransigenti. Nonostante i sanguinosi ostacoli frapposti dagli estremisti d'ambo i fronti e nonostante l'uccisione dello stesso premier israeliano Rabin (4 novembre 1995) da parte di un fondamentalista ebreo, il processo di pace era confermato alla fine del 1995 con il ritiro dell'esercito israeliano da importanti centri della Cisgiordania quali Tulkarem, Nablus, Qalqilyah, Betlemme e Ramallah. Il progressivo passaggio sotto la giurisdizione dell'Autorità palestinese di parte delle città cisgiordane sembrava arrestarsi con la vittoria della destra nelle elezioni politiche israeliane del maggio 1996. Le dichiarazioni ostili rilasciate nel corso della campagna elettorale dal premier israeliano Netanyahu facevano prevedere un'interruzione dei rapporti con ‘Arafāt e un conseguente blocco del percorso di pace. Ma la pressione internazionale e la forza stessa di un processo che, nella sua contraddittorietà, rappresentava comunque l'unica possibilità di giungere a una reale pacificazione della regione, avevano il sopravvento sulle posizioni più radicali interne alla nuova compagine governativa israeliana. Il contenzioso riguardava in modo particolare Hebron, a causa del suo retaggio di città dei patriarchi, alla quale le componenti più fondamentaliste della società israeliana non volevano assolutamente rinunciare. Così, dopo un primo accordo siglato nel gennaio 1997 dal leader israeliano e da quello palestinese sul ritiro delle truppe israeliane da quasi tutta la città di Hebron e sul ridispiegamento dell'esercito israeliano dalle zone rurali della Cisgiordania, nell'ottobre 1998, grazie alla mediazione del presidente statunitense Clinton e del re giordano Ḥusayn, ‘Arafāt e Netanyahu firmavano a Washington un nuovo accordo di fondamentale importanza per la Cisgiordania. L'accordo prevedeva, tra l'altro, il ritiro delle truppe israeliane dal 13,1% del territorio, l'aumento della percentuale delle zone, amministrate dai Palestinesi ma sotto la sorveglianza israeliana, sotto il controllo esclusivo dei Palestinesi e la convocazione del Consiglio Nazionale Palestinese per l'abrogazione della clausola dello statuto che chiedeva la distruzione dello Stato di Israele. La non applicazione dell'accordo da parte del governo israeliano portava nuovi coloni israeliani a insediarsi ancora nei territori palestinesi occupati, provocando ulteriori scontri tra le due parti. Anche in seguito all'elezione nel 1999 in Israele del premier laburista Ehud Barak, più aperto al dialogo con i Palestinesi, il problema dei territori occupati non veniva risolto. Il fallimento dei negoziati voluti dagli Stati Uniti tra ‘Arafāt e Barak, le dimissioni del premier israeliano, la provocatoria visita del leader della destra israeliana, Ariel Sharon, alla Spianata delle moschee di Gerusalemme (dicembre 2000), la conseguente violenta rivolta dei Palestinesi e infine l'avvento al governo israeliano dello stesso Sharon (febbraio 2001), erano elementi che bloccavano ulteriormente qualsiasi speranza di risolvere a breve termine la contesa. Ferma restava la richiesta dei Palestinesi di ottenere l'amministrazione di circa il 90% della Cisgiordania senza discontinuità territoriali, onde evitare un corridoio in mano ad Israele, e il loro rifiuto di acconsentire alla presenza di truppe israeliane, ritenendo sufficiente ai fini della sicurezza un contingente internazionale. Da parte sua, invece, il governo di Sharon intendeva limitare le concessioni a una superficie di poco superiore a quella amministrata dai Palestinesi. Alla fine del 2001 il conflitto nei territori della Cisgiordania riesplodeva, vanificando qualsiasi tentativo di mediazione internazionale e nel 2002 parte delle città sotto giurisdizione palestinese venivano rioccupate dalle truppe israeliane. Negli stessi mesi il governo Sharon avviava la costruzione di una barriera di sicurezza tra Israele e la Cisgiordania, ponendo di fatto fine al già delicato processo di pace. Discostandosi dalla Linea dell’Armistizio del 1949, il muro andava a includere nel territorio israeliano ampie porzioni di quello palestinese. La costruzione di questa barriera difensiva ha avuto effetti economici e psicologici terribili sulla popolazione palestinese. Nel 2011 la maggior parte delle organizzazioni politiche palestinesi, tra cui Hamas e al-Fatah, firmavano un accordo che metteva fine alla divisione tra la Cisgiordania e Gaza e metteva le basi per la formazione di un governo unitario. Nell’estate del 2011 il 60% del muro voluto da Israele era ultimato compromettendo in modo determinante la continuità territoriale della Cisgiordania. In anni recenti, la posizione di Israele è stata rafforzata dall’amministrazione Trump che ha dichiarato legali gli insediamenti ebraici in Cisgiordania che sono negli anni cresciuti esponenzialmente (ad oggi 132 insediamenti per circa 430.000 ebrei).

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