Prati, Giovanni

poeta italiano (Campomaggiore, Trento, 1814-Roma 1884). Patriota convinto, subì carcere ed esili. Nemico di austriacanti e classicisti, sinceramente monarchico, appassionato sostenitore di Carlo Alberto, fu inviso ai democratici, tanto da essere espulso, nel 1848, sia dal Manin a Venezia, sia dal Tommaseo, in Toscana. Trovò allora stabile dimora in Piemonte, grazie alla protezione dei Savoia, che seguì, con lo spostamento della capitale, prima a Firenze e poi a Roma, meritandosi la nomina a senatore e l'ufficio di poeta regio. Poeta di vena facile e abbondante, godette immensa popolarità in Italia sino al 1860. Incarnò il tipo convenzionale del poeta romantico, volto all'esaltazione della patria e della donna, capace di ogni slancio eroico, ma incline, al tempo stesso, alla più malinconica delle elegie. Immensa la sua produzione: Edmenegarda (1841), elegia in versi ispirata al dramma borghese della sorella di Daniele Manin, Canti lirici (1843), Canti per il popolo (1843), Ballate, i poemi Rodolfo (1853) e Armando (1868), biografie sentimentali dell'eroe romantico, di ispirazione goethiana e byroniana, sono alcune delle sue opere più significative. L'incapacità di approfondire un vero discorso poetico e di liberarsi dalla retorica più convenzionale spiegano, col mutare dei gusti e dei tempi, il rapido calo della sua popolarità dopo il 1860, tanto che le sue opere migliori, Psiche (1876) e Iside (1878), pur ricche di spunti e precorrimenti nuovi, passarono nell'indifferenza e nella disattenzione. In queste raccolte Prati, abbandonata l'ormai consunta tematica, ripiegò verso moduli più intimi e quotidiani, esprimendo le sue evasioni fantastiche in forme idilliche e arcane.

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