Prìncipe, Il-

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L'opera

La più nota e fortunata delle opere di Niccolò Machiavelli. Fu scritta nel 1513, durante il primo anno del volontario esilio sancascianese, su cui Machiavelli aveva ripiegato dopo la caduta della Repubblica fiorentina, retta da quel Pier Soderini di cui egli era stato il più stimato e ascoltato consigliere. L'opera nasce come approfondimento delle riflessioni su quella esperienza e sul suo fallimento, riflessioni che andavano trovando, nei 18 capitoli già stesi dei Discorsi, il filo di una problematica incentrata sui principi che reggono le repubbliche e le cause per cui esse cedono e volgono a un ordinamento monarchico. L'interruzione di questo lavoro, ancora improntato dall'apparato della tradizionale etica politica, è segnato dalla necessità che spinge Machiavelli a volgersi verso le immediate esigenze della politica attuale, a sollecitarne le forze in gestazione affrontando direttamente il grande problema del suo tempo: quello del principato. Il 10 dicembre del 1513 Machiavelli dà all'amico Vettori notizia del compimento dell'opera, iniziata probabilmente nel luglio dello stesso anno, e così la presenta: “Ho composto un opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale specie sono, come e' si acquisiscono, come e' si mantengono, perché e' si perdono”. Machiavelli sembra muovere infatti da una classificazione puramente scientifica, distinguendo le monarchie in tre specie: quelle ereditarie, quelle nuove e quelle miste. Ma subito la trattazione si focalizza su quello che è il nucleo di problemi che si va ponendo; cioè come si formano, al di fuori di ogni tradizione di prestigio e dignità, i principati nuovi; come si conquistano, o con armi proprie o con truppe mercenarie, con la fortuna o con la virtù; come, comunque conquistati, possano essere conservati. Più che i modelli canonici degli antichi fondatori di Stati, da Mosè a Romolo, a Machiavelli interessa però chiamare in causa quei particolari protagonisti di capitali vicende politico-militari che erano stati i capitani di ventura, dal vittorioso Francesco Sforza fino al più recente Cesare Borgia, quel Valentino che gli appare meglio incarnare l'ideale figura del principe: “... io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua; e se li ordini suoi non profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna”. Il limite permanente dell'azione individuale è infatti la necessità dell'ordine delle cose, ordine naturale e non più trascendente e provvidenziale: la “virtù” del principe non riveste quindi caratteri etici, ma piuttosto psicologici, e si sostanzia di abilità, potenza individuale, fiuto delle situazioni e misura delle proprie possibilità. Al principe si richiede la virtù congiunta della volpe e del leone, intelligenza delle situazioni e istintività di intuito ferino che solo può indicargli le vie della “fortuna”; la sua natura deve quindi essere duplice come quella del centauro, metà uomo e metà bestia. Esistono però alcuni principi generali nell'organizzazione degli Stati, e a questi fondamenti, “le buone leggi e le buone armi”, il principe deve anzitutto attenersi. È per averli trascurati, quindi per la loro “ignavia”, che i principi italiani, privi di eserciti cittadini fidati da contrapporre ai nemici, hanno dovuto pensare “a fuggirsi, e non a difendersi”: poiché “non può essere buone leggi dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene che sieno buone leggi”. Due anni più tardi Machiavelli indirizzò l'operetta a Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, aggiungendo un XXVI capitolo di esortazione al Medici a farsi “principe nuovo”, a intraprendere l'opera di unificazione delle province italiane e “liberarle dai barbari”. Si sarebbe così realizzato quel disegno monarchico-unitario che Machiavelli aveva ben individuato come moderno orientamento della politica europea. Al carattere politico-militare di questo scritto corrisponde la precisa invenzione di uno stile enunciativo, sciolto dalle forme scolastiche del sillogismo, ma che procede invece per interne concatenazioni con andamento analogo a quello che sarà proprio di tutta la prosa scientifica moderna.

La critica

L'opuscolo, che venne pubblicato per la prima volta, postumo, nel 1532, è stato condannato, nell'originale e nelle traduzioni, da cattolici e da protestanti come un tipico modello di quanto venne definito, dal suo autore, “machiavellismo”, cioè come un manuale spietato, ancorché scientifico, di politica, dietro le tracce dell'eterna natura e secondo leggi non modificate dal cristianesimo. La politica è stata valutata nella sua totale indipendenza dalla morale quale scienza governata da leggi sue proprie. Nella seconda metà del Cinquecento e nella prima del Seicento lo scritto è stato considerato nelle sue più efficaci affermazioni volte all'agire politico. Un principe nuovo deve mettersi a capo d'Italia e nella lotta contro lo straniero (Francesi e Spagnoli). In conseguenza della sua azione redentrice (secondo il dettame, spesso frainteso, “il fine giustifica i mezzi”, espressione che non si trova così formulata nell'operetta) il principe si identifica con l'azione dello Stato con forza e immediatezza, l'interesse dello Stato non è altro che l'interesse del capo. La drammatica sequenza delle osservazioni di Machiavelli si immedesima nella figura rinascimentale del principe e criticamente incentra nel personaggio caratteri storici ed elementi mitici: come quando nella famosa Esortazione a liberare la Italia dai Barbari (cap. XXVI citato) si parla di Mosè, di Ciro e di Teseo. Tali citazioni valgono quelle fatte da illustri uomini della storia più recente, da Ferdinando il Cattolico a Francesco Sforza a Cesare Borgia. La situazione politica spinge Machiavelli, nel luglio 1513, a mettere da parte la stesura dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, così densi di meditazioni repubblicane ispirate al benessere dei cittadini di uno Stato, non al solo affermarsi d'un monarca e al suo perdurare con molteplice arte nella lotta politica con le note qualità del leone e della volpe. Per cacciare dall'Italia il “barbaro dominio” il principe, nel riassumere in sé tutti i poteri, è sentito come un salvatore. Dinanzi alla sua azione liberatrice la guerra, coi suoi ordinamenti, è la sola preoccupazione degna di un condottiero. Non v'è alcuna riforma da fare nello Stato, fuor che l'ordinamento militare: anche i problemi economici (del resto dichiarati da Machiavelli estranei alla sua mentalità) sono messi da parte come di scarso o nessun rilievo dinanzi all'azione principale da sostenere. Interessa quanto rafforza il principe nel suo potere, specialmente in caso di guerra combattuta con armi proprie e con deciso sentimento nazionale. Le affermazioni del Principe sono state valutate secondo una conoscenza tecnica, anzi scientifica, dell'arte dello Stato con principi che partono dalla storia antica e tengono conto degli eventi. La conoscenza, che della vita politica attiva Machiavelli ebbe in lunghi anni da segretario della II cancelleria fiorentina e da commissario in varie legazioni, conferma gli ideali utopistici; erano connessi con la liberazione d'Italia in quella difficile contingenza politica fra Carlo V e Francesco I, mentre Guicciardini sceglie freddamente di stare alla sua nuova realtà storica affinché Firenze abbia il minor danno.

Bibliografia

G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Napoli, 1958; F. Chabod, Studi sul Machiavelli, Torino, 1964; F. Gilbert, Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna, 1964; G. Barberi Squarotti, La forma tragica del “Principe” e altri saggi sul Machiavelli, Firenze, 1966; R. De Mattei, Dal premachiavellismo all'antimachiavellismo, Firenze, 1969: J. H. Whitfield, Discourses on Machiavelli, Cambridge, 1969; G. Coppini, Analisi critica dei contenuti filosofici del “Principe”, Firenze, 1990.

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